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30 maggio 2014 5 30 /05 /maggio /2014 06:47

 

 

 

PLATONE

 

 

 

 

 

 

È l'opera di Platone che meglio rappresenta l'essenza stessa della filosofia e di ogni scienza: farsi continuamente domande. Solo in questo modo è possibile pervenire a conoscere un brandello di verità, solo attraverso questo procedimento si può fare progredire la conoscenza.

 

Teeteto.jpg

 

 

Una delle opere di Platone verso la quale vanno le nostre preferenze è il "Teeteto",  in quanto  è il dialogo più filosofica dei dialoghi del grande ateniese, un'opera che non arriva ad una conclusione ma dove è più evidente l'applicazione del metodo filosofico dell'interrogarsi per poi aprire a nuove domande;questa continua problematizzazione è l'essenza stessa della filosofia che apre continuamente nuove porte e che non sempre perviene ad una soluzione del problema. 
La dialettica come confronto e come confutazione è l'essenza stessa della filosofia e in particolare della filosofia della scienza sia per quanto attiene le questioni di contenuto ma anche quelle metodologiche. 

CHE COS'E' LA SCIENZA 

Ancora una volta Platone sceglie il dialogo per esporre il suo pensiero. 
il dialogo si apre con due personaggi, Terpsione ed Euclide, Terpsione racconta di essersi imbattuto in Teeteto che veniva trasportato ad Atene dopo che aveva contratto la dissenteria nel campo di battaglia di Corinto. 
Il dialogo vede ancora una volta protagonista Socrate che domanda a Teeteto cosa sia la scienza. 
Una domanda apparentemente semplice ma sarà proprio questa domanda che aprirà tutta una serie di problematiche e che non sfocierà ad una risposta definitiva. 
Che cosa è la scienza? Teeteto fa quello che fanno tutti quando cercano una via che non conoscono, non da una risposta ma una serie di risposte, alla domanda infatti Teeteto risponde nel seguente modo: 

"Ritengo, allora, che siano scienze tutte le cose che uno può imparare da Teodoro, le nozioni di geometria e tutte le discipline che hai elencato.Inoltre anche l'arte del calzolaio e i mestieri degli altri artigiani, sia nel loro insieme che singolarmente, penso che non siano altre che scienze". 

Se esaminiamo le risposte, non possiamo che condividere l'obiezione di Socrate che osserva che quando Teeteto parla di arte del calzolaio intende riferirsi alla scienza di fare calzature e che quindi la risposta non è pertinente in quanto si riferisce a ciò che da la scienza e al numero delle scienze. 

Questo modo di procedere evidenzia come spesso ad una domanda non solo non segue la risposta pertinente ma spesso si da una risposta che si ritiene corretta, in realtà Socrate esprime un concetto e Teeteto si trova ad un livello di comprensione più basso. 

Il modo di affrontare risulta essere il medesimo anche per altre questioni, se chiediamo per esempio che cosa sia la democrazia, troveremo tutta una serie di risposte diverse che vertono più sulla parte degli strumenti utilizzati in democrazia che su una definizione esaustiva del concetto di democrazia. 

Socrate allora procede nel suo ragionamento attraverso la negazione: scienza ad esempio non è percezione perchè ognuno percepisce secondo i sensi per cui dinanzi al vento uno lo può percepire freddo e un altro no quindi niente avviene senza incontrare ciò che subisce e ciò che subisce reagisce sempre in maniera differente. 
Se la conoscenza non è percezione essa può coincidere solo con la scienza che è sempre scienza di qualcosa, non esiste pertanto conoscenza quando si esprime un'opinione. 

***Questa è la parte dell'opera, a parere mio, più interessante e stimolante perchè spesso si crede che la conoscenza di qualcosa sia qualcosa di soggettivo mentre in realtà si parte sempre da un moto soggettivo che può portare alla conoscenza solo quando tutti gli altri uomini sono in grado di condividerne la scienza. 
In termini semplici Platone sostiene che non esiste conoscenza sino a quando l'intuizione del singolo non diventa scienza che deve essere condivisa. 
L'argomentare di Socrate (Platone) è il tentativo di definire una teoria dell coscenza e questo tentativo è di una straordinaria modernità perchè investe anche problematiche metodologiche oltrechè concettuali. 

Indagare come avviene la verità in noi è sicuramente suggestivo, in altri scritti Platone abbandonerà i dubbi presenti nel Teeteto ma il modo di procedere sarà il medesimo. 
La definizione della conoscenza non potrà quindi prescindere dalla spiegazione di come avvengono i processi conoscitivi, Platone ricorre a due concetti per spiegarli: l'incontro del simile con il simile e l'omogeneità, conoscere significa rendere simile il pensante al pensato. 

Per comprendere il significato del Teeteto sarebbe consigliabile collegare l'opera al Timeo dove Platone scioglierà tutti i dubbi pervenendo ad una teoria della conoscenza che sarà poi ricorrente in tutta la filosofia occidentale: la conoscenza è identià tra il pensante ed il pensato ma è anche una tecnica di accertamento, ogni operazione conoscitiva tende quindi all'oggetto arrivando ad identificarsi con esso e facendo emergere una caratteristica distintiva di esso. 

CONSIGLIO AL LETTORE 

Tra le varie edizioni del "Teeteto" ho preferito quella con il testo originale a fronte, le edizioni disponibili sono quelle edite da Feltrinelli e da Laterza, esiste anche un'edizione della casa editrice Mursia, tutte comunque presentano eccellenti traduzioni. 
Per quanto il testo sia filosofico può tranquillamente essere letto da tutti proprio perchè l'argomentare procede per gradi e con numerosi esempi, il che rende la lettura del libro fluente e fruibile anche da un pubblico non specialista.

 


Opera la cui lettura è indicata anche a tutti coloro che si occupano di teorie cognitive e scienza dell'apprendimento.



 

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Published by Caiomario - in Filosofi: Platone
26 maggio 2014 1 26 /05 /maggio /2014 20:20

 Albert Camus è l'autore che meglio ha saputo usare il simbolo per espirmere le sue idee. I "francesi"  della rive gauche sono stati dei grandi intellettuali che animarono quella stagione straordinaria che caratterizzò la primavera francese sia in campo letterario che filosofico.
 Non è possibile fare una netta separazione tra letteratura e filosofia perché in  entrambe i due campi si trovano talmente intersecati che molti libri di letteratura sono anche libri di filosofia e viceversa.
Lo stesso Camus era amico di Sartre e come lui muoveva dai medesimi presupposti, ecco questo è l'aspetto che più mi affascina e vorrei proprio partire dalla domanda di sempre facendo riferimento ad un saggio di Camus che servirà poi di argomentare  su quel capolavoro  letterario che è "La peste".
Camus scrisse un saggio intitolato "Il mito di Sisifo" che fa riferimento al mito dell'antico eroe condannato per l'eternità a portare un masso sulla schiena, a salire una montagna e a ridiscendere per caricare un'altra volta lo stesso masso che veniva gettato giù dagli dei dispettosi.
Perché l'uomo è condannato a fare cose che non servono a nulla? Una domanda che potremo esprimere in modo più diretto chiedendoci. "Perché l'uomo è condannato per sempre a fare cose che non servono a nulla?
Sartre, non riuscendo a dare risposta a questo quesito, diede forma al suo sfogo scelgiendo la politica e l'ideologia  che lo impegnarono per tutta la vita, Camus invece preferì dare una risposta morale a questo
quesito.
Con un puntiglio simile a quello di chi dà delle istruzioni, Camus, indica una strada per combattere le inquietudini e tutti i messaggieri di morte che annunziano qualsiasi tipo di morbo. Scrive im modo pacato ma sa cogliere nel segno indicando la via maestra per giungere alla rinascita.
Anche nel male e dopo un'esperienza terribile l'uomo può trovare la strada per rinascere trovando nella solidarietà l'unico mezzo davvero efficace per la sua palingenesi rigeneratrice.


IL LIBRO

Autore: Albert Camus
Titolo: La peste
Traduzione: Beniamino dal Fabbro
Editore: Bompiani (pubblicato nella collana "I grandi tascabili"
Anno di pubblicazione: 2000
Pagine: 397
Prezzo: 8,90 euro



La via indicata da Camus sembra l'unica possibile, davanti ad un mondo contradditorio  e schizofrenico, non c'è altra possibilità che prenderne atto, avere coscienza di questo fatto e prendere le contromisure  con una ribellione a bassa intensità costante che dia un senso ad una vita che sembra non averne.
Leggendo "La peste" si comprende sin dalle prime pagine che Camus utilizza l'escamotage della pestilenza per descrivere tutta l'irrazionalità del mondo.
Camus nel suo romanzo  appose la seguente citazione:
«Si può rappresentare nello stesso modo un imprigionamento per mezzo di un altro, come si può descrivere una qualsiasi cosa che esiste realmente per mezzo di un'altra che non esiste affatto»
Le parole sono di Daniel Defoe, il celeberrimo autore di "Robinson Crusoe" e la scelta di Camus sta a significare il suo voler ribadire che l'intento della sua opera è essenzialmente simbolico; la peste di Orano, infatti, non si è mai verificata, ma è anche possibile che Camus abbia voluto rendere un tributo allo scrittore londinese autore di un altro celebre libro sulla pestilenza: "Peste di Londra". In questo libro Defoe narra un fatto realmente accaduto e non di fantasia come quello raccontato da Camus, si tratta della pestilenza che colpì la popolazione di Londra nel 1665 e che venne affrontata con tutta quella carica di disperazione di chi si trova ad affrntare con mezzi scarsi e semplici degli eventi incontrollabili.
La costante che ritorna il tutto il romanzo è la presenza dei topi, della sporcizia e dell'immondizia. I topi veicolo della peste sono combattuti in ogni modo, il loro numero è sovrerchiante e la lotta dell'uomo si dimostra impari anche quando vengono profuse tutte le energie per combattere i pericolosi roditori.
La lotta ai topi descritta da Camus è anche la lotta contro tutto ciò che si riproduce all'infinito, contro quell'assurdo che sono le epidemie di ogni tipo, potrebbero essere epidemie vere e proprie ma anche paure, fobie collettive oppure ancora l'insieme delle menzogne e mistificazioni che continuamente si riproducono nelle realtà più disparate.  
La peste descritta da Camus è un morbo che tiene isolata una citta per dieci mesi è anche la metafora di una società assediata che si chiude in se stessa e si isola dal mondo esterno, ma può essere anche quella del'individuo che assediato da pericoli e attacchi finisce per essere progioniero delle proprie paure e dei propri attacchi.

Crediamo che non ci sia cosa più difficile da combattere del male che ogni giorno si ripresenta come i topi di Camus, più lo combatti più diventa forte e produce degli anticorpi, si mimetizza, si presenta sotto mentite spoglie lasciando quel senso di spossatezza tentatrice che sembra voler indicare nella rinuncia l'unica strada possibile.


Libro intenso che suggerisce una strada verso la solidarietà,  Albert Camus riesce a descrivere in modo efficace le oscure inquietudini che attanagliano l'uomo difronte all'irrazionalià del mondo.


"Il bacillo della peste non muore nè sparisce mai"
(Albert Camus)

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Published by Caiomario - in Libri
26 maggio 2014 1 26 /05 /maggio /2014 12:58

IL TRIONFO DELLA MORTE

GABRIELE D'ANNUNZIO



Accostarsi alla lettura del Trionfo della morte, il più nietzschiano dei romanzi di Gabriele D'Annunzio, può indurre il lettore a confondere l'esteta, come lo intendeva il Vate con il superuomo di Nietzsche, ma il decadentismo non ha niente a che fare con la filosofia di Nietzsche se non per l'influenza che questi ebbe su tutti gli scrittori (D'Annunzio compreso) che credettero di interpretare in modo corretto il pensiero del filosofo tedesco. L'influenza che il  filosofo tedesco ebbe su D'Annunzio, è innegabile ma, per ovvie ragioni, fu un'influenza non voluta; nel secondo Novecento, poi, l'accezione del superuomo come individuo slegato da qualsiasi imposizione della morale è quella che ha avuto più successo ed è anche quella che ha contribuito, in maniera determinante, a non comprendere Nietzsche, difatti coloro che sostengono questa tesi sono solitamente quelli che non hanno mai letto le opere di Friedrich Nietzsche.
Chi scrive ha cercato di tenere distinti i due piani di pensiero anche se una certa vulgata letteraria tende a sovrapporre i due piani ingenerando un equivoco fuorviante.
Nietzsche aveva un'idea di uomo che andava oltre (superuomo nel senso di sopra l'uomo) e che rappresentava un modello per il futuro, un uomo che era libero da qualsiasi superstizione e pregiudizio, D'Annunzio invece, sotto questo punto di vista, rappresenta un decadimento dell'idea nietzschiana.

IL TRIONFO DELLA MORTE UN PASSANTE SI BUTTA DAL PINCIO E SI RINCHIUDONO IN ALBERGO

Il romanzo si compone di 24 capitoli divisi in sei parti, gli unici  protagonisti  sono Giorgio Aurispa e Ippolita Sanzio, entrambi sono amanti; gli altri attori sono delle comparse che si muovono dietro la storia tragica dei due. La parola "amante" in D'Annunzio è pregna di sensualità, gronda di fisicità e non è mai foriera di gioioso trasporto, il poeta raccontava storie di amanti maledetti che nella tragedia personale sublimavano se stessi sino ad annullarsi.
L'inizio del romanzo conferma l'inclinazione di D'Annunzio a narrare episodi che turbano il lettore: siamo sul Pincio, Giorgio e Ippolita stanno passeggiando ad un certo punto una persona si suicida buttandosi nel vuoto.  I due che fanno? Vanno a rinchiudersi in un albergo e non avendo altro da fare Giorgio mostra le lettere che le ha scritto e non le ha mani spedito, Ippolita apprende la folle gelosia di lui, ne è turbata.

LA SEPARAZIONE E LA MAMMA DI LUI

Giorgio e Ippolita vanno verso l'inevitabile separazione, entrano in gioco le figure femminili della sua famiglia: la mamma e le sorelle. La madre suscita in lui pena e amore, mentre è il padre quello che gli ha dato l'imprinting della violenza, da questa tara è impossibile liberarsi e la figura del padre, anonima e misteriosa, è quella che, in parte, ne condizionerà le scelte.

PER RITROVARE L'AMORE SI RIFUGIANO IN UN ALBERGO, MA È L'ULTIMA TAPPA PRIMA DEL TRIONFO DELLA MORTE

Giorgio e Ippolita dopo essersi ritrovati decidono di ritirarsi in un albergo dell'Adriatico abruzzese, la parte del romanzo in cui si descrive questo episodio è tra le più belle, D'Annunzio che di donne  certo se ne intendeva, riesce a descrivere in maniera unica il rapporto carnale che lega i due, la sensualità di lei e l'ossessione che lui prova verso la vitalità straripante dell'amante.
È l'esito che è infausto e, lascia l'amaro in bocca! Giorgio decide di uccidere Ippolita e poi di togliersi la vita.
Giorgio è un raffinato, non c'è dubbio, ma è anche psicologicamente fragile, lo definirei un uomo adulto  instabile  che prova tenerezza verso una madre tradita da un marito che passa da una donna ad un'altra, ma è anche un uomo sul quale le figure femminili svolgono un'influenza che si trasforma in dipendenza totale.
Vedo in Giorgio poco superuomo e tanto infantilismo, fatto già negativo di per sé, che si trasforma in pericolosità quando diventa patologia e Giorgio è letteralmente ossessionato dalla figura della madre e dalla sua psicologia fragilissima.
Ippolita doveva essere molto bella, Giorgio è conquistato dal suo aspetto fisico, il suo è un rapporto carnale che diventa con il tempo sempre più torbido al punto da vedere Ippolita come una Nemica (nel testo la parola è scritta con la lettera maiuscola). Cede a Ippolita diventando trepido e debole, di lei ama tutto: i lunghi capelli che arrivano fino al bacino, le ciocche «ammassate dall'umidità», ma soprattutto il suo essere «cupida e convulsa» che tradotto dal lessico dannunziano significa bramosa di desiderio (insomma era una che amava e voleva essere amata biblicamente parlando).
Gli alberghi: ci si va per lavoro, per turismo o per amarsi, Giorgio e Ippolita facevano di ogni albergo la loro alcova e purtroppo alla fine anche il luogo in cui trovare la morte; una storia di attrazione fisica che diventa una storia di morte? Questo è il romanzo, Giorgio è un debole e forse uno psicotico, per non essere schiavo della carnalità decide di ammazzare lei e di suicidarsi. È terribile, ma questo esito è sconvolgente, come si può pensare di uccidere una donna perché con la sua bellezza si viene turbati?
Giorgio è un fallito, la sua inettitudine è pericolosa, annienta se stesso e gli altri e alla fine cosa rimane? Niente, assolutamente niente.

Di superuomo non c'è niente, l'unica vittima è Ippolita mentre Giorgio è un carnefice.

Il lettore troverà un linguaggio inconsueto per i nostri giorni, ma affascinante; il romanzo merita poi una lettura perché D'Annunzio anticipa un tema come quello dell'inetto che sarà poi ripreso anche da Kafka e da Pirandello...ma questa è un'altra storia.

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Published by Caiomario - in Letteratura
24 maggio 2014 6 24 /05 /maggio /2014 12:20

Si fa presto a dire letteratura e soprattutto si fa presto a dirsi letterati oggi in un periodo contrassegnato da una produzione libraria che non conosce soste.
Basta andare in una libreria per trovarsi davanti a centinaia di titoli per provare un senso di smarrimento al punto che anche il lettore più accorto finisce col perdere l'orientamento non sapendo cosa scegliere: copertine accattivanti, sottotitoli invitanti, riviste librarie sono solo alcuni degli strumenti che costituiscono le sirene a cui i più sensibili non riescono a resistere.
Ma cosa c'entra Jean Paul Sartre con un saggio come "Cos'è la letteratura?" con questa situazione di ingorgo librario? C'entra eccome perché permette di dare una risposta ad una domanda che da sempre i critici si sono fatti da quando sono stati codificati i cosiddetti "generi letterari"
Il modo di maneggiare l'immaginario si è espresso in modi molto diversi eppure le pagine di alta letteratura sono davvero poche, quando parliamo di alta letteratura mi riferisco agli autori che impropriamente vengono definiti dei "classici; il rapporto, poi del lettore con quelle pagine, è quello del co-protagonista che parteggia con violenza e con amore a storie che sono diventate universali; la stessa cosa si può dire per la composizione pittorica che ricorda certe inquadrature di pellicole entrate nell'imaginario collettivo. Eppure non c'è una sola pagina della letteratura contemporanea che possa dirsi davvero originale, non troveremo davvero niente che non si possa considerare come del tutto nuovo al punto che tutti gli autori devono ricorrere al citato se non addirittura al copiato e al rimandato
Gli stili di riferimento utilizzati nella narrativa sono sempre e solo al servizio del racconto, tuttavia anche in questo eterno ritorno è diffcile comprendere le ragioni della scrittura e soprattuto dare una definzione di letteratura; la domanda poi che Sartre si fa è la seguente: "perché si scrive?", una domanda che potrebbe apparire leziosa ma il modo in cui Sartre sviscera la questione costituisce anche una sorta di indagine psicologica sulle ragioni che stanno alla base dell'attività di qualsiasi letterato.

Dalla risposta alla domanda "Cos'è la letteratura?" emerge anche un nuovo modello di intellettuale che è innovativo rispetto al passato, Sartre fa in questo saggio una vera e propria opera di demistificazione nei confronti del concetto tradizionale di letterato (e di letteratura).
A che cosa serve la letteratura? Qual'è la sua funzione all'interno di una società complessa come quella moderna?
Per Sartre non può esistere lo scrittore che scrive per sè e che si esercita nell'arte dell'eloquenza solo per soddisfazione personale ma scrive per essere letto. E' quella di Sartre una virata nei confronti della concezione idealistica ma è anche una ricerca critica ricchissima di sviluppi che si intreccia con un modello di rappresentazione dell'uomo visto secondo l'ottica del critico militante.

Sartre individua il nucleo essenziale della letteratura nella prosa ritenendo la poesia una sorta di arte minore in conflitto con le ragioni della prosa.
Non è una questione di poco conto perché è solo in epoca moderna che si sono incominciate ad elaborare delle teorie sulla letteratura mentre in epoca classica non esiste un termine corrispondente a letteratura.
I Greci, ad esempio, usavano il termine grammatica in un senso completamente diverso da come lo intendiamo noi: con "grammata" loro intendevano qualsiasi documento scritto in quanto ignoravano l'idea dei generi letterari.
La stessa cosa si può dire per la cultura latina nella quale il termine "litteratura" indicava indifferentemente, capacità di elaborare un testo scritto, erudizione e conoscenza linguistica.
Bisognerà attendere il 1200 per trovare i primi testi nei quali si trovano termini come letteratura o littérature, ed è proprio a partire da questo periodo che va affermandosi l'uso di lettres nel senso di cultura.
Quando allora il termine letteratura ha assunto il significato odierno? Solo a partire dall'Illuminismo, è proprio infatti dal '700 che furono elaborate le prime teorie di "critica letteraria".
Gli intellettuali francesi dell'Illuminismo che furono gli "inventori" della prima enciclopedia e dei primi dizionari, diedero la prima definizione moderna di letteratura intesa nel senso di "insieme di testi scritti in una determinata lingua aventi una certa rilevanza culturale".
Sartre parte da questa concezione per elaborare una teoria che fornisce una spiegazione  a diversi interrogativi e in particolare  a quelli riguardanti il  tipo di rapporto che si instaura tra uno scrittore e i suoi lettori. Ciò che attira l'attenzione è quindi lo stacco operato da Sartre nei confronti non solo della concezione classica della letteratura intesa come eloquenza, ma anche nei confronti della definizione di letteratura di origine illuministica che riservava tale termine solo alle opere aventi "rilevanza culturale".
La raccolta di scritti contenuti in questo saggio non è tuttavia monotematica, Sartre affronta problematiche inerenti la filosofia, l'arte, la musica e la cultura intesa nel senso di tutto ciò che gli uomini fanno. Si tratta quindi di una raccolta che consente al lettore di conoscere l'evoluzione del pensiero critico di Sartre la cui intenzione originaria era quella di salvaguardare la razionalità scientifica anche in campi che sembrano non avere dei vincoli metodologici.

LA DIFFERENZA TRA PROSA E POESIA

In questa raccolta Sartre affronta poi il rapporto tra la letteratura e le altre arti e in particolare con la pittura e con la musica; nelle righe precedenti ho evidenziato come Sartre faccia una distinzione tra la prosa e la poesia: la prima è "il regno dei segni" che ha a che fare con i significati, mentre la seconda è il regno della creatività e quindi va messa sullo stesso piano della musica e della pittura.
E' interessante a tal proposito la seguente affermazione "I poeti sono uomini che rifiutano di utilizzare il linguaggio" si badi bene che ciò non equivale a dire che la poesia non sia disciplinata da regole ma che la poesia è il regno della creatività e fa l'esempio del "cavallo di burro" per indicare che l'uso di tale espressione non è altro che il trionfo della creatività che non vuole esprimere niente se non la soggettività dell'autore che non ha, a differenza dello scrittore, l'obiettivo di ricercare la verità.
"Il poeta si ferma alle parole - scrive Sartre- come il pittore ai colori" indicando come il poeta gioca con le parole in quanto è avulso dalla realtà e proprio questo costituisce la bellezza della poesia che è pura creatività a differenza della prosa che è utilitaria.


Basta scrivere per definirsi artista? Ecco la risposta di Sartre:

"Il signor Jourdain scriveva in prosa per chiedere le pantofole, Hitler per dichiarare guerra alla Polonia".

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Published by Caiomario - in Filosofi: Sartre Jean Paul
24 maggio 2014 6 24 /05 /maggio /2014 11:23

 

 

 

 

4416536177_7e331561ca.jpgIsaac Asimov è conosciuto soprattutto per aver scritto una grande quantità di racconti di fantascienza,  fu uno scrittore fecondo e un creatore di un genere, tuttavia non può essere definito il padre della fantascienza che a pieno titolo spetta a Jules Verne, il primo in assoluto che si servì della finzione scientifica per raccontare storie fantastiche.
È un percorso lungo quello che bisognerebbe fare per cercare le radici di questo interesse della fantasia letteraria verso la scienza, ma credo che il problema sia mal posto in quanto non è la letteratura che si è proiettata verso ardite supposizioni scientifiche quanto la scienza che ha bisogno di fare ipotesi che spesso sono il preludio di nuove scoperte.
Prova di questo andamento è lo spirito rinascimentale che ha trovato la sua incarnazione in Leonardo Da Vinci, forse il più fantascientifico degli scienziati di ogni tempo.
Basta scorrere le figure presenti nel Codice Atlantico per scoprire quanto di fantascientifico c'era nelle supposizioni di Leonardo da Vinci che aveva una caratteristica che possiamo anche ritrovare negli scritti di Asimov in cui la scienza si confonde con la fantascienza: il labile confine che esiste tra i due ambiti è tale solo quando la fantascienza non si è svelata in scienza.
Crediamo quindi che la lettura delle opere di Asimov debba andare al di là della semplice fruibilità del racconto; questo vale soprattutto nei confronti di chi ha conosciuto Asimov negli anni '70 leggendo la fortunata serie  di racconti pubblicati nella collana Urania.
Non deve pertanto stupire, fatte queste premesse, scoprire un altro aspetto della complessa personalità di Asimov, legato  al suo interesse nei confronti della  scienza e della filosofia, senza questo interesse probabilmente non ci sarebbero stati quei racconti.

L'universo invisibile. Storia dell'infinitamente piccolo dai filosofi greci ai Quark è  una delle opere scientifiche più importanti di Isaac Asimov che non bisogna dimenticare era un professore universitario esperto  di biochimica; l'opera non può essere tuttavia liquidata come una divulgazione scientifica in quanto, attraverso la storia dell'infinitamente piccolo, Asimov riflette su come si è evoluto l'approccio dell'uomo nei confronti della materia.
Il confine tra l'infinitamente piccolo e l'infinitamente grande è solo apparente e prima di essere affrontato scientificamente necessita di un approccio filosofico: i primi che avanzarono delle ipotesi sull'infinitamente piccolo furono i greci Leucippo e Democrito d'Abdera, quest'ultimo in particolare fu il fondatore di una delle più importanti accademie scientifiche del mondo antico, probabilmente Asimov era convinto di raccogliere l'eredità del fondatore dell'atomismo che oltre ad essere scienziato fu colui il quale per primo avanzò una teoria della conoscenza.
Asimov in 300 pagine condensa la storia di qull'universo invisibile dalle origini fino ai giorni nostri: di particolare interesse la parte che riguarda la fisica quantistica.
La lettura del libro è consigliata a tutti soprattutto perchè l'argomento è affrontato senza cadere nelle tentazione di usare un linguaggio tecnico  specialistico non accessibile a tutti.

Fonte immagine: https://www.flickr.com/photos/40936370@N00/4416536177

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Published by Caiomario - in Libri
20 maggio 2014 2 20 /05 /maggio /2014 18:28

TOMMASO MORO

 

 

Spesso si dice e si sente questa espressione:
"È un'utopia" dove con tale espressione, si indica un disegno bello, fantastico ma inattuabile; tale termine viene usato anche come sinonimo di chimera, di miraggio, tant'è che si usa l'espressione: "È bello ma è un miraggio, è un utopia", potremmo continuare con innumerevoli esempi a riguardo, eppure non tutti sanno che il termine Utopia è stato coniato dall'umanista Tommaso Moro che nel trattato Utopia scritto nel 1516, delineò il modello di una società fondata su dei principi di tipo comunistico e sull'uguaglianza, si tratta quindi di una pura immaginazione e non è casuale la scelta del termine da parte di Moro che  significa LUOGO CHE NON ESISTE ( dal greco ου=non e τοπος=luogo).
Naturalmente visto così dal punto di vista del linguaggio comune, la parola utopia viene interpretata solo letteralmente, ma se indica un ideale che non si può raggiungere, può indicare anche un modello a cui tendere che serve anche per criticare una società esistente.
È chiaro quindi che l'uso strumentale del termine "utopia" deve essere inteso in senso lato e non può essere interpretato solo dal punto di vista etimologico perchè è l'aspirazione ideale che conta non tanto il modello proposto!!
L'Utopia è un trattato che presenta dei tratti assai singolare: il primo libro è improntato sotto l'aspetto dialogico, mentre il secondo ha i tratti di una narrazione dove prevale il genere saggistico.

Nel primo libro la voce narrante immagina di aver conosciuto ad Anversa un viaggiatore portoghese, tale Raffaele Itlodeo che gli racconta di aver viaggiato per molti anni nel Nuovo Mondo e di essere alla fine pervenuto in un paese che si chiama Utopia nel sarebbe vissuto per un lustro, a detta del viaggiatore portoghese la forma di organizzazione della società politica e civile sarebbe superiore a quella delle forme presenti nella civiltà europea.
È interessante vedere come l'esposizione non proceda come un racconto di fantasia ma come qualcosa di realmente esistente, operazione questa, consonsentita dalle scoperte geografiche del periodo per cui l'operazione sillogistica condotta da Moro è la seguente:

« le nuove scoperte sono vere-------Utopia è un luogo in cui vi sono state le nuove scoperte-------quindi Utopia è vera.»

È anche interessante sapere che il termine Utopia venne cambiato, probabilmente dallo stesso More, in Eu-topia che significa: εu=migliore     τóπος=luogo   Il luogo migliore.

COME E' ORGANIZZATA UTOPIA

  • Utopia è un'isola, la cui comunità venne fondata da Utopo che vi trovò una popolazione autoctona, il suo primo intento fu quello di innalzare il livello di civiltà di questa gente.
  • Vi sono cinquantaquattro città abitate da un numero variabile di persone che va dai sessantamila ai novantamila.
  • Le case di ogni abitante è circondata da un ampio giardino, le porte non si chiudono mai e ogni dieci anni ogni singolo nucelo familiare cambia residenza.
  • La civiltà è prevalentemente agricola, i terreni coltivabili circondano la città e gli abitanti sono nel contempo agricoltori ma lavorano a turno, ognuno si trasforma per un periodo in cittadino e in un altro in agricoltore.
  • Non esiste la proprietà privata.
  • Nucleo fondamentale della società è un nucleo base composto da trenta famiglie al cui vertice vi è un magistrato eletto annualmente, la carica è a tempo; i magistrati, poi, eleggono a voto segreto un governatore.
  • Il lavoro tra uomini e donne è paritario .
  • Gli obblighi del singolo consistono nel dare due anni di lavoro agricolo alla comunità
  • I vestiti vengono tessuti e confezionati in famiglia e sono eguali per tutti, l'unica differenza è quella tra maschi e femmine e tra celibi e coniugati
  • Le femmine si possono sposare dopo i dodici anni, i maschi dopo i sedici
  • Il matrimonio non viene mai sciolto, solo in caso di tradimento
  • Le ore di lavoro non possono essere superiori alle sei al giorno
  • Il tempo libero viene dedicato alle attività intellettuali, ad ascoltare conferenze, musica, ad attività ludiche
  • Il lavoro supefluo è bandito
  • Ogni cellula familiare riceve ciò di cui ha bisogno attraverso i vari mercati rionali
  • I malati sono curati con grande attenzione, quelli incurabili possono praticare l'eutanasia ma solo dietro autorizzazione dei magistrati
  • È vietato accumulare ricchezze, l'oro accumulato serve solo per un'eventuale guerra che deve essere rigorosamente difensiva

 

  • LE LEGGI SONO CHIARE, POCHE E COMPRENSIBILI PER TUTTI

 

  • Vige il pluralismo religioso.
  • I preti, uomini e donne, si possono sposare.
  • L' educazione è permanente ed è per tutti.
  • La vita è il bene principale dell'uomo e dunque è bandita la PENA DI MORTE


Molto interessante  è notare come il tema di fondo sia quello della felicità umana ed è questa una proiezione tipicamente umanistica che fu sì una stagione culturale italiana, ma che ben presto conquistò anche altri intellettuali dell'epoca come Tommaso Moro.

È stupefacente vedere che alcuni temi trattati da Moro sono così moderni e attuali che sembrano essere stati scritti da un contemporaneo, eppure si tratta di un'opera che ha quasi cinquecento anni: realismo e idealismo si mischiano dando origine a una visione di società in cui è presente l'impegno contro la degradazione e lo sfruttamento e prospettando una sorta di progetto comunistico del'organizzazione sociale. Da lì a poco ci saranno altre analisi e opere che parleranno dell'organizzazione dello stato, della sua forma completamenti nuovi rispetto ai principi sanciti dalla filosofia platonica e aristotelica:con Hobbes saranno messe le basi di un modo di concepire lo Stato dal punto di vista contrattualistico.
Se Tommaso Moro parlava di Utopia, Hobbes parlerà di Leviatano, una sorta di Moloch che presiede a tutto e che organizza ogni cosa: il popolo, per Hobbes, deve essere sottomesso al sovrano, lo Stato è dotato di un potere assoluto che vincola i sudditi in cambio della garanzia di mantenere la pace e la sicurezza.

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Published by Caiomario - in Filosofi: Moro Tommaso
17 maggio 2014 6 17 /05 /maggio /2014 11:24

Pasquale Galluppi

 

 

Abbiamo visto (¹) che Galluppi   ritiene la ragione il discrimen tra uomo e animali e che il primo, grazie alla sua intelligenza, domina i secondi.ma l'uomo - egli aggiunge- signoreggia non solo sugli animali ma anche sulle cose insensibili. Galluppi per spiegare questo concetto  fa l'esempio del pane; il pane non è altro che farina impastata con acqua e sale,. La farina è ricavata dal grano, ma  l'uomo non è capace di produrre (nel senso di creare) il grano ma è in grado di moltiplicarlo secondo le sue necessità: prepara la terra, la ara e grazie all'aiuto del calore  e dell'acqua piovana, raccoglie i fili di grano che mette da parte formando i covoni dentro i quali vi sono le spighe e  la paglia. L'uomo a questo punto porta il grano nell'aia e lo trebbia e così facendo separa il grano propriamente detto dagli altri corpi estranei.  Dopo di che l'agricoltore rincomincia il ciclo seminando dei granelli di grano. Se si domanda all'agricoltore perché  fa tutto questo, egli risponderebbe che lo fa perché vuole nuove piante di grano, la stessa domanda si può rivolgere  per la mietitura e la trebbiatura  e l'agricoltore risponderebbe che vuole del grano puro per produrre farina dalla quale ricavare il pane o per vendere il grano.

L'esempio illustrato da Galluppi è ancora una volta chiaro e consente di comprendere il significato di mezzo, ritornando all'agricoltore questi  vuole una cosa per ottenerne un'altra «la cosa, che si vuole per ottenerne una'altra, si chiama mezzo; la cosa che si ottine si chiama fine». Tra fine e mezzo vi è una stretta relazione sul piano logico e temporale in quanto è il mezzo che determina il fine o, in altre parole che permette di raggiungere il fine. Ciò che produce una cosa si chiama causa e ciò che è prodotto si chiama effetto. Il fine è quindi un effetto mentre il mezzo è la causa. Tuttavia la distinzione di causa ed effetti è un procedimento di distinzione che fa il pensiero in quanto può accadere che un fine possa fungere anche da mezzo o viceversa. Galluppi parla di «catena di mezzi, e di fini, di cause, e di effetti» e insegna che solo l'uomo è in grado di conoscere le relazioni tra fini e mezzi  e tra cause ed effetto e quindi di dominare le cose; solo l'uomo è infatti in grado di piantare, coltivare e raccogliere il grano da cui ricava la farina per fare il pane.

 

____________________________________________________________________________________

NOTE


(1) Si consulti  a riguardo  Differenze tra uomo e animali ne "La Logica Pura" di Pasquale Galluppi qui pubblicato

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Published by Caiomario - in Filosofi: Galluppi Pasquale
17 maggio 2014 6 17 /05 /maggio /2014 08:49

PASQUALE GALLUPPI

 

La Logica Pura di Pasquale Galluppi consta di cinque capitoli e fa parte dell'opera Elementi di Filosofia, un'opera pubblicata nel 1827  e che poi giunta alla  terza edizione nel 1834, venne ampliata ed aggiornata secondo gli intendimenti dell'autore. Nella stesura di quest'opera, l'obiettivo del Galluppi era quello di dare uno strumento agile e chiaro utile alla formazione dei pensatori, in sintesi il contenuto dei singoli capitoli è il seguente:

  • Primo capitolo: distinzione fra cognizioni pure e cognizioni empiriche;
  • Secondo capitolo: analisi della filosofia critica kantiana e in particolare dei giudizi sintetitici a priori, detta analisi ha l'obiettivo di chiarire l'influenza nel linguaggio nella formazione del pensiero;
  • Terzo capitolo: esame del pensiero speculativo fondato sul principio di identità;
  • Quarto capitolo: «distinzione fra l'ordine delle nostre idee e quello della deduzione delle nostre conoscenze»;
  • Quinto capitolo: Determinazione delle leggi che regolano il metodo analitico e quello sintetico.

 

 

CAPITOLO PRIMO, LA DIFFERENZA TRA L'UOMO E GLI ANIMALI

Galluppi procede adottando un metodo analitico ricco di esempi chiari e comprensibili, il primo esempio riguarda la sensazione che è una peculiarità dell'uomo, se -insegna Galluppi- percuotiamo una pietra o un pezzo di legno entrambi, essendo oggetti inanimati, non sentono dolore, al contrario tutti gli esseri viventi tra cui l'uomo avvertono il dolore se vengono percossi. La natura si divide quindi in due grandi categorie: gli Esseri sensitivi e gli Esseri non sensitivi. Galluppi ritiene che la differenza tra gli esseri sensitivi e gli esseri non sensitivi dipenda dal fatto che nei primi è presente un'Anima che permette di avvertire le sensazioni, infatti gli esseri sensitivi vengono anche denominati esseri animali nel senso che hanno un'anima, gli animali quindi sono quegli esseri che hanno un corpo e un'anima capace di sentire sensazioni, ma ciò che fa la differenza tra un essere sensibile come l'uomo e, ad esempio un altro essere sensibile come il cavallo. è la natura dell'anima. L'uomo rispetto al cavallo sa apprendere, leggere, scrivere, ragionare, è quindi la Ragione l'elemento che costituisce il confine tra l'uomo e gli animali che possono essere definiti anche esseri irrazionali, mentre l'essere umano è un animale razionale o ragionevole e nel contempo sensitivo. L'uomo quando ragiona esprime un giudizio che a sua volta viene dedotto da altri giudizi. Il razionicinio e la capacità esprimere giudizi fanno sì che l'uomo domini gli altri animali che quanto a forza bruta possono essere anche superiori all'uomo ma non quanto ad intelligenza. A tal proposito Galluppi annota « Il bove è un animale che ha una forza superiore a quella dell'uomo, nondimeno l'uomo lo domina, gli fa arare la terra, l'impiega al carro per fargli trasportare de' corpi molto pesanti e lo fa' così servire ai suoi fini, l'uomo dunque domina sugli altri animali sulla terra, non già per la forza del suo corpo; ma per la ragione che regola i moti del suo corpo».

 

Continua su:

Causa, effetto, fine e mezzo ne "La Logica" di Pasquale Galluppi


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Published by Caiomario - in Filosofi: Galluppi Pasquale
15 maggio 2014 4 15 /05 /maggio /2014 20:57

 

PASQUALE GALLUPPI

 

 

Pasquale Galluppi è stato, insieme al Rosmini e al Gioberti uno dei maggiori esponenti dello Spiritualismo Italiano il cui ambizioso compito fu quello di revisionare criticamente il pensiero europeo rivalutando la filosofia come scienza delle scienze il cui valore normativo ed etico doveva essere sorretto dalla trascendenza divina.  Galluppi evidenzia quelli che a suo parere erano i principali errori del pensiero europeo arrivando a queste conclusioni: 

Cartesio che creando la realtà invece di scoprirla finì coll'identificare il valore logico con la realtà ontologica, inoltre Cartesio negando l'importanza dell'esperienza non seppe cogliere l'oggettività della percezione degli oggetti esteriori costruendo una filosofia priva di ogni contatto con la realtà senisbile.
Malebranche portò alle estreme conseguenze la filosofia cartesiana approdando ad un inconcludente monismo spinoziano.  
Spinoza negò ogni ruolo dell'esperienza concependo una natura a priori che condusse il razionalismo al panteismo. L'errore di Locke fu -secondo il Galluppi- quello di avere spianato la strada all'empirismo le cui
estreme conseguenze si sono viste in una forma di empirismo mostruosa come quella teorizzata da Helvetius.

Galluppi non risparmia le critiche a Condillac, Hume e Berkeley, il primo ha condotto l'empirismo alla deriva del sensualismo, Hume invece ha condotto l'empirismo verso posizioni scettiche mentre Berkeley  partendo dalla negazione dell'esperienza è approdato ad un idealismo dogmatico.


Kant è un condensato degli errori precedenti che lo porta ad elaborare un soggettivismo trascendentale che non sono altro che uno scetticismo e un empirismo mascherati.
Hegel, Fichte e Schelling costruiscono il loro idealismo derivandolo direttamente da Kant ed approdando ad un nichilismo inconcludente e difficile da comprendere a causa dell'utilizzo di termini astrusi e di concetti indecifrabili.

Galluppi bolla i pensieri  di questi tre filosofi come un delirio che merita compassione non solo per le loro filosofie indecifrabili ma anche perché negando la realtà individuale non danno una soluzione alla problematica gnoseologica. 



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Published by Caiomario - in Filosofi: Galluppi Pasquale
13 maggio 2014 2 13 /05 /maggio /2014 18:16

 

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La filosofia Kantiana sotto la lente di Hegel (3)

Georg Wilhelm Friedrich Hegel

Per comprendere le obiezioni che Hegel rivolse alla filosofia kantiana bisogna considerare che la logica non è uno strumento formale necessario alla conoscenza ma ha un significato ontologico e metafisico; il rigetto di Kant assume dei toni che sfiorano la vera e propria ridicolizzazione riguardo ad espressioni come «unità trascendentale dell'autocoscienza» che sembrano nascondere qualcosa di difficile mentre -dice Hegel- «la cosa è più semplice» in quanto la distinzione tra trascendentale e trascendente è una forzatura. L'idea che le leggi della conoscenza siano soggettive a priori viene respinta da Hegel che bolla come  «bizzarro  » e come «stortura», tuttavia nonostante questo giudizio negativo Hegel amette che c'è qualcosa di vero nell'idea che le categorie appartengano soltanto a noi nel senso che
«non sono contenute nella sensazione immediata» e fa due esempi:

Primo esempio: «Se consideriamo, per es., un pezzo di zucchero, vediamo che è duro, bianco, dolce ecc. Ora diciamo che tutte queste proprietà sono unite in un oggetto, e quest'unità non è nella sensazione»; (1)

Secondo esempio: «Lo stesso se connsideriamo due eventi in quanto stanno in rapporto di causa ed effetto; in tal caso vengono percepiti due eventi isolati che si succedono nel tempo. Ma che l'uno sia la causa e l'altro l'effetto (il nesso causale tra di loro), questo non viene percepito, ma si dà soltanto per il nostro pensiero. Sebbene le categorie (come, per es. unità, causa ed effetto, ecc.) spettino al pensiero come tale, non ne segue ancora affatto che le categorie siano perciò qualcosa di semplicemente nostro e non siano anche determinazioni degli oggetti stessi».(2)

Per Kant -spiega Hegel- le cose stanno esattamente in questo modo, è l'Io che dà la forma al contenuto del conoscere ossia alla realtà che trova la sua unità solo nell'Io. Di contro osserva Hegel non è importante sapere che le cose siano in quanto non si avrebbe alcun vantaggio nè per noi per le cose stesse, mentre è importante che il contenuto sia vero. L'esistenza del contenuto non è importante di per sè, ciò che invece conta è il valore dello stesso, un delitto -dice Hegel- esiste ma la sua esistenza è nulla quando «giunge poi ad essere come tale nella pena».

______________________________________________________________________________________

NOTE

(1) In op.cit p.198

(2) In op. cit. p.198

 

Articoli correlati

La filosofia Kantiana sotto la lente di Hegel (1)

La filosofia Kantiana sotto la lente di Hegel (2)

 


Fonte immagine: https://www.flickr.com/photos/26480501@N06/9636385888

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