Ripensare l'antropologia e in genere tutte le discipline demologiche comporta anche e soprattutto concepire il modo diverso il termine "tradizione". Questo termine per chi è abituato ad associarlo ad una parola come "folklore" (anzi folclore all'italiana) oggi appare un non senso in quanto non solo è mutato il modo di concepire l'antropologia ma è cambiata soprattutto l'attività degli studiosi di tradizioni popolari. Venute meno le classi subalterne, soppiantate da ceti popolari attratti dalla cultura del consumo di massa, parlare di tradizione sembrerebbe un non senso considerando poi che vi è una parte di antropologi collaborativi e contigui con quel fenomeno che viene definito di patrimonializzazione della cultura materiale e immateriale etnografica.
Nella situazione odierna l'UNESCO ha monopolizzato questa attività di salvaguardia della tradizione, ne detta tempi e modi e decide ciò che deve essere considerato "patrimonio dell'umanità"; questa attività di salvaguardia non è rivolta solo ai luoghi ma anche al complesso di beni materiali e immateriali che fanno parte della memoria collettiva dell'intera umanità. Si tratta di un'attività che pone il complesso del patrimonio etnografico da una realtà locale a una dimensione mondiale, un'attività che vista dal punto di vista della salvaguardia è positivo ma che presenta anche delle insidie se la si esamina seguendo le categorie dell'antropologia intesa come disciplina proiettata a spiegare la cultura delle classi subalterne. Se i ceti subalterni tradizionali non esistono più, pur permanendo le differenze, cosa è la tradizione e cosa si vuole salvare del passato? Non si tratta di una questione da poco perché la finalità dell'antropologia e degli studi demologici è mutata, tralasciamo l'attività accademica che coinvolge poche decine di persone e pensiamo invece a tutti coloro i quali volendosi definire "antropologi" si chiedono quale sia il compito dell'antropologo oggi.
La conversione a una forma di antropologia che collabora al processo di riconoscimento dei beni etnografici come patrimonio dell'umanità, può essere uno sbocco "lavorativo" ma dall'altra parte ci suggerisce qualche perplessità. Dalle grandi visioni di un Malinowki o di un Lèvi-Strauss a collaboratori della pro loco? Questo è il destino degli antropologi collaborativi? Quale spazio rimane alla critica? La riduzione allo stato di "tecnico" e di "superperito" è questa la fine dell'antropologo moderno? Ma soprattutto questa nuova condizione ci porta ad un punto cruciale che non può essere eluso: quale credibilità ci può essere in questa attività se le risorse economiche arrivano da istituzioni con le quali bisogna, per ovvi motivi, evitare conflitti. Chi decide cos'è la tradizione? L'antropologo contemporaneo e chi aspira ad esserlo non può eludere queste domande a meno non si abbandoni una volta per tutte la missione dell'antropologia con buona pace di tutti coloro che criticavano il collaborazionismo degli studiosi vissuti durante il fascismo, come ad esempio Raffaele Corso, che avrebbero avuto la colpa di presentare un folklore funzionale agli interessi del regime. La storia si fa beffe degli uomini e pare che oggi si stia facendo beffe di tutti coloro che hanno dileggiato molte delle nostri migliori menti che diedero un contributo importantissimo alla ricerca etnografica.