Lalla Romano è un'autrice che radicata in quel filone della grande narrativa borghese che parla della borghesia e in cui il tema della memoria familiare è dominante; in questo senso è possibile accomunare, almeno per quanto riguarda le tematiche trattate, Lalla Romano a Natalia Ginzburg, ma il retroterra su cui si fonda il genere di letteratura di entrambe è Marcel Proust che privilegiò il racconto fatto di ricordi e di frequenti riferimenti autobiografici.
"La penombra che abbiamo attraversato" è un romanzo ambizioso che si muove in molteplici direzioni e in cui si sovrappongono più piani di lettura; la Romano rievoca da adulta il mondo della sua infanzia e in particolare della madre, ma riporta le impressioni e le emozioni che provava da bambina. C'è molta nostalgia in questa storia retrospettiva che a tratti sembra diventare misteriosa e perdersi in una memoria che diventa imprecisa e tronca. Vi sono numerosi episodi raccontati nel libro che si sono sovrapposti anche al mio ricordo come quello , ad esempio, della maestra, che si riferisce al periodo in l'autrice andava alle scuole elementari. Ad un certo punto scrive "da quel momento la memoria, prima intensa e precisa, cessa bruscamente". E' frequente ricordare episodi, facce, personaggi che si sono fissati nella nostra memoria poi ad un certo punto il vuoto più totale e il ricordo si fa sempre più labile al punto che quando tentiamo di ricostruire una vicenda lo facciamo servendoci di quegli elementi che abbiamo appreso da adulti e tentiamo allora di rievocare una storia che non è più vera anche se facciamo una lista di tutti i presenti della nostra infanzia, ma nella nostra memoria possono rimanere dei particolari esattamente come fa la Romano che ricorda della maestra la sciarpa appesa nell'appendiabiti scolastico "di legno appena sgrossato, dai tozzi pioli". La riflessione personale sulla propria infanzia ci getta inevitabilmente in una condizione di sconforto perché è anche l'occasione per fare i conti con il proprio presente.
E così il ricordo dell'uomo che trainava il carretto che di per sé è un episodio insignificante e imperfetto è un'esplorazione delle proprie radici, quasi un esercizio forzoso che riesce a tenere meravigliosamente unito il passato e che riesce a scaldare il cuore assumendo i contorni suggestivi della fiaba. Una fiaba che riguarda solo lei, la scrittrice, la sua infanzia e la figura della madre. E' proprio la madre la figura centrale del romanzo, la Romano ne ricostruisce la mappa interiore cerca di sostituirsi ad essa, ne esplicita la problematicità nascosta e soffocata nelle piccole delusioni familiari. Anche la figura del padre non è marginale anche se è in secondo piano rispetto a quella materna, l'autrice ricorda con molta tenerezza l'episodio in cui il padre era andato a prendere lezione da un pittore e da cui aveva imparato la tecnica della pittura ad olio.
Un esempio di ricordo del padre che si trova nel libro dà l'idea dello stile letterario dell'autrice: "Arrivava sorridente, con la sua giacca da cacciatore, i gambali di cuoio; si asciugava il sudore. Lo abbracciavamo, ci sedevamo sul prato". Poche parole, essenziali combinate in modo sobrio che danno una caratterizzazione della figura del padre che ho trovato molto efficace
Attingendo quindi da moltissimi episodi fermi nei propri ricordi, la scrittrice riesce a ricostruire con uno stile elegante la trama della propria vita, il valore letterario del libro è innegabile!!!
Ancora un bel libro ambientato in quell'aerea feconda e creativa sotto il profilo letterario che è il Piemonte, questa volta siamo nel cuneese e la memoria non familiare non si intreccia con i grandi eventi storici come in Fenoglio, Calvino o Bocca, forse per questo non arriva mai a urtare la sensibilità comune e a non generare polemiche o contrapposizioni ideologiche.
Il libro è stato pubblicato la prima volta nel 1964 dall'editore Einaudi.
Il racconto come occasione per mettere insieme pezzi del proprio passato.