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1 maggio 2014 4 01 /05 /maggio /2014 19:45

Uomini-diversi-da-noi.-Lineamenti-di-antropologia--copia-1.jpg

 "Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sociale"  è un'opera scritta  da John Beattie, studioso, filosofo e  antropologo che ha dato un contributo importante agli studi di antropologia sociale.
La prima edizione  in lingua italiana del libro risale al 1978, la sua riproposizione in anni successivi è una dimostrazione che l'opera è diventata un importante punto di riferimento nella bibliografia dei testi di antropologia sociale.
A questo punto è bene fare una precisazione su che cosa sia l'antropologia sociale dato che nelle righe precedenti abbiamo parlato di antropologia culturale; in modo schematico possiamo dare le indicazioni che seguono:

  • emerge l'importanza di chiarire ulteriormente che le scienze sociali fanno parte di un'unica grande famiglia che comprende oltre all'antropologia culturale (in senso lato), le tradizioni popolari, l'etnologia e lo studio delle culture altre (folclore) ossia di tutte quelle culture non egemoniche e subalterne che fanno parte del mondo occidentale o che comunque vivono all'interno di determinati modelli sociali pur differenziandosi dal modello culturale dominante.
  • l'antropologia sociale fa parte delle discipline etno-antropologiche e si occupa dello studio delle istituzioni e dei sistemi; in questo ambito la scuola antropologica inglese ha formulato importanti teorie tra cui quella della "sopravvivenza" in base alla quale i fatti folklorici non sarebbero altro che una sopravvivenza di precedenti stadi culturali.



L'impostazione manualistica del libro non deve spaventare anzi crediamo che possa agevolare la lettura anche di chi mostra un interesse per le tematiche affrontate e non proviene da studi di indirizzo sociale.
John Beattie è in certo senso il continuatore di un altro importante studioso inglese, Evans-Pritchard per il quale nessuna indagine antropologica può prescindere da quella storica.
Al di là comunque dell'impostazione metodologica e dall'orientamento di John Beattie è interessante notare che le tematiche affrontate spaziano dall'ambito giuridico a quello dei simboli e del linguaggio.

PERCHÉ LEGGERE IL LIBRO

Abitualmente anche chi proviene da determinati studi tende ad un'eccessiva specializzazione che fa perdere di vista il quadro d'insieme, senza entrare nel merito delle singole discipline, un approccio interdisciplinare permette invece di affrontare con maggiore consapevolezza tutta una serie di questioni dando risposta a delle domande che molti si fanno a partire dalla funzione delle norme; Beattie, ad esempio, affronta il modo in cui avviene l'organizzazione sociale nel nostro modello occidentale e come si forma il consenso attraverso di esse.
Questa prospettiva permette anche di capire come la famiglia, il primo nucleo fondante della società umana, non sia altro che un sistema ordinato di regolazione delle affettività e come dal punto di vista funzionale essa si manifesti esattamente nello stesso modo in tutte le culture.
Un altro dei temi interessanti che viene affrontato dall'autore riguarda il tema dello sviluppo dell'astrazione quale forma distintiva dell'essere umano rispetto alle altre specie animali, in relazione alle forme organizzate di convivenza e come legittimazione di una qualsiasi autorità a partire da quella familiare.
Un esempio che potrebbe essere illuminante per il lettore è il seguente: quale significato potrebbe avere il riunirsi a tavola di una o più famiglie durante una ricorrenza festiva e religiosa? Appare evidente che il significato del simbolo (il mangiare insieme) va oltre l'esigenza dell'alimentarsi ed è altrettanto evidente che la prima forma di consenso e di accettazione dell'individuo avviene in ambito familiare quale nucleo fondante di un potere più vasto quale è l'istituzione statuale.


SCHEDA DEL LIBRO

* Autore: John Beattie
* Titolo: Uomini diversi da noi (Lineamenti di antropologia sociale)
* Editore: Laterza.
* Anno di pubblicazione: 1978 (1^ edizione), 2008 (10^ edizione)
* Pagine: 402
* Codice ISBN: 9788842026105


In conclusione consigliamo la lettura di questo manuale di indirizzo che aiuta a comprendere come funzionano non solo i meccanismi di organizzazione sociale dei primitivi ma anche il funzionamento di quelle che noi definiamo "istituzioni civili".

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Published by Caiomario - in Antropologia Culturale
1 maggio 2014 4 01 /05 /maggio /2014 17:47

Il romanzo Foto di gruppo con una signora è la descrizione di una donna di nome Leni che vive all'interno della società tedesca nel periodo immediatamente precedente al crollo del regime nazista.
È un'ambientazione molto particolare quella che Boll riesce a ritrarre: Leni ha poco più di vent'anni ma è già vedova di guerra, oltre ad avere perso il marito, ha perso in guerra il primo fidanzato, il fratello e per motivi legati alla guerra il padre è in prigione.
Immaginiamo la Germania nel periodo che va dal marzo all'aprile del 1945 e immaginiamo una citta della Germania che è ormai un cumulo di macerie dove i vivi si sforzano di condurre una vita apparentemente normale ma che, invece, nella realtà  sembrano assomigliare a delle copie di uomini immerse in un ambiente surreale e tragico.
Questo è l'ambiente in cui è narrata la storia di Leni che per vivere è costretta ad intrecciare delle corone di fiori destinate alle onoranze funebri.
I suoi compagni di lavoro come lei sono persone che la guerra ha pesantemente coinvolto: Kremp un nazista fanatico, mutilato di guerra,  la Wanft e la Schelf, due operaie di fede nazista anch'esse fanatiche, Ilse Kremer un'operaia comunista che è costretta a tacere per non scoprire le sue posizioni, tre donne che si trovano in attesa che, in un modo o nell'altro, abbia fine la guerra, un vecchio balordo che fa il garzone de laboratorio,   infine Walter Pelzer il proprietario del laboratorio funebre che da opportunista prima era nazista, poi nell'imminenza della sconfitta era diventato comunista avendo visto nel contempo sfumare tutti gli affari e finendo coll'essere costretto a dedicarsi all'unica cosa che non risentiva della crisi: gli addobbi funebri.
Questo è il GRUPPO CON SIGNORA che lavora nel laboratorio, fino a quando non capita un operaio forzato, un prigioniero russo che parla bene il tedesco, la giovane Leni si innamora di lui e la nascita di quest'amore idilliaco avviene per un motivo apparentemente banale: un incidente causato da una tazza di caffè.

È tutta la descrizione della situazione che riesce a catturare l'attenzione del lettore: intanto bisogna pensare che in quel clima di economia di guerra il caffè era merce rara e preziosa, quasi introvabile e quei pochi che possedevano un pò di caffè ,erano costretti a mischiarlo con del surrogato in un rapporto che variava da persona a persona: Boll descrive ad un certo punto la preparazione del caffè da parte di tutti i personaggi del laboratorio e lo fa descrivendo prima di tutto  raccontando che ognuno aveva una miscela che in molti casi era di solo surrogato mentre
la miscela di Leni era 1 a 3, cioè una parte di caffè vero e tre parti di surrogato.
Proprio mentre Leni si appresta ad offrire una tazza di caffè 1 a 3 al giovane russo, il vecchio proprietario si stacca la gamba finta e questo provoca lo spavento di tutti e in particolare di Leni a cui cade per terra la tazza di caffè.
Un episodio bellissimo quello descritto da Boll che riesce a svelare tutta l'umanità della protagonista che, pur in un mondo di rovine e di odio, riesce ad essere generosa e a sfuggire alla spirale che attanagliava tutto e tutti.

È  un romanzo assai piacevole per il lettore che si ritrova pagine brevi, una scrittura che non contiene un periodare eccessivamente lungo e dove abbondano nel contempo i particolari descrittivi più minuziosi, le annotazioni di cose apparentemente insignificanti, la caratterizzazione di personaggi che alla fine è difficile dimenticare.
Un'altra cosa che mi sembra pregevole è il frequente abbandono allo humor, il gusto per le scene comiche che non abbandona mai ( come la descrizione della gamba finta) anche quando si tratta di narrare fatti e personaggi che si trovano in un'ambientazione tragica.
Il contrasto che ne esce fuori è unico, da una parte la satira dissacrante dall'altra parte la descrizione di una realtà fatta di stranezze e capricci,il lettore non potrà che averne giovamento.

Il libro è stato pubblicato nel 1971, l'anno dopo a Heinrich Boll viene assegnato il  premio Nobel per la letteratura.

Un libro consigliatissimo.

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Published by Caiomario - in Libri
1 maggio 2014 4 01 /05 /maggio /2014 17:05

sciascia-leonardo-il-giorno-della-civetta.jpg

 

 

Il giorno della civetta è uno dei romanzi più noti di Leonardo Sciascia che dopo un avvio in cui sono presenti gli echi del Neorealismo tipici di una tradizione letteraria che affonda le sue radici in Verga, Pirandello, Brancati, si avviò a tematiche proprie del Postmoderno dove il motivo del complotto lo portò a utilizzare diversi generi letterari che vanno dal giallo al pamphet.
L'attività letteraria di Sciascia si è contraddistinta per la sua molteplicità di interessi dispiegandosi tra saggistica, romanzi di contenuto storico, critica letteraria e scritti politici.
Quando nel 1961 venne pubblicato Il giorno della civetta, Sciascia ebbe un grande successo e il tema, dapprima affrontato, attraverso il genere letterario del romanzo, diventerà  nei decenni successivi un argomento che Sciascia tratterà in numerosi interventi che non mancarono di provocare laceranti polemiche.
Pur essendo l'intellettuale più esposto nella lotta alla mafia, le sue posizioni sul garantismo gli provocarono numerose accuse, prima fra tutte quella di essere nei fatti un oppositore  troppo tiepido, questo si verificò quando Sciascia prese posizione contro i "professionisti dell'antimafia" accusati di essere dei veri e propri mestieranti istituzionalizzati.

Possiamo inquadrare Il giorno della civetta in quel periodo dell'attività letteraria di Sciascia che va da "Le parrocchie di Regalpetra" (1956) agli anni '70, un periodo caratterizzato dai temi della moralità sempre inquadrati all'interno di una prospettiva illuministica e calati all'interno della storia siciliana, è un periodo questo dove domina sostanzialmente la speranza che qualcosa possa cambiare.
Il giorno della civetta è un romanzo che si inscrive all'interno dello schema dell'inchiesta giudiziaria dove l'indagine poliziesca diventa l'occasione per presentare il contesto mafioso e in cui ogni avvenimento  è frutto della contrapposizione di due personaggi ideologici: il protagonista, il capitano Bellodi e Don Mariano Arena, il capomafia.

È noto che Sciascia modellò il  personagio del capitano Bellodi su una figura reale, quella di un suo amico,Renato Candida, che aveva ai suoi occhi il pregio di incarnare la figura del fedele servitore delle leggi della Repubblica.
Bellodi è infatti un ex partigiano, un fedele servitore dello stato repubblicano, settentrionale, conduce un indagini in Sicilia per scoprire i mandanti di un delitto di mafia di cui è vittima il presidente di una cooperstiva, Salvatore Colasberna.

LA FIGURA DEL CAPITANO BELLODI

Quella di Bellodi è una figura senza tempo che si avvicina molto a quegli eroi in carne ed ossa che rimarranno vittime della mafia e che spesso sono stati lasciati da soli a condurre una lotta impari sia per quanto riguarda i mezzi sia per quanto riguarda l'impossibilità di arrivare a quei livelli superiori che della mafia si servono e con la mafia prosperano.
Qualcuno ha paragonato la figura di Bellodi a quella del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, con una differenza fondamentale però, Bellodi in seguito alle sue indagini, venne trasferito mentre Dalla Chiesa, ucciso barbaramente, non riuscì a terminare la sua lotta di contrasto alla mafia, fu costretto, suo malgrado, a passare il testimone.
Quella di Bellodi è quindi una figura letteraria ma anche una figura realmente esistita, una figura che riassume tutti gli eroi dell'antimafia ( non i mestieranti istituzionalizzati), quelli abituati a lottare tutti i giorni con tutta una serie di difficoltà prima di tutto culturali che spesso costituiscono la base dell'omertà, vero e proprio collante di tutto il fenomeno mafioso.

Omertà e connivenze politiche sono le cause, le uniche cause che permettono alla mafia di riprodursi come un idra a sette teste. quando infatti il capitano Bellodi ha una licenza, gli imputati non solo vengono scarcerati ma vengono forniti a loro degli alibi falsi ma perfetti che li scagionano completamente.
Si rabbrividisce leggendo il libro e constatando che nonostante i numerosi arresti di capi e mezzi capi, la mafia riesca a riprodursi con una velocità disarmante ma quello che più sconcerta è il fatto che il livello politico continua ad essere intoccabie, eppure ci sono le sentenze che andrebbero lette per comprendere come la lotta alla mafia non si sia mai fermata e come abbia più volte, nonostante numerose difficoltà, sfiorato e lambito fatti che hanno visto coinvolti eccellenti personaggi. E non è finita!!

LE PAROLE NON SI POSSONO FERMARE

È emblematica la frase pronunciata da Don Mariano Arena a proposito del pericolo delle parole :" e le parole non sono come i cani cui si può fischiare a richiamarli", una frase che si può interpretare in diversi modi, da una parte il fatto che ciò che si scrive e si dice rimane lì come un'iscrizione su una lapide, immutabile nel tempo, incancellabile ma dall'altra parte anche come le parole possano diventare un fiume in piena incontrollabile che porta solo distruzione.
E' nota l'accusa che Sciascia fece contro coloro i quali bollò  come "professionisti dell'antimafia", era il 10 gennaio del 1987 e il "Corriere della Sera" ospitò un articolo di Sciascia che provocò tutta una serie di polemiche non ancora affatto sopite, Sciascia pensava che parlare troppo di mafia portasse a una degenerazione, ma il suo scetticismo almeno dal punto di vista di chi scrive non era condivisibile, più si parla della mafia più si scalfisce giorno dopo giorno il muro di omertà che le ha consentito di prosperare.
Forse parlare di complicità con la mafia è stato eccessivo  nei confronti di Sciascia ma sta di fatto che nessun contrasto può avvenire con un romanzo per quanto importante  ed efficace come "Il giorno della civetta".
In quel famoso articolo, Sciascia sosteneva (a torto a mio parere) che nulla vale di più per fare carriera nella magistratura che prendere dei processi di mafia e ci fu un attacco frontale contro quel galantuomo che è stato Paolo Borsellino, leggere quelle righe è agghiacciante..sappiamo come è andata a finire!

Non si può fare a meno di accostare Il giorno della civetta a quel noto articolo scritto ventisei anni dopo, ma tuttavia sarebbe poco generoso e disonesto intellettualmente, sminuire il valore di un romanzo come "Il giorno della civetta" che appena lo si legge, sembra di averlo letto da sempre.
Tutte le figure del romanzo sono figure che potremmo definire antropologiche della cultura siciliana in cui emergono potenti individualità, le uniche che pur su fronti opposti possono avere dignità nel bene e nel male.
Questa filosofia di vita, questo modello antropologico lo troviamo riassunto nelle parole di Don Mariano Arena, il passo è notissimo anche se spesso le citazioni sono imprecise e parziali.

Dice Don Mariano rivolgendosi al capitano Bellodi:

«Io......ho una certa pratica del mondo, e quella che diciamo l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire l'umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainc***o e i quaquaraquà....Pochissimi gli uomini; i mezz'uomini pochi ché mi contenterei l'umanità si fermasse ai mezz'uomini.....E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi.....E ancora più in giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito....E infine i quaquaraquà. che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre....Lei anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo.....»(Tratto da "Il giorno della civetta").

Parole che sono un esempio di filosofia applicata e che ha le sue radici antropologiche in una cultura dove solo personalità potenti possono lottare tra di loro....nel bene e nel male.

Lettura integrale del testo per capire anche l'Italia di oggi...

Vittorio Mangano, noto anche come lo stalliere di Arcore, condannato nel 2000  per associazione mafiosa è stato  così definito da un noto personaggio politico: "A modo suo un eroe". Non servono commenti!

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1 maggio 2014 4 01 /05 /maggio /2014 14:44

 

ALBERTO MORAVIA

LA NOIA

Moravia-Alberto-copia-1.JPG

 

I critici letterari sono concordi nell'affermare che Alberto Moravia possa essere definito l'iniziatore del romanzo borghese, eppure abbiamo dei precedenti illustri, tra i quali va annoverato senz'altro Italo Svevo che espresse le  frustrazioni  di unal classe sociale in una prospettiva del tutto individuale.
 Moravia per primo affronta la realtà borghese da una punto di vista del tutto particolare con una lucidità unica che lo porta a raccontare quella crisi esistenziale che è sempre stato il tema di fondo dominante della sua produzione letteraria.
Nel racconto si respira  quel clima laico ed illuminista che ritroviamo in buona parte della letteratura francese influenzata dall'esistenzialismo filosofico, del resto il suo primo romanzo  Gli indifferenti rientra a pieno titolo entro i canoni di quel filone esistenzialista che ebbe successo anche in Italia.
Tuttavia Moravia sviluppa il realismo in altro modo non sbilanciandosi mai verso la letteratura di consumo che a partire da quegli anni diventerà un genere così popolare e diffuso  di cui ne avvertiamo ancora l'eco e di cui è innegabile l'influenza  anche nella successiva produzione televisiva che si svilupperà a partire dagli anni '60.
Nonostante questa particolare prospettiva di intendere il realismo, ci si è chiesti se Moravia potesse essere un autore "cinematografico" e al di là di ogni schematismo  letterario,sembra che le prove ben riuscite tradottesi nel grande schermo abbiano sciolto ogni dubbio.

Lo spazio intecorrente tra la pubblicazione de Gli Indifferenti (1929) e La noia (1960) e di oltre un tentennio, un periodo lungo nel quale erano avvenuti dei formidabili cambiamenti, l'evento della Seconda Guerra mondiale aveva cambiato profondamente il modo di rapportarsi al presente e al futuro, nuove sfide aspettavano le generazioni postbelliche, prima fra tutte quella della ricostruzione.
Molto del cosiddetto "miracolo economico" ha avuto come motore propulsore proprio quest'ansia rigeneratrice che non ha coinvolto solo la classe borghese, ma anche il sottoproletariato che per la prima volta aveva intravisto la possibilità di migliorare la propria condizione economica grazie alle nuove opportunità che le mutate condizioni offrivano.

A differenza di Pasolini, Moravia però non si occupa del sottoproletariato che spesso è del tutto assente in una parte de suoi romanzi ad eccezione di  Agostino, ma del resto  non fu mai un intellettuale organico e tanto meno marxista anche se per un certo periodo pensava che all'insensatezza borghese potesse esserci l'alternativa del "popolo", inteso come classe popolare.
Ed è proprio ne "La noia" che ritorna il tema dell'insensatezza borghese, ma se ne "Gli indifferenti", l'indifferrenza a cui non era estranea una certa dose di cinismo più che una condizione esistenziale era una sorta di atteggiamento tipico di una borghesia dedita agli imbrogli e all'erotismo, ne La noia più che di indifferenza si deve parlare di abulia, di apatia, di un'incapacità di relazionarsi con gli altri a qualsiasi livello.
È proprio Dino la figura più penosa ( nel senso proprio che provoca un senso di pena e commiserazione) del romanzo, una figura emblematica, classico rappresentante del più deleterio gallismo che una volta si definiva italico, ma che ora è andato oltre i confini del Bel Paese.
La vita di Dino è mercificata in ogni suo aspetto, tutto conta in relazione al denaro e ogni suo atto è condizionato dalla madre che conoscendo il figlio, gli "butta" letteralmente il denaro addosso ogni qualvolta Dino ne ha bisogno.
L'incapacità di riappropriarsi della propria vita è vano, Dino è afflitto da una vera e propria impotenza ad agire in modo costruttivo anche quando conosce una donna, una bellissima modella di nome Cecilia.
 Cecilia è cinica, opportunista, attratta dal denaro e dalla bella vita, pronta a tradire quando se ne presenta l'occasione, quella che con un'espressione efficace si potrebbe definire "la scarpa giusta per il piede"; Dino ne è affascinato ed attratto ed è disposto ad accettare qualsiasi compromesso pur di tenerla e mantenerla.
Patetico è Dino quando scopre che Cecilia ha un amante, accetta tutto, qualunque cosa, poi disperato decide di uccidersi lanciando la sua autovettura contro un albero.
Il gesto è disperato ma è peggio quello che accade dopo, si salva e vive come un relitto, tuttavia scopre che forse la vita va accettata così come'è e che è vano ogni tentativo di ribellarsi.

Lo stile di Moravia  è realistico, sa entrare nella mentalità dei personaggi e sa guarda la realtà da quella prospettiva, uno stile che ha affascinato tanti lettori che hanno trovato nei personaggi dei suoi romanzi una parte di loro: Questo forse  spiega (almeno in parte) il suo successo.


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Published by Caiomario - in Libri
1 maggio 2014 4 01 /05 /maggio /2014 07:18

Riccardo Chiaberge già curatore dell'inserto domenicale de Il Sole 24 ore, nel 1996 ha scritto questo saggio che affronta un argomento quanto mai attuale: quello della fuga dei cervelli dall'Italia, una fuga che ha visto il nostro paese diventare vittima di un depauperamento culturale e di numerose forze intellettuali, senza precedenti.
È inevitabile che questa fuga sia principalmente legata alla situazione del mondo universitario nei confronti del quale non si è mai attuata una vera e propria riforma, un mondo che è diventato statico al punto che ci sono dei docenti che non fanno ricerca, che non pubblicano e che spesso danno un contributo minimale anche all'attività di insegnamento.
Ci sono numerosi dipartimenti universitari nei quali da decenni non si tengono concorsi e i posti sono occupati da una pletora di amici, parenti, mogli che rappresentano il peggio che possa esistere per quanto riguarda la pratica del nepotismo elevata a sistema.
In una situazione bloccata come l'attuale è una conseguenza prevedibile che i giovani talenti delle più svariate discipline decidano di andare all'estero e spesso questa loro scelta ha delle conseguenze disastrose sul piano scientifico e culturale infatti  ad ogni nuova scoperta segue un brevetto industriale e quindi un costo economico notevolissimo sia che si tratti di un farmaco, di una conquista nel campo tecnologico o delle scienze biomediche e persino delle scienze umanistiche.

Il libro di Chiaberge è un saggio di agile lettura che affronta il problema della fuga dei cervelli dall'Italia, un tema quanto mai attuale che sta rappresentando una vera e propria emergenza in un paese povero di idee e lacerato dalle diatribe di potere che investono anche il campo della cultura, un paese vecchio e di vecchi che non si cura delle nuove generazioni spesso condannate al precariato a vita anche nel campo della ricerca universitaria.
Tale emergenza come ben evidenziato da Chiaberge, non riguarda solo quella del versante occupazionale (i giovani che non riescono ad entrare nell'università) ma è anche una vera e propria emergenza culturale, quando si spendono pochi denari e i mezzi vengono lesinati anche il livello culturale  dell'intera popolazione scende.
C'è stata una stagione durante la quale in numerose facoltà universitarie è avvenuto un fenomeno ancora più deprecabile: sono entrati nelle grazie dei professori solo quelli che erano ideologicamente graditi, una sorta di nepotismo politico che ha bloccato almeno due generazioni di cervelli che avevano due scelte: o andare all'estero o cambiare completamente settore per quanto concerne le loro scelte lavorative.
Sul perchè quanto denunciato da Chiaberge nel 1996 sia ancora presente in tutta la sua drammatica emergenza, si potrebbero scrivere fiumi di parole, sta di fatto che le vere emergenze dell'Italia ancora oggi sono la scuola, la scienza e la cultura:

  • la scuola che per troppo tempo ha visto assumere pletore di insegnanti  senza che vi fosse alcun concorso pubblico, la conseguenza è stato ed è un livello bassissimo dell'attività didattica.
  • la scienza che vede poca ricerca e soprattutto una bassa predisposizione culturale verso l'innovazione a causa anche di numerose lacci e lacciuoli di questioni di carattere etico spesso assurde e fuori dal tempo.
  • la cultura, se in un paese la cultura delle veline, soubrette e amici vari prevale, la cultura è qualche cosa di inutile, di residuale ed un dato risalta su tutti, un dato allarmante e su cui bisognerebbe pensare, i nostri studenti sono rispetto alla media europea, quelli che vanno peggio in matematica, ci sarà una ragione?


Il libro è consigliato non solo per l'argomento affrontato con il rigore che contraddistingue l'attività di saggista di Chiaberge ma anche perchè se non si ha la consapevolezza che tutto deve partire dalla scuola, non ci sarà mai alcun cambiamento in questo "assurdo bel paese" che è diventato un paese per vecchi, quindi senza futuro.

Riccardo Chiaberge, Cervelli d'Italia. Scuola, scienza, cultura: le vere emergenze del paese, Sperling & Kupfer, 1996, p.224

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1 maggio 2014 4 01 /05 /maggio /2014 07:00

La Rivoluzione e i Contadini

Carlo Pisacane

 

 

 

 

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"L'eccidio di Carlo Pisacane e dei suoi compagni" illustrazione tratta da

Storia d'Italia di Francesco Bertolini, illustrata da Lodovico Pogliaghi

con 97 grandi riquadri di  Edoardo Matania.

Fonte immagine:https://www.flickr.com/photos/37667416@N04/4595066636


 

Carlo Pisacane (Napoli 1818 - Salerno 1857) è stata una delle figure più attive del Risorgimento nazionale, partecipò nel 1848 alla Prima guerra d'Indipendenza e fece parte della Commissione di Guerra durante la difesa della  Repubblica Romana  del '49 di cui fu anche capo di stato maggiore.

Dapprima vicino al pensiero di Mazzini, si avvicinò alle posizioni del Cattaneo e dei socialisti francesi. Nel 1857 fu a capo della spedizione nel Regno di Napoli che avrebbe dovuto sollevare i contadini,  partito da Genova si diresse a Ponza dove liberò trecento ergastolani e da Sapri si diresse verso l'interno. La sperata insurrezione delle plebi agricole non vi fu, attaccato dall'esercito borbonico e dagli stessi contadini preferì togliersi la vita per non finire prigioniero dei Borboni

Tra le sue opere vanno annoverati due scritti importanti: La guerra combattuta in Italia negli anni 1848'-49 e i quattro volumi dei Saggi storici, politici, militari sull'Italia.

 

Nel Saggio sulla Rivoluzione Pisacane racconta le condizioni delle plebi agricole nel Regno Borbonico, è interessante ancora oggi riflettere sull'analisi del patriota napoletano, un'analisi che al di là delle ragioni contingenti dell'epoca, ci inducono a comprendere i motivi per cui lo sfruttamento subito si possa trasformare in forme di collaborazione e di collusione con il potere egemonico che è causa dello stesso sfruttamento. Le vittime della brutalità spesso per motivi di autodifesa scelgono di diventare sfruttatori di altri sfruttati e di "saltare" dall'altra parte della barricata una volta che la protesta si è spenta. Per quanto riguarda, invece, le contingenze storiche bisogna sottolineare che il Risorgimento nazionale fu un movimento  in larga parte  condotto dalla borghesia liberale i cui interessi erano del tutto estranei a quelli degli strati  più subalterni della popolazione meridionali. L'assenza di valori condivisi e convissuti ha fin da allora impedito che nascesse una coscienza autenticamente nazionale ma è anche causa dello scarso senso civico che da sempre caratterizza larghi strati della popolazione italiana.

 

 

 

«L'odio ai presenti governi -osserva Pisacane- bastante ad insorgere, trionfata l'insurrezione, s'ammorza; quindi bisogna suscitare una passione, onde bilanciare gli stenti e i rischi della guerra. Il desiderio di libertà, d'indipendenza, l'amor della patria hanno forza grandissima nei cuori di quella balda ed intelligente gioventù, che è sempre prima ad affrontare i pericoli delle battaglie, ma essi soli non bastano; l'Italia trionferà quando il contadino cangerà volontariamente la marra col fucile; ora, per lui, onore e patria sono parole che non hanno alcun significato; qualunque sia il risultato della guerra, la servitù e la miseria lo aspettano. Chi può senza mentire a se medesimo, affermare che le sorti del contadino e del minuto popolo, verificandosi i concetti de' presenti rivoluzionari, subiranno tal cangiamenti da meritare le pene e i sacrifizi necessari a vincere? Il socialismo o se vogliasi usare altra parola, una completa riforma degli ordini sociali, è l'unico mezzo che, mostrando a coloro che soffrono un avvenire migliore da conquistarsi, li sospingerà alla battaglia. Quindi la difficoltà che presenta la guerra, dal nostro risorgimento, i numerosi nemici, l'indole italiana assai difficile a governare, la vita municipale prima a manifestarsi nelle rivoluzioni, il costume, ormai reso seconda natura, di resistere a chi comanda.....costituiscono il fato della nazione; inesorabilmente le è segnato il destino. Schiavitù o socialismo; altra alternativa non v'è.

I rivolgimenti del 48 ebbero precisamente questo carattere: tutto il popolo che si agita, i prìncipi sono travolti dal turbine, ed al termine di questa nuova fase succede una disfatta: ed un nuovo ammaestramento. Popolo e prìncipi hanno mire opposte: quindi diffidenza, dubbia fede, spergiuro, incapacità nè capi; e, dopo tanti sforzi, il popolo altro non guadagnò che persecuzioni ed efferrata tirannide.»

 

 

L'odio nei confronti della classe politica e di governo una volta che è passata l'insurrezione si placa, la rivolta fine a se stessa dimostra tutta la sua labilità in quanto funge da valvola di sfogo ed è mera protesta che non apporta alcun cambiamento.

Perchè si formi una coscienza civile è necessario suscitare una passione, ossia avere un forte convincimento delle proprie idee. Nessuna rivoluzione può avvenire se non viene coinvolto tutto il popolo, scrive Pisacane che solo quando il contadino sostituirà la marra con il fucile si potrà parlare di rivoluzione. Nei tempi attuali, messe da parte le velleità bellicose ed armate si potrebbe dire che i cambiamenti avvengono solo quando la partecipazione è totale e non limitata agli strati più illuminati della popolazione.

Se i concetti espressi dal Risorgimento non riuscirono a muovere le plebi questo fu dovuto al fatto che gli interessi dei rivoluzionari non coincidevano con quelli delle plebi contadine, ma altre cause sono da rinvenire nei particolarismi municipali. Quanta attualità vi è nelle parole di Pisacane! L'Italia divisa e frammentata è ciò che sopravvive delle antiche divisioni e di quello spirito di campanile mai sopito in cui ognuno pensa ai propri interessi.

L'eredità che ci viene dagli antagonismi di Municipi, Signorie e Principati si ripresenta ciclicamente sotto forme diverse e investe sfere dell'agire umano che non sono solo politiche; oltre a questo aspetto costitutivo delle popolazioni nazionali vi è la tendenza a resistere a chi comanda, gli italiani fondamentalmente non hanno fiducia nelle istituzioni statali viste come qualcosa di estraneo e ciò è il risultato di secoli di diffidenza nei confronti dei vari signori e signorotti che non sapevano altro che vessare le popolazioni servendosi degli scagnozzi e dei birri di turno.

Ma ancora oggi valgono le parole di Pisacane: se non vi è una rivoluzione sociale non vi è alternativa alla schiavitù antica che da sempre -aggiungiamo noi -  l'Italia si porta dietro e che impedisce il comune sentire.

 

Rimangono diverse domande che non sembrano avere soluzione: ma al di là delle celebrazioni retoriche che si risolvono nelle mille vie intitolate a Pisacane, cosa rimane delle riflessioni stimolanti dell'uomo politico napoletano? E cosa fa  la classe politica per superare l'antica diffidenza nei confronti dello Stato da parte della popolazione? L'orologio della storia sembra ritornato indietro: alle antiche plebi agricole si sono sostituite pletore di  individui esclusi incapaci di qualsiasi reazione e pronti a tutto pur di risolvere la propria situazione personale.

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30 aprile 2014 3 30 /04 /aprile /2014 03:41

Il rapporto tra scienze dello spirito e scienze della natura 

Wilhelm Dilthey

 

 

 

 

 

dilthey

 

 

 

Le scienze dello spirito -- insegna Dilthey - in un ambito più generale comprendono in sè i fatti naturali. Se si concepissero come un complesso di discipline a sè stante ci si muoverebbe in un regno di persone  spirituali la cui comprensione potrebbe avvenire solo sul piano delle pure scienze dello spirito.

«In realtà - scrive Dilthey - un individuo nasce, si conserva e si sviluppa sulla base delle funzioni dell'organismo animale e delle sue relazioni col corso naturale dell'ambiente; il suo sentimento vitale è, almeno in parte, fondato su queste funzioni; le sue impressioni sono condizionate dagli organi di senso e dalle influenze del mondo esterno; la ricchezza e la mobilità delle sue rappresentazioni, la forza e la direzione dei suoi atti di volontà dipendono sovente dalle modificazioni del suo sistema nervoso».(1)

 

Per Dilthey la separazione tra la sfera spirituale e quella propriamente fisica è un'astrazione, distinguere le due sfere è necessario sul piano metodologico ma è un non senso logico in quanto la vita umana si qualifica come unità psico-fisica. L'uomo è pertanto nel contempo una connessione di fatti spirituali e un complesso corporeo.

 

Risolvere l'antagonismo tra il filosofo e lo scienziato è possibile solo se si superano i loro rispettivi punti di partenza. Sul piano gnoseologico è necessario tenere conto di entrambi gli ambiti, in quanto  « il regno delle persone - osserva Diltehy-  è la manifestazione suprema del mondo dell'esperienza terrena»(2).

Se la natura intesa come complesso di fatti materiali, costituisce un limite per l'agire umano, nel contempo è  anche uno stimolo per la ricerca e per l'individuazione dei mezzi necessari all'azione, pertanto l'uomo può operare sulla natura con la sua volontà ma la sua dipendenza dal corso naturale si riflette direttamente non solo sui mezzi scelti ma anche sugli scopi.

La trasformazione del mondo esterno non è immediatamente percebile ma il lento lavorio dell'agire umano è costante e continuo, Dilthey parla a tal proposito di potenza creatrice dello spirito intesa nel senso si lavoro intellettuale, un distinguo che potrebbe sembrare un volere accentuare la dicotomia tra i due ambiti ma che in realtà ha lo scopo di superare la divisione tra l'elemento spirituale e quello materiale.

Stabilita quindi questa relazione ogni ulteriore polemica su questo argomento è infruttuosa in quanto è necessario tenere conto quando si parla di scienze dello spirito della «conoscenza dell'influenza formativa della natura» (3) che influisce sempre sull'agire umano.

Lo studio dei fatti spirituali deve procedere quindi dall'esame delle condizioni presenti nella natura, dei mezzi impiegati  e dalla conoscenza dell'elemento fisico.

Il complesso delle scienze dell'uomo, della società e della storia va inquadrato in un ambito unitario psico-fisico il cui studio  può essere studiato « soltanto con l'aiuto della biologia»(4); proprio dal riconoscimento di questa connessione si può risolvere l'opposizione tra queste due classi di scienze e il problema della conoscenza che va sempre inteso come un complesso unitario.



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Note

 

(1) Lo storicismo tedesco a cura di Pietro Rossi, Torino, 1977, p. 104

(2) Ibid. p. 107

(3) Ibid. p. 108

(4) Ibid. p. 109

 

 

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Scienze dello spirito e scienze della natura - Wilhelm Dilthey

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Published by Caiomario - in Filosofi: Dilthey Wilhelm
29 aprile 2014 2 29 /04 /aprile /2014 03:10

Scienze dello spirito e scienze della natura

Wilhelm Dilthey

 

 

 

 

 

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Wilhelm Dilthey (1883-1991) filosofo e storico della filosofia è stato un esponente dello storicismo relativistico, un indirizzo della filosofia che si sviluppò in reazione al clima positivistico di fine Ottocento e che pose attenzione al problema della realtà vista sotto l'aspetto storico e come processo in movimento. In questo senso la sua elaborazione filosofica è antipositivistica e anti-idealistica in quanto si pone come obiettivo quello di definire una distinzione tra il sapere storico e quello scientifico.La storia non viene vista da D. come un processo di affermazione dello spirito assoluto così come intese Hegel ma come un'esperienza unica ed irripetibile vissuta dai singoli popoli in una deteminata epoca.

 

Di fondamentale importanza nella teoria elaborata da Dilthey è la distinzione tra scienze dello spirito e scienze della natura. Per scienze dello spirito D. intende «il complesso delle scienze che hanno come loro oggetto la realtà storico-sociale».(1)

Un ulteriore distinguo nell'analisi di D. riguarda il concetto di scienza sotto il quale si indicano «un insieme di proposizioni i cui elementi sono concetti, perfettamente determinati, costanti in tutta la connessione di pensiero e forniti di validità universale, i cui legami sono fondati, in cui infine le parti sono reciprocamente connesse in una totalità allo scopo di poter comunicare, cosicchè un elemento della realtà può essere concepito nella sua compiutezza in virtù di questa connessione di proposizione oppure un ramo dell'attività umana può essere regolato in base ad essa».(2)

 

Nell'ambito delle scienze dello spirito rientra il complesso delle scienze dell'uomo , della storia e della società, D. rifiuta la posizione dei positivisti che avevano negato alla storiografia il «rango di scienza»; nello stesso tempo individua l'errore di fondo di tutte le discipline positivistiche a partire dalla scienza della società (sociologia), discipline che definisce «troppo ristrette in rapporto all'oggetto che devono esprimere»(3).

Insegna D. che nella storia del pensiero vi sono stati numerosi tentativi di delimitare il regno della storia rispetto a quello della natura;  nel Medioevo ad esempio Tommaso d'Aquino distinse  i due momenti  ma tale distinzione era funzionale al concetto di gerarchia del creato dove alla base vi è il mondo dei corpi distinto da quello degli spiriti costituito da sostanze spirituali che sono incorporee per sé.

Più tardi Descartes elaborò il concetto di natura intesa come un grande meccanismo ma anch'egli non potè sfuggire alla spiegazione metafisica facendo ricorso a Dio che «avrebbe, come il più abile degli artefici, predisposto fin dall'inizio i due orologi del sistema materiale e del mondo degli spiriti.» (4).

 

Per la costituzione delle scienze dello spirito è necessario partire dall'esperienza vissuta (Erlebnis)  in questo senso dette scienze sono scienze dell'esperienza in cui sono «contenuti i princìpi del nostro conoscere, che determinano in quale misura può esistere per noi, e i principi del nostro agire, che spiegano l'esistenza di scopi, di beni, di valori su cui è fondato ogni commercio pratico con la natura.» (5)

 

Oltre all'aspetto descritto sopra, Dilthey osserva che le scienze che hanno per oggetto i fenomeni naturali devono fare i conti con i limiti stessi della ricerca umana, limiti che tuttavia non devono essere messi in relazione con la conoscenza dei fatti spirituali; se non si avesse questa consapevolezza si ritornerebbe a Descartes e si spiegherebbe la meccanica atomistica in termini metafisici.

 

L'esigenza di distinguere le scienze dello spirito da quelle della natura è per Dilthey un'esigenza prima di tutto metodologica e critica nel senso kantiano del termine, un'esigenza che segna un passaggio importante nella distinzione tra l'oggetto della riflessione storica e la concezione che aveva della storia la precedente tradizione filosofica e in particolare quella metafisica.

La conoscenza storica si può realizzare utilizzando un metodo scientifico ma nessun metodo formale è per Dilthey davvero efficace senza l'intervento dell'Erlebnis che è nel contempo esperienza vissuta ed intuizione.

Questa concezione si presta alla critica che una storiografia così concepita è in balia dell'elemento irrazionale, tuttavia rimane irrisolto il fatto che l'analisi dei fatti storici cambia continuamente, analisi che è sempre in relazione al momento storico in cui viene effettuata in quanto i risultati a cui perviene dipendono da una serie di variabili riconducibili sempre all'esperienza vissuta dallo storiografo.

 


 

 

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NOTE

 

(1) Lo Storicismo Tedesco a cura di Pietro Rossi, Torino, 1977, p.92.

(2) Ibid. p.92.

(3) Ibid. p.93.

(4) Ibid. p.95.

(5) Ibid. p.97.

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Articoli correlati:

 

Il rapporto tra scienze dello spirito e scienze della natura - Wilhelm Dilthey

 

 

Sul significato di Erlebnis si veda:

 

http://www.treccani.it/enciclopedia/erlebnis/    (link)

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25 aprile 2014 5 25 /04 /aprile /2014 16:54

IMMANUEL KANT

 

Il principio della propria felicità opposto alla legge della moralità

 

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Nella "Critica della Ragion Pratica" Kant affronta il tema della felicità partendo dal presupposto che si raggiunge l'opposto del "principio della moralità se si assumequale motivo determinante della volontà il principio della propria felicità".

La volontà che orienta l'individuo verso il conseguimento della propria felicità può essere in contrasto con la ragione che sta alla base del principio della moralità.

 

 Kant esemplifica questo concetto con due esempi:

 

« Se un conoscente, che ti fosse caro, credesse di giustificarsi presso di te per avere testimoniato il falso, allegando in primo luogo il dovere secondo lui sacro della propria felicità, ed enumerasse poi i vantaggi che ne ha tratto, ponendo l'accento sulla prudenza con cui procede per essere sicuro, anche verso di te, col rivelarti il segreto solo per poterlo negare ad ogni momento; e se infine affermasse seriamente di avere ottemperato a un vero dovere d'uomo, tu o gli rideresti in faccia o ti ritrarresti con orrore, anche se non solleveresti la minima obiezione contro chi usasse questo metro d'azione dopo avere fondato i propri principi esclusivamente sul vantaggio personale». (1)

 


«...supponete che qualcuno vi raccomandi un tale come amministratore così fidato da potergli confidare ciecamente tutti i vostri interessi, e supponete inoltre che per ispirarvi fiducia ve lo presenti come uomo prudente, perfettamente conscio del proprio tornaconto, e come uomo di attività instancabile, pronto a trarre profittoda ogni occasione, e, allo scopo di fugare ogni sospetto di egoismo volgare, lo descriva come uomo di vita raffinata, desideroso non di accumulare denaro o piaceri volgari ma di accrescere il proprio sapere mediante conversazioni scelte e istruttive, generoso con gli indigenti, tale, però da non badare gran che ai mezzi (che traggono il loro valoreo disvalore esclusivamente dal fine) e disposto a servirsi del denaro e dei beni degli altri nè più nè meno come dei propri se sapesse di poterlo fare impunemente e di nascosto; in tal caso voi pensereste chi ve lo raccomanda o voglia burlarsi di voi o sia uscito di senno ». (2)

 

Vi è quindi un confine netto tra la moralità intesa come principio valido universalmente e il proprio tornaconto personale, sottolineando la scontatezza di tali osservazioni Kant insegna che il principio di felicità pur essendo in grado di fornire delle massime, queste possono valere come «leggi generali ma mai universali»  nel senso di leggi che possano essere valide sempre e comunque. La legge morale ha un elemento oggettivo che deve valere « per chiunque ha ragione e volontà ».

 

Osservare l'obbligo di rispettare la legge morale è in potere di chiunque -osserva Kant- ma comandare a qualcuno di essere felice è un'assurdità logica, al massimo  si possono mostrare le regole per conseguire la felicità, regole che ognuno deve sentirsi libero di osservare oppure no.

 

 

NOTE

 

(1) Immanuel Kant, Critica della Ragion Pratica, Torino, 1980 p.173.

(2) Ibidem, p.173

 

 

Sull'argomento può interessarti:

 

L'utilità nel pensiero di Jeremy Bentham

 

 

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24 aprile 2014 4 24 /04 /aprile /2014 15:26

JEREMY BENTHAM


 

Jeremy Bentham è stato uno dei massimi esponenti della filosofia utilitarista inglese, una corrente del positivismo nella quale si trovano dei precedenti dottrinari nel pensiero di Bacone, Locke e Smith; fu proprio Bentham a impiegare per primo il termine utilitarismo per indicare un orientamento del pensiero in cui l'utilità  è ritenuta nel contempo la causa e il fine ultimo di ogni azione umana.

Il motore primo che governa l'agire umano è sempre l'utilità, sia che si tratti di conseguire una virtù o respingere un vizio, di osservare un dovere o  di combattere l'arbitrio l'uomo agisce sempre motivato dal vantaggio che può ottenere.

 

Bentham dà la seguente definzione di utilità:

 

"Per utilità si deve intendere quella proprietà in qualunque oggetto che lo rende atto a produrre beneficio, vantaggio, piacere, bene o felicità, ovvero (il che significa la stessa cosa) a prevenire che avvenga danno, pena, male o infelicità alla persona o all'ente di cui si considera l'interesse: se questo ente è la comunità in generale, si tratta della felicità della comunità; se è un particolare individuo (si tratta) della felicità di questo individuo".

 

L'idea di utilità espressa da Bentham è in stretta relazione con l'azione morale che deve essere sempre inquadrata per gli effetti che essa produce: l'uomo è spinto ad agire per conseguire la felicità e il piacere e per respingere l'infelicità e il dolore.

Tuttavia l'azione morale non va giudicata in termini di principi generali ma sempre in relazione agli effetti che produce, un'azione morale è sempre buona solo se procura la felicità al maggior numero di persone, è cattiva se va nella direzione opposta.

Il singolo individuo poi se agisce per conseguire un'utilità pratica potrà godere dei vantaggi che ne derivano, mentre se andrà contro al principio dell'utilità pratica ne patirà le conseguenze negative; la somma del piacere dei singoli individui porta alla felicità di tutti.

Una concezione aritmetica del piacere come quella espressa da Bentham appare troppo schematica in quanto spesso il conseguimento del  proprio piacere non tiene affatto conto della felicità degli altri, tuttavia lo stesso Bentham, probabilmente consapevole di questo limite, afferma che il compito dello Stato è la realizzazione del massimalismo etico. 

Lo Stato e le leggi devono avere un solo scopo: procurare la massima felicità al maggior numero di persone in quanto felicità e dolore devono costituire "il centro dell'indagine del moralista e del legislatore: il principio dell'utilità subordina ad essi ogni cosa".  

 

PENA E PIACERE È CIÒ CHE CIASCUNO SENTE COME TALE: IL CONTADINO COME IL SIGNORE, L'IGNORANTE COME IL FILOSOFO

 

Il concetto di utilità espresso da Bentham non può generare alcun equivoco  in quanto lo stesso Bentham sentì l'esigenza di dare al "termine utilità un senso chiaro e preciso" in modo  che tale termine fosse sempre identico e non mutasse ogni qual volta lo si utilizzasse.

Evitando di fare delle riflessioni astratte Bentham sentì l'esigenza di esprimere in modo chiaro il concetto di dolore e piacere in modo che fosse comprensibile a tutti, dal contadino al signore, dall'ignorante al filosofo:

 

«Per gli individui che seguono il principio di utilità, la virtù non è un bene che in rapporto ai piacere, la virtù non è un bene che in rapporto ai piaceri che ne derivano. il vizio non è un male che in rapporto alle pene che genera. Il bene morale è tale solo in base alla sua capacità di produrre beni fisici, e il male morale per la sua tendenza a causare mali fisici; ma quando io dico   «fisici » intendo le gioie e i dolori dell'anima, quanto le sofferenze e i piaceri del senso».

 

Le virtù di per sè non sono buone o cattive, anzi Bentham utilizzando l'espressione "arido catalogo delle virtù"  sgombera il campo dal  sospetto che vi possa essere da parte sua un intento di tipo moralistico: le virtù devono essere sempre valutate in base alla logica della utilità che «consiste nel partire dal calcolo e dal raffronto delle pene e dei piaceri attraverso tutte le operazioni del giudizio, senza farvi entrare alcuna idea ».

 

 

 

 

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