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5 luglio 2018 4 05 /07 /luglio /2018 06:17
Lector in fabula - Umberto Eco

La logica del lettore, l'interpretazione di un testo  e la sua partecipazione


Qualsiasi lettore impegnato ha la straordinaria capacità più o meno consapevole di suddividere in gruppi e classificare le parole ricorrendo a criteri che prendono come punto di riferimento il significato e il significante.
Se quindi è quasi impossibile fare una cesura di questi due aspetti, ossia del segno e della parola, diventa interessante capire come avviene questo processo di formazione che aiuta a decodificare un testo.

Lector in fabula di Umberto Eco è un saggio edito per la prima volta nel 1979 che (in termini molto sintetici) può essere definito lo "svelamento del processo che sta alla base della lettura di un testo", l'obiettivo di Eco -a mio parere- è forse ambizioso, ma fondamentale e del resto il postulato in base al quale un testo per essere compreso deve avere un lettore disposto ad accoglierne il significato, è già di per se allusivo per quanto riguarda i lettori destinatari a cui si rivolge il testo.

Da questo punto di vista la lettura di un testo necessita sempre una forma di cooperazione da parte del lettore, questo è anche l'atteggiamento richiesto a chiunque usufruisca di un'opera dell'ingegno come può essere un quadro, una scultura ecc; colui il quale guarda un'opera d'arte si trova nella stessa situazione di un lettore per ciò che concerne la reazione alla capacità di accoglierne il significato dal punto di vista della propria valutazione personale.
Il problema affrontato da Eco in Lector in fabula è il frutto di un lungo percorso di riflessione,  infatti già nel 1962 -è lui stesso a ricordarlo nell'introduzione del saggio- dice Eco "mi ponevo il problema di come un'opera d'arte da un lato postulasse un libero intervento interpretativo da parte dei propri destinatari e dall'altro esibisse caratteristiche strutturali che insieme stimolavano e regolavano l'ordine delle sue interpretazioni".

Questo processo avviene anche quando leggiamo un testo, prendiamo ad esempio due persone che affrontano la lettura del medesimo testo, a livello connotativo cosa succede? Le stesse parole possono acquistare un significato particolare che si ricollega a ciò che la parola stessa può significare. La lettura partecipativa di un testo è quindi sempre evocativa e qui si entra nel campo della individualità ossia dell'interpretazione che coinvolge reazioni e sentimenti.
Eco affronta un tema che da sempre mi ha affascinato: quello del significato che riusciamo ad accogliere dopo aver letto un testo che -è bene ricordarlo- non è mai esaustivo, ma rimanda a tutta una serie di concetti non detti che sta al lettore cogliere e sviluppare.
Una parola non vive da sola, è sempre in relazione con le altre, possiamo dunque scegliere una parola e costruire un'area di associazioni: ad esempio la parola "buio" può fare pensare alla notte, alla morte, ma anche al suo contrario, la luce.
Le associazioni che noi facciamo quando leggiamo un testo nascono per lo più dall'intuizione e se ci soffermiamo a pensare a queste correlazioni, facciamo molta fatica a capire fino in fondo le relazioni logiche intercorrenti.
Eco affronta il tema dell'ipertestualità vale a dire del significato che va oltre  il testo che è formato da un insieme di parole che possono avere più significati; quando noi leggiamo un testo, ad esempio, siamo consapevoli del fatto che il criterio di scelta di quel determinato vocabolo o dell'espressione più efficace dipendono dal contesto, ma quel contesto si presta a chiavi di lettura differenti, tuttavia -è questo il punto di maggior interesse del saggio- si pone un problema che è quello del significato del testo che vada al di là delle varie interpretazioni che si succedono nel tempo.

LA QUESTIONE SUL SIGNIFICATO VALE PER QUALUNQUE TESTO

Eco pone un problema che dovrebbe essere in cima alle priorità di ogni lettore ma in primis di ogni studioso che si trovi ad affrontare la lettura di un testo scritto in un determinato periodo storico e in un particolare contesto culturale (ogni contesto lo è). Troppo spesso, infatti lo stesso testo viene interpretato secondo le sensibilità culturali dei tempi e ciò comporta delle inevitabili distorsioni interpretative. E' corretto questo modo di procedere?
Molti testi non possono essere affrontati come "opere aperte" in quanto si rischia in tal modo di mascherare le reali intenzioni dell'autore, Eco fa riferimento a un sonetto di Baudelaire trattato insieme allo semiologo e linguista Roman Jakobson come una struttura chiusa, cristallizzata nel tempo proprio per coglierne appieno il significato originario.
Tuttavia tale modo di procedere apre numerose questioni, Eco parla di "operazioni complesse di inferenza testuale", che comunque presuppongono sempre il ruolo del lettore visto come un soggetto attivo che fa parte del "quadro generale del testo stesso".

Per quanto riguarda la fruibilità del testo, credo che gli argomenti affrontati   presuppongano un atteggiamento cauto, nel senso che alla riflessione dell'autore debba rispondere quella del lettore; in questo senso è il caso di usare le stesse parole di Eco che parla di "meccanica di cooperazione interpretativa del testo", ma dinanzi ad un testo difficile e complesso l'atteggiamento giusto è quello di darsi un metodo di lettura, a tal proposito consiglio di procedere ad una lettura selettiva di alcuni capitoli ( primo fra tutti "Il lettore modello") e poi di ritornare sul testo prendendo appunti.

Consiglio la lettura di Lector in fabula anche agli studenti di filosofia e di teologia (un anche motivato dal fatto che gli insegnanti e gli studenti di filosofia dovrebbero fare i conti con la parte linguistica e interpretativa di una determinata teoria spesso passivamente appresa dalla lettura dei manuali); segnalo a riguardo quella parte del libro che affronta la "Retorica Speculativa".
 Il lettore sarà sicuramente messo alla prova da un'analisi così impegnativa come quella elaborata da Eco, ma la lettura della Divina Commedia e della Bibbia aprono le stesse problematiche e richiedono un impegno anche maggiore ( se no si fanno dei disastri interpretativi), è bene esserne consapevoli altrimenti si corre il rischio di fare scivolare le parole come l'acqua del fiume,  tutto scorre e non rimane niente.

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Published by Caiomario - in Libri
4 luglio 2018 3 04 /07 /luglio /2018 16:33
Arthur de Gobineau e l'evoluzione della specie

Come è noto Arthur de Gobineau è l'autore dell'opera Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane, il titolo dell'opera inequivocabilmente anticipa i contenuti della sua teoria nei confronti della quale il giudizio negativo è pressoché unanime. Non vogliamo fare parte degli illuminati non perché condividiamo le posizioni di de Gobineau ma per il motivo semplicissimo che, almeno in ambito scientifico, sarebbe auspicabile più rigore anche quando si parla di un "reietto".  Le ragioni di questa damnatio memoriae sono diverse ma prima fra tutte sono da rintracciare nel pregiudizio che de Gobineau fosse un reazionario e che fosse nemico della tradizione illuminista. Niente di più falso. Che de Gobineau fosse un sostenitore del primato della razza bianca non è una novità mentre appare del tutto nuova l'idea di alcuni "studiosi" che vi sia una discontinuità tra il positivismo e l'illuminismo. Secondo costoro i positivisti avrebbero fatto una'irruzione nella storia con le loro teorie antropologiche in opposizione alle teorie (buone) delle magnifiche sorti e progressive di stampo illuminista.  Se vogliamo rintracciare non tanto le radici quanto degli anticipatore del pensiero di de Gobineau dovremmo prima di tutto citare Carlo Linneo il quale un secolo prima aveva proposto una classificazione della razza umana in termini evolutivi e progressivi, secondo tale classificazione alla base della scala vi è la scimmia mentre in quello più alto si trova l'uomo europeo. Tralasciamo le solite bollature di etnocentrismo che vengono dispensate a pensatori e scienziati  che essendo figli del loro tempo (cerchiamo di essere in modo tollerante se non hegeliani almeno crociani)  non potevano avere alcuna coscienza antropologica e concentriamoci invece sul fatto incontrovertibile che l'idea dell'evoluzione della specie è tipicamente illuminista e se vogliamo essere più precisi si tratta di un'idea che già troviamo in quel Giovanbattista Vico che non a torto viene ritenuto un antesignano della moderna antropologia. Il problema dell'evoluzione della specie è innegabilmente legata alla teoria Kant-Laplace delle nebulose i cui esiti, dobbiamo ammetterlo furono diversi,compresi quelli del positivismo più ortodosso a cui il de Gobineau può essere ascritto. Il pensiero umano è complesso e la storia delle idee dimostra che tutti gli anelli sono concatenati, quello che invece meraviglia è che vi siano ancora (e sono molti) coloro i quali vogliono spiegare con razionalità cartesiana fatti, pensieri ed idee che devono sempre essere inquadrati nel clima storico in cui si svilupparono. Ma a quanto pare coloro che ignorano questa verità hanno altri obiettivi che non sono certo quelli di spiegare i fatti.

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Published by Caiomario - in Antropologia Culturale
3 luglio 2018 2 03 /07 /luglio /2018 17:45
Dalla rivoluzione industriale all'integrazione europea - Vera Zamagni

Nel settore degli studi di economia  Vera Zamagni è ormai da tempo un punto di riferimento per tutti coloro che si interessano di  processi economici, storia, industria e trasformazioni del tessuto produttivo.
Per chi non conoscesse l'autrice può essere utile sapere che vi sono due tipi di studiosi: quelli che rimangono nel solo ambito specialistico e sono letti solo da altri studiosi e quelli che, pur osservando un'impostazione scientifica nei loro scritti, possono rivolgersi anche ad un pubblico non specialistico senza correre il rischio di non essere capiti, Vera Zamagni senza dubbio appartiene al secondo tipo.
Proporsi, dunque, di curare l'edizione di uno studio che tratti un periodo complesso che va dalla rivoluzione industriale all'integrazione europea e che abbia due requisiti fondamentali, da una parte il rigore scientifico e l'esattezza delle informazioni e dall'altra la capacità della comunicazione divulgativa, deve avere come presupposto l'individuazione di un pubblico di lettori cui un opera come questa possa, e debba rivolgersi.

I lettori di economia negli ultimi anni sono cresciuti rapidamente anche perché viviamo in un periodo in cui l'economia domina ogni aspetto, tuttavia sono pochi i saggi che meritano l'apprezzamento anche da parte di quei lettori che si interrogano sul perché e sul come di determinati fenomeni.
L'economia non è solo materia da "professori" e non può essere ridotta a grafici e calcoli, l'economia è prima di tutto storia che si interroga sul proprio passato.
E del resto, la diffusione dell'esigenza di una più esatta documentazione sullo svolgersi dei processi economici di oggi e di ieri si va imponendo non solo tra gli studenti universitari delle facoltà di economia, storia, sociologia ecc ma anche tra coloro che sentono la necessità di completare la propria formazione culturale o semplicemente abbiano curiosità nei confronti dei fatti della nostra storia passata e recente.

"Dalla rivoluzione industriale all'integrazione europea. Breve storia economica dell'Europa contemporanea" è un saggio in cui vengono disegnate le fasi principali di una storia del processo economico che parte da quel processo di evoluzione economica che viene denominato "Rivoluzione industriale" che fu essenzialmente un fenomeno di natura economico-produttiva a quel fenomeno che viene definito di "integrazione europea".
La scelta di partire dalla rivoluzione industriale costituisce anche per il lettore una straordinaria occasione per comprendere gli effetti che vi furono sul piano sociale non solo in Inghilterra ma anche negli altri paesi europei.
Per capire quello che siamo dobbiamo necessariamente partire da quel periodo che si caratterizzò per essere un fenomeno che ridisegnò la mappa demografica dell'intera Europa dando origine, in primis, ad un processo di urbanizzazione che può dirsi non ancora concluso.
La nascita dei lavoratori salariati sempre più esposti alle fluttuazione del mercato del lavoro è una caratteristica dei tempi moderni e nessuna crisi (compresa quella attuale) può essere compresa senza che si comprenda il fenomeno dell'urbanesimo industriale e le conseguenze che ciò determinò sugli stili di vita.
Quando si parla di proletariato di fabbrica si rischia sempre di usare una terminologia desueta, tuttavia il corso drammatico di tutte le vicende europee e i suoi risvolti di tipo ideologico viene da lontano.
Il Settecento fu un secolo in cui si verificarono straordinarie trasformazioni, gli storici non a torto parlano anche di "rivoluzione demografica", possiamo quindi dire che i cittadini dell'Europa di Mastricht sono figli di quella rivoluzione.
Personalmente mi sono occupato (da lettore curioso ai fatti del mondo e per motivi di studio) dei testi dell'economista francese J.A. Blanqui, un classico per tutti coloro che vogliono studiare quel periodo, ma il testo fondamentale che dal punto di vista didattico mi ha permesso di comprendere il fenomeno è stato "Che cos'è la rivoluzione industriale?" di C.Fohlen, tuttavia il saggio storico-economico della Zamagni ha il pregio di ripercorrere in modo sintetico (dote non facile da trovare tra gli studiosi) tutte le trasformazioni avvenute nel sistema economico europeo.
L'analisi delle principali economie nazionali europee è anche l'occasione per comprendere la nascita dei sanguinosi conflitti che hanno dilaniato l'Europa nel secolo XX.
Due importanti effetti della rivoluzione industriale si sono avuti nelle economie delle principali nazioni europee: l'aumento della produzione da una parte e l'accumulo di capitali che dovevano essere reinvestiti dall'altra.
Di particolare interesse è la parte del saggio che si occupa delle economie nazionali nell'Ottocento quando l'aumento della produzione e del capitale da investire andava di pari passo alla nascita di nuovi impianti produttivi, all'abbondanza delle merci offerte. In questa spirale che sembrava non avere mai fine nacquero poi quelle tensioni che poi portarono alle crisi degli anni venti e trenta che furono crisi non più europee ma globali.
Si verificò una situazione che in certo senso presenta delle analogie con la crisi finanziaria odierna, una crisi globale che nasce negli Stati Uniti e si diffonde in Europa con degli esiti che è difficile, allo stato attuale prevedere.
Pur essendoci delle differenze tra i vari processi economici, la lettura storica dei fatti e delle trasformazioni che si sono avute in un periodo così lungo, permette di comprendere come il fenomeno dell'integrazione europea manchi di quella integrazione culturale che sarebbe stato necessario per fronteggiare la crisi.
Ovviamente per comprendere gli ultimi sviluppi dell'economia si imporrebbe l'esigenza, da parte del lettore, di un aggiornamento storico degli avvenimenti in quanto in 13 anni (il libro è stato pubblicato nel 1999) sono avvenuti dei fatti che hanno cambiato il mondo, ma  ciò sta nella natura stessa di di ogni attività di ricerca storica che non può dirsi mai davvero conclusa.

Vera Negri Zamagni è professore aggiunto di storia dell'economia all'Università di Bologna ed è nota anche per i numerosi studi sulle principali realtà industriali italiane.

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Published by Caiomario - in Libri
3 luglio 2018 2 03 /07 /luglio /2018 17:36
Scritti e discorsi di cultura industriale - Libero Bigiaretti

I rapporti tra letteratura ed industria sono stati da sempre a doppio filo con l'impegno politico e civile, basti pensare ad un grande narratore come Paolo Volponi (1924-1994) che elabora tutta la sua produzione letteraria dopo avere avuto un'importante esperienza lavorativa all'interno del mondo industriale prima con Adriano Olivetti e poi con la FIAT.
L'idea di una letteratura che trattasse i temi dell'industria e del mondo del lavoro non è nuova nel panorama culturale italiano, già Elio Vittorini nel 1961 sulla rivista letteraria "Menabò" aveva sentito l'esigenza di delineare un quadro programmatico di una letteratura che fosse adeguata all'industria; i risultati sul piano letterario non sono mancati come anche quelli che hanno riguardato saggi e studi sulla materia. Per quanto riguarda l'ambito letterario meritano senz'altro una menzione Ottiero Ottieri che scrisse "Tempi stretti" e "Donnarumma" e Goffredo Parise con "Il padrone", entrambi gli autori possono essere considerati come i rappresentanti di una letteratura che ha affrontato sul piano letterario la tematica industriale partendo da un solido retroterra culturale in cui si era da tempo formata una coscienza nei confronti della realtà moderna della fabbrica.

Sul versante della saggistica "Scritti e discorsi di cultura industriale" di Libero Bigiaretti si può inscrivere in quel filone di scritti critici che hanno affrontato la tematica industriale nel quadro di un forte impegno politico inteso nel senso più nobile della parola, ma Bigiaretti ha sicuramente il merito di avere apportato una novità rispetto ai saggi "militanti": quello della valorizzazione di un certo modo di fare industria intesa come "struttura aperta" alla comunità e al territorio.

Libero Bigiaretti dopo l'esperienza lavorativa nella Olivetti di Ivrea con Adriano Olivetti affrontò delle tematiche dando una chiave di lettura che è stata precorritrice dei tempi rispetto proponendosi come avanguardia di quella coscienza critica propositiva di cui -a mio parere- sentiamo urgente bisogno soprattutto oggi.
Io penso che l'industria non sia un moloch da combattere, ma questa idea non la avevano neanche i protomarxisti, credo che ogni forma di luddismo vada contro i tempi e non sia in sintonia con gli inevitabili cambiamenti che il progresso tecnologico impone, purtroppo oggi si parla troppo a sproposito di impresa, mancano figure come quelle di Adriano Olivetti e di Libero Bigiaretti.
Sul piano del linguaggio delle immagini (il tema affrontato nel libro) si nota immediatamente l'inconsistenza di certe  proposte quando si parla di "riforma del mercato del lavoro". Oggi si avverte un vero e proprio vuoto di rappresentanza non solo sindacale ma anche culturale, manca uno stile di serietà e credibilità perché lo stesso linguaggio delle immagini è basato esclusivamente sull'effimero e non riesce a trasmettere quella solidità che una struttura d'impresa dovrebbe avere per competere sul mercato.
La verità è che molti imprenditori hanno smesso di produrre beni e si sono concentrati nella finanza, questa distorsione del modo di fare impresa ha distrutto il lavoro e depauperizzato il paese che manca di una politica industriale seria e che sappia vedere lontano.
Anche questi aspetti rientrano nel modo di fare comunicazione e trasmettere informazioni tramite il linguaggio delle immagini: un caso emblematico è quello di Sergio Marchionne che probabilmente in futuro sarà ricordato anche come l'uomo che indossava sempre un maglione blu e che ha voluto togliere i 10 minuti di pausa ai lavoratori, più efficace invece, pur nella estremizzazione caricaturale, è il Marchionne di Crozza che con il suo "Non mi dovete dire grazie" è riuscito a sintetizzare un modo di comunicare che riesce a tramettere solo arroganza e chiusura, siamo lontani anni luce da una personalità potente come quella di Adriano Olivetti.

Libero Bigiaretti nel trattare il linguaggio delle immagini si dimostra modernissimo perché la sua riflessione non è teoria ma nasce da quell'esperimento di fare impresa e di organizzare l'industria che fu in parte attuata da quello straordinario intellettuale che fu Adriano Olivetti, caso più unico che raro nel panorama industriale italiano.
Lo stile di scrittura del libro è agile, la brevità del libro (solo 152 pagine) non scade nella superficialità, al contrario la scelta di trattare diverse questioni e in particolare quello del linguaggio delle immagini, stimola la riflessione sul modo di comunicare le informazioni, un modo che è profondamente cambiato negli anni segnando un'involuzione del linguaggio che è anche segno di quella crisi di valori morali che investe il mondo dell'impresa.
E' vero, ogni epoca ha le sue specificità la reclame degli anni Venti del secolo XX usa un linguaggio che è profondamente diverso rispetto a quello utilizzato negli spot pubblicitari odierni, ma è cambiato anche profondamente il modo di concepire l'impresa e si comunicare così come è mutato il modo di narrare i prodotti.

In molte aziende si è sentita la necessità di introdurre la figura del "Responsabile delle relazioni esterne" la cui funzione è quella di tenere i rapporti con la stampa, con gli organi di informazione e con quelli istituzionali (enti, sindacati ecc), ma il progresso tecnologico ha ancora una volta sconvolto il linguaggio delle immagini che oggi passa attraverso i social network e i siti di opinione dei consumatori.
Non basta più l'immagine serve la concretezza, il consumatore è più smaliziato, più informato, il tam tam che passa attraverso la rete è in grado di vanificare una campagna pubblicitaria, oggi in definitiva contano i fatti perché è andata affermandosi una coscienza critica che bada al sodo e va oltre la scorza delle immagini e dell'effimero.
 È  bene che le aziende e il mondo dell'industria ne tengano conto, per vendere i propri prodotti bisogna domandarsi anche  quali siano i fini aziendali, Libero Bigiaretti  da buon profeta lo aveva capito, abbiamo bisogno di fatti.

Titolo: Scritti e discorsi di cultura industriale
Autore: Libero Bigiaretti
Editore: Hacca
Tipo: Saggio
Pagine: 152
Anno di pubblicazione: 2010
Prezzo. 12 euro

 

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3 luglio 2018 2 03 /07 /luglio /2018 07:16
Filosofi: Bernardino Telesio

La dottrina filosofica

 

Nella formazione di Bernardino Telesio ebbero un grande influenza le impostazioni filosofiche di impronta aristotelica di cui accettò le questioni concernenti la filosofia della natura; purtuttavia non essendo soddisfatto delle argomentazioni fornite dagli esponenti della tradizione aristotelica riteneva che dette argomentazioni non rappresentassero una novità in quanto si limitavano a commentare i testi di Aristotele. Sotto questo punto di vista Telesio ha un duplice atteggiamento: da una parte può dirsi a ragione aristotelico in quanto condivise il problema della natura di derivazione aristotelica, ma dall'altra parte la sua posizione si può definire antiaristotelica in quanto non fu in continuità con quella tradizione. 

La filosofia della natura: La filosofia natura -a parere di Telesio- non può essere spiegata seguendo il principio dell'ipse dixit, in base al quale solo i iuxta principia Aristotelis erano in grado di soddisfare pienamente e con coerenza  le spiegazioni. Quali sono i "iuxta principia Aristotelis" che Telesio mette in discussione? La natura non può essere spiegata ricorrendo ai principi della filosofia aristotelica quali forma, atto potenza  ma deve essere impostata seguendo i principi della natura stessa, quelli che lo stesso Telesio definisce iuxta propria principia. 

I principi che spiegano i fenomeni della natura sono la materia, il caldo e il freddo; il caldo e il freddo hanno come loro intrinseca peculiarità quella di essere principi attivi, incorporei che agiscono sulla materia intesa come qualcosa di passivo, inerte, visibile e ovunque uguale. Il caldo è la forza dilatante mentre il freddo è la forza condensante. Freddo e caldo sono forze della natura e fonte di sensibilità e la sensibilità è diffusa tra tutte le cose (pampsichismo) anche se in grado diverso (ilozoismo). La materia in cui esplica l'attività di caldo e freddo è la terra ed è da questa azione che si generano tutti gli esseri della natura. Il rifiuto della fisica aristotelica è la convinzione da parte di Telesio che la teoria aristotelica  dell'atto,della potenza e della privazione sia una teoria astratta del tutto insufficiente a spiegare l'attività della natura che deve essere spiegata con principi sensibili, è il sensibile che spiega il sensibile e il sensibile è costituito da materia, dal caldo e dal freddo.

L'uomo e Dio: nella filosofia della natura di Telesio che spazio ha l'uomo? L'uomo in quanto essere animale risponde agli stessi principi della natura, la sua vita biologica è riconducibile ad un principio psichico che è sinonimo di calore, l'intelletto, lo spiritus di derivazione aristotelica trova si risolve e trova la sua ragion d'essere nel senso. L'uomo possiede una facoltà conoscitiva che Telesio chiama cogitativa o estimativa e che corrisponde al termine intellectus secondo la denominazione degli aristotelici.L'uomo possiede oltre allo spiritus un'anima spirituale che egli chiama mens, l'anima non è generata dai genitori ma è creata da Dio, l'anima spirituale o mens è divina in quanto è infusa direttamente da Dio, la sua origine divina ne presuppone a sua volta l'immortalità.

Nell'uomo vi è una duplice natura, è la teoria dei due appetiti (duplex appetendi vis) in base alla quale nell'uomo vi è un appetito intellettivo e uno sensitivo. Secondo questa teoria vi possono essere virtù dello spiritus o virtù della mens, con la prima virtù l'uomo si dirige verso la natura, con la seconda protende verso il mondo soprannaturale (Dio e la religione).

Nonostante Telesio sia un acceso sostenitore della teoria della conoscenza che deriva interamente dalla sensazione, afferma l'esistenza di un Dio creatore facendo appello alla fede e alla ragione. L'esistenza di Dio, tuttavia, viene proclamata rifiutando l'argomentazione del moto e del divenire a favore della teoria dell'ordine della natura. Come sostenitore della filosofia della natura Telesio pur muovendosi all'interno di una teologia cristiana rivisitata, non è interessato a sollevare questioni di ordine teologico ma a proclamare il valore dell'esperienza.

L'esperienza non viene utilizzata per fare indagini sperimentali di tipo fisico-matematico ma per fare affermazioni che appaiono oggi dettate dalla fantasia al punto che venne accusato di fare della metafisica, tuttavia egli non può definirsi metafisico nel senso aristotelico quanto sostenitore di una metafisica materialista che in un certo senso anticipa le posizioni sensiste che si svilupperanno nell'illuminismo francese. Dal punto di vista filosofico la sua posizione metafisica può dirsi di derivazione platonica in quanto presuppone il dualismo della psiche umana: spiritus nel senso di anima sensitiva  e mens intesa come anima spirituale creata da Dio.

Coerente con questo credo, anche l'etica di Telesio può essere definita sensista in quanto il dolore e il piacere derivano dal contatto con le cose, dolore e piacere sono quindi fonte del male e del bene. Dal punto di vista etico Telesio sostiene che l'uomo agisce spinto dall'istinto di conservazione che avvalendosi della virtù valuta ciò che è veramente utile o inutile per la propria vita. La concordia o la discordia nella vita sociale, in base a queste teoria, sono condizionate dalla virtù o dal vizio dove vizio e virtù sono sempre una conseguenza della iniziale attività del sentire, vero e proprio motore della conoscenza.

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Opere

  • De rerum natura iuxta propria principia (1565)
  • Varii de rebus naturalibus belli  (1590) - pubblicati postumi

 

 

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Published by Caiomario
2 luglio 2018 1 02 /07 /luglio /2018 07:19
La città del sole - Tommaso Campanella



LE COLPE DI FRA TOMMASO

La stesura de La città del Sole è stata datata  tra il 1602 e il 1603, fate attenzione a queste due date perché siamo in un periodo sul quale "forse" si potrebbero trovare se non dico delle giustificazioni almeno delle buone ragioni per comprendere il modo in cui veniva concepita la giustizia all'epoca; del resto nel senso comune dell'epoca fare discorsi contro la tortura e la pena di morte era incomprensibile ai più visto che questa era la condotta di tutti i sistemi politici che quanto a durezza delle carceri si assomigliavano tutti.
Che colpa aveva commesso Tommaso per finire in galera? Oggi si direbbe che aveva commesso dei reati di opinione e proprio il fatto di avere espresso tesi pericolose per il potere politico ed ecclesiastico, lo portò ad essere rinchiuso in carcere dove subì tremende torture e dove - ricorda Giulio Ferroni - "si finse addirittura pazzo per sfuggire alla pena di morte".
C'è qualcosa di diverso oggi? No, chi non dà fastidio è libero di parlare quanto vuole ma chi magari rivela fatti e circostanze pericolosi per chi detiene il potere sarà sicuramente delegittimato con tutti i mezzi disponibili e su di lui opererà una vera e propria demolizione sistematica di aspetti anche privati  ed intimi pur di raggiungere lo scopo.
Ai tempi di Tommaso non era diverso da oggi e il pensiero non era libero di agire nel mondo, non importava che tesi pericolose venissero espresse nei libri o che rimanessero un puro esercizio del pensiero, quel che contava era impedire che le idee si diffondessero e la "damnatio memoriae" era solo la conseguenza di una persecuzione che incominciava quando il "reo" era ancora in vita.

IL MONDO CHE NON C'È

Ogni qualvolta si leggono delle riflessioni utopiche come quelle presenti ne "La città del sole" è facile che si obietti (trovo tra l'altro questa obiezione molto superficiale) che ci dobbiamo occupare del mondo esistente e non di quello che dovrebbe essere.  Un'obiezione che apparentemente sembra inattaccabile se non fosse per il fatto che Campanella come del resto Tommaso Moro con la sua "Utopia", ricorrono ad un escamotage per criticare proprio l'esistente. Si ritiene necessaria questa precisazione nel rispetto di un progetto concreto e completo che al di là della forma espressa esprime la necessità di un mondo ordinato e che non può essere interpretato come la farneticazione di un pensatore che parla di un paradiso terrestre immaginario.

IL COMUNISMO, VIZIO DEI FILOSOFI

Quando si parla di comunismo la maggior parte delle persone pensa alle forme di governo che si sono succedute a partire dalle dottrine filosofiche ed economiche di Karl Marx e di Friedrich Engels, niente di più sbagliato perché la prima proposta di tipo comunistico risale addirittura a Platone e si è ripetuta più volte in forme diverse nella storia del pensiero.
Campanella promuove e prospetta una sorta di comunismo dove nella piramide del potere si trova al vertice un Principe Sacerdote che si rivolge al Sole, apparente bizzarria a parte, il Sole potrebbe essere anche un contratto come una Costituzione che, quale Legge delle leggi, regola l'attività di una comunità, di una nazione, di un popolo.
Solo così possiamo attualizzare quanto è stato espresso da Campanella visto che il pericolo di una visione prospettica in cui al vertice si trova una figura che tutto sa e che non può sbagliare sembra più ricordare le derive nordcoreane dei Grandi Leader attorno ai quali si è sviluppato un culto delle personalità per noi oggi inconcepibile.

L'opera espressa sotto forma di dialogo poetico è un capolavoro di sensibilità letteraria di grande eccellenza, vi darò solo qualche cenno per non togliere a chi vuole leggerla la curiosità di affrontare la lettura di pagine che non sono per niente ostiche anche per chi è digiuno di cose filosofiche.

TABROBANA

Tabrobana è il nome di fantasia della città del sole che nel XVI secolo era identificabile con l'isola di Ceylon, questa città sta sopra un colle circondato da un'ampia campagna e si divide in sette gironi, per accedervi vi sono quattro porte dislocate in quattro punti strategici per la città; la ragione della presenza dei cerchi concentrici è dovuta a ragioni puramente difensive per cui se -dice Campanella- si espugna il primo girone bisogna passare al secondo e così via fino al settimo.

L'autore spiega nel dettaglio l'architettura e la toponomastica della città ideale, al centro della città vi è il capo supremo, il Metafisico, un capo sia spirituale che temporale che si consulta con il Sole, quale divinità suprema. Attorno a lui vi sono tre "principi collaterali": Potestà, Amore e Sapienza.

1. Chi è il Potestà? Si chiama Pon e si occupa di faccende militari, di guerrieri, soldati, munizioni, fortificazioni ed espugnazioni.

2. Sin è il nome della Sapienza? Dipendono da Sin tutte le scienze e tutte le figure delle arti liberali e meccaniche, sotto di Sin si trovano delle figure rappresentative di altrettante scienze ed arti denominate "offiziali": 


* l'Astrologo;
* il Comosgrafo;
* il Geometra;
* il Loico;
* il Rettorico;
* il Grammatico;
* il Medico;
* il Fisico;
* il Politico;
* il Morale

3. Mor, l'Amore che ha come compito quello di unire maschi e femmine per perpetuare le generazioni, si occupa anche dell'educazione, delle medicine e delle erbe curative, di raccogliere i frutti e di tutto ciò che ha a che fare con il vitto, i vestiti e il coito.

 Le attività a cui si dedica di Mor appaiono davvero curiose ma rispondono, nella logica dell'argomentazione di Campanella, all'istinto della sopravvivenza; per Campanella tutto ciò che ha che fare con la vita rientra nella sfera dell'Amore. Una forzatura? Forse come lo è l'idea non nuova riconducibile a Platone del comunismo delle donne che sarebbe meglio definire della disponibilità delle donne messe in comune con l'obiettivo di non generare dei figli che si occupino dell'amor proprio ma di quello comune, così come in comune sono le cucine e le dispense delle cose guardate a vista da un vecchio e da una vecchia che hanno il compito di sorvegliare la proprietà comune e di percuotere tutti coloro che si avvicinano con l'intento di rubarle.
In questa città ideale vivono tutti assieme: Mosè, Ositi, Giove, Mercurio, Maometto, in un luogo separato Gesù Cristo con i Dodici Apostoli e poi c'è il gruppo degli antichi con Cesare, Alessandro , Pirro e tutti gli altri. insomma la compagnia non è di quella che fa certo annoiare!!


CHIAVE DI LETTURA

L'opera vera e propria nella versione tipografica in mio possesso consta di sole 49 pagine escludendo il resto.
Ricollegandomi a quanto ho scritto all'inizio sorge spontanea una domanda, ma un filosofo che ha scritto come un'opera come "La città del Sole" poteva essere così pericoloso da essere incarcerato, torturato e rischiare la pena capitale? Apparentemente no leggendo l'opera con gli occhi di oggi.

Ma dovete pensare che Campanella quando scrisse "La città del Sole" era già in carcere perché prospettava una sorta di religione universale che era vista come blasfemia dalla cattolicissima Spagna. Per queste sue posizioni si fece ben 27 anni di carcere.

La Città del Sole è più di un dialogo poetico dominato dalla fantasia, è prima di tutto la rivendicazione della forza della ragione umana quale forza propulsiva per cambiare il mondo, in effetti una rivendicazione di questo tipo rappresentava un pericolo per il cattolicesimo romano per il quale tutto dipende da Dio. L'eterno senso di colpa porta al pessimismo mentre la fiducia nelle possibilità della ragione è una manifestazione di ottimismo e questo fu un errore imperdonabile per Tommaso Campanella che si trovò contro quella che nel '600 era la nazione che difendeva anche con le armi l'ortodossia cattolica: la Spagna.

CURIOSITÀ

Tra le tante cose curiose presenti ne La città del Sole ve ne riporto una che riguarda le prescrizioni o se vogliamo le abitudini degli abitanti che hanno superato i cinquant'anni:

"Usano assai l'odori: la mattina, quando si levano, si pettinano e lavano con acqua fresca tutti, poi masticano maiorana e petrosino o menta, e se la frecano nelle mani e li vecchi usano l'incenso". 1)

Abbiamo appreso da Campanella un particolare  che è qualcosa di più di una semplice nota  curiosa e che riguarda la pulizia mattutina, all'epoca infatti l'unico modo per profumarsi la bocca era quella di ricorrere a piante aromatiche o che aiutavano a neutralizzare il cattivo odore tra queste un posto particolare lo avevano maggiorana, il prezzemolo e la menta.......problema che a quanto pare interessava anche i solari abitanti di Taprobana.

 

1) La città del sole. Questione quarta sull'ottima repubblica. Prefazione di Giulio Ferroni.  Milano, RCS Quotidiani, 2011, 8vo brossura editoriale, pp. 116 (I classici del pensiero libero, 38; supplemento a Sette Corriere della Sera). p. 39 

 

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Published by Caiomario - in Filosofi: Campanella Tommaso
1 luglio 2018 7 01 /07 /luglio /2018 16:45

Io ero l'Europa. Ero la storia d'Europa, la civiltà d'Europa, la poesia, l'arte, tutte le glorie e tutti i misteri dell'Europa. E mi sentivo insieme oppresso, distrutto, fucilato, invaso, liberato, mi sentivo vigliacco ed eroe, bastard e charming, amico e nemico, vinto e vincitore. E mi sentivo anche una persona per bene: ma era difficile far capire a quegli onesti americani che c'è della gente onesta anche in Europa. - Curzio Malaparte -

La pelle

Curzio Malaparte - La pelle

Dove collocare un romanzo come "La pelle" di Curzio Malaparte? Penso che ogni tentativo di catalogazione e di riduzione a canoni letterari codificati  risulti inadeguato in quanto "La pelle" è uno dei più straordinari esempi di un racconto unico che è nel contempo diario storico e testimonianza diretta di uno degli indiscussi protagonisti della letteratura italiana. Vorrei insistere sulla unicità de "La pelle", prova ne è il fatto che nessuno, dopo Malaparte, ha affrontato l'argomento in termini così provocatori, in quanto sarebbe stato impossibile riprodurre quelle specificità e quel clima che si ritrovano nel racconto di Malaparte.  Non c'è dubbio che Malaparte avrebbe malgradito che la storia tormentata e scandalosa dell'Italia liberata rimanesse solo un racconto perché è pur vero che di questo si tratta, ma è impossibile leggere "La pelle" senza domandarsi di cosa sia stata la presenza degli americani in Italia dallo sbarco in Sicilia in poi. Qualcuno potrebbe anche obiettare che bisognerebbe circoscrivere "La pelle" a Napoli e solo a Napoli perché nulla di ciò che ha raccontato Malaparte è accaduto in altre parti d'Italia. 

Appare evidente che Malaparte attraversò un momento di grande inquietudine e di dubbi quando si verificarono i fatti di Napoli dove la Liberazione venne vissuta con entusiasmo ma anche come occasione di sopravvivenza. Sicuramente il rapporto tra vinti e vincitori non può essere simmetrico ma nel caso della Liberazione a Napoli accadde qualcosa che innescò un meccanismo perverso in cui il vincitore  poteva "liberare" i suoi istinti con il vinto che a sua volta poteva esercitare un certo potere da cui sicuramente traeva non pochi vantaggi. Emblematiche risultano le parole di Malaparte su questo punto: 

"Ma, non ostante l'universale e sincero entusiasmo, non v'era un solo napoletano, in tutta Napoli, che si sentisse un vinto. Non saprei dire come questo strano sentimento fosse nato nell'animo del popolo. Era fuori di dubbio che l'Italia, e perciò anche Napoli, aveva perduto la guerra. E certo assai più difficili perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra tutti sono buoni, non tutti son capaci di perderla. Ma non basta perdere la guerra per avere il diritto di sentirsi un popolo vinto" (1)

Sì l'Italia aveva perso la guerra ma i napoletani non si sentivano un popolo vinto,  ancora su questo aspetto tutto napoletano Malaparte scrive:

"Ma potevano gli Alleati pretendere di liberare i popoli e di obbligarli al tempo stesso a sentirsi vinti? O liberi o vinti. Sarebbe ingiusto far colpa al popolo napoletano se non si sentiva né libero né vinto" (2)

La questione se vogliamo è tutta in questo interrogativo che contiene una risposta che comprende e spiega. L'occupazione alleata a Napoli fece i conti con una massa multiforme da corte dei miracoli dove le uniche due attività che contavano erano "comprare" e "vendere", la Liberazione avrebbe dovuto invece fare i conti con un popolo vinto che mantenendo integra la sua dignità avrebbe dovuto guardare al futuro. Non fu così. Ed è noto, troppo noto, il fatto che il racconto del maledetto toscano venne  poi messo al bando dal consiglio comunale di Napoli, una tardiva e patetica reazione di retroguardia piuttosto che lo scatto d'orgoglio di chi non avrebbe dovuto sentirsi occupato e comprato. La colpa si può dividere e in questa storia "Principi e lazzaroni" (per usare le parole di Malaparte), seppur con gradualità diverse, hanno avuto le loro colpe, ma è difficile non trovare colpe  nella umana natura, tuttavia pensare che il fenomeno della genuflessione nei confronti dei liberatori fosse un caso napoletano è un errore e sarebbe una mistificazione storica, ma domandiamoci se oggi non accade esattamente la stessa cosa. La questione da rigettare non è sottomettersi ma quella di calpestare la propria dignità,  sapere vivere l'umiliazione (purtroppo è da sempre costume degli americani infliggere ai vinti questo trattamento) non vuole dire assolutamente mettersi in vendita anche se si muore di fame. Possiamo storicizzare, comprendere, capire ma dobbiamo ammettere che non tutti i popoli reagirono alla sconfitta nello stesso modo e  questo è il punto su cui antropologicamente bisognerebbe farsi molte domande.Nessuno obbligò molte donne napoletane a vendere il proprio corpo  ai vincitori con la messinscena della parrucca, anche se vinte e misere quello stratagemma ripugna e un po' diverte.  La parrucca -a mio parere- ben rappresenta simbolicamente il punto più basso del degrado a cui arrivò un'umanità che sembrava aver perso ogni freno inibitorio.

Ciò non toglie che "miseria e nobiltà" convivano sempre anche nelle realtà più degradate. 

  Malaparte è perfettamente consapevole che dopo una guerra bisogna fare i conti con i vinti e con i vincitori e si domanda se  sia più difficile il mestiere del vinto o del vincitore, ma sulla differenza di valore non ha dubbi al punto di affermare quasi come se fosse una sentenza da scolpire su pietra:

"Ma una cosa so certamente, che il valore umano dei vinti è superiore a quello dei vincitori" (3)

Ci dovremmo chiedere se i racconti scandalosi e sconvolgenti raccontati da Malaparte possano avere ancora un significato oggi, ma si è quasi certi che i Gendarmi della Memoria (prendo a prestito un'espressione di  Giampaolo Pansa che è anche il titolo di un suo fortunato libro), non permetterebbero che Malaparte venisse letto a scuola insieme a Moravia, a Pasolini, a Elsa Morante, a Vittorini etc. insomma a tutti i protagonisti della letteratura italiana del dopoguerra. Non si è in malafede nel ritenere che ancora oggi si preferirebbe mettere da parte Malaparte, semplicemente ignorandolo, quasi come se questo giornalista, prosatore, saggista e commediografo non fosse esistito. Si è troppo abituati ad un'ipocrisia di facciata che negli ultimi tempi ha rialzato la spocchia di sempre, questa spocchia che seleziona e omertosamente accantona non può permettersi di riabilitare Malaparte, fascista convinto prima, marxista dopo ma sempre eretico e contro anche nelle collusioni con il potere.

Ad maiora.

________________________________________________________________

Il romanzo "La pelle" venne pubblicato la prima volta in Francia nel 1947, all'edizione francese seguì poi la pubblicazione in Italia nel 1949 dove le vendite, come viene riportato nel retro di copertina, "superarono il milione di copie".

Il libro si compone di 12 capitoli, nell'edizione per i tipi della Garzanti del 1967 è presente uno scritto autobiografico di Malaparte che l'editore decise di pubblicare per fare comprendere le "intenzioni perseguite dall'Autore nella sua tanto discussa opera".

  • La peste
  • La vergine di Napoli
  • Le parrucche
  • Le rose di carne
  • Il figlio di Adamo
  • Il vento nero
  • Il pranzo del Generale Cork
  • Trionfo di Clorinda
  • La pioggia di fuoco
  • La bandiera
  • Il processo
  • Il dio morto
  • Documenti autobiografici

__________________________________________________

(1) Curzio Malaparte, La pelle, Milano, Aldo Garzanti Editore, 1967, p. 9.

(2) Ibidem, p.10.

(3) ibidem, p. 329.

 

Potrebbe anche interessarti:

 

 

Preferivo la guerra, alla peste che dopo la liberazione, ci aveva tutti sporcati, corrotti, umiliati, tutti, uomini, donne, bambini. Prima della liberazione, avevamo lottato e sofferto per non morire, Ora lottavamo e soffrivamo per vivere. Gli uomini che lottano per non morire serbano la loro dignità, la difendono gelosamente, tutti, uomini, donne, bambini, con ostinazione feroce. - Curzio Malaparte -

La pelle

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Published by Caiomario - in Libri
1 luglio 2018 7 01 /07 /luglio /2018 06:47

Si discute molto sulla "contemporaneità" di un autore, in questo senso trovare delle corrispondenze può essere agevole soprattutto quando ci si sofferma sull'aspetto del contenuto, ma anche per ciò che concerne il linguaggio.
Eppure nell'epoca dei formidabili cambiamenti come può essere l'attuale niente è più "precario" del lilnguaggio parlato, questo fatto è così vero che i dizionari della lingua italiana vengono aggiornati ogni anno, mentre in passato le nuove parole venivano inserite dopo un periodo (più o meno lungo) e solo dopo essere state metabolizzate al livello di senso comune.

Leggendo Palazzeschi si ha immediatamente l'impressione di come il linguaggio nel giro di un secolo sia così profondamente cambiato al punto che moltissime parole appaiono del tutto inadeguate ad esprimere pensieri, cose ed azioni. Ad esempio, Palazzeschi usa i termini del suo tempo quali "giovinotto", "corbellerie", ma anche numerosi neologismi come "balletta" giocando con il suono al punto che ogni parola diventa espressione di un determinato sentimento o stato d'animo.

Se le parole però hanno una vita limitata, i concetti e le idee ritornano con sorprendente ciclicità come dimostra questa bella ( e curiosa) opera giovanile intitolata "L'incendiario" scritta nel 1910, sono trascorsi 101 anni da quando questa operetta (raccolta di poesie) fu data alle stampe, ma il lettore troverà molte corrispondenza e soprattutto potrà gustarne il particolare punto di vista e attualizzarlo con il presente.
L'incendiario fa parte del periodo "futurista", quello delle origini che nel ribellismo giovanile dell'epoca trovava la sua espressione più autentica.
Palazzeschi nel 1909 venne invitato da Filippo Tommaso Marinetti ad aderire al futurismo ed è proprio in questo periodo che esce la raccolta di poesie "L'incendiario" è un gustosissimo romanzo (alternativo) intitolato "Il codice di Perelà", è un Palazzeschi molto diverso da quello più noto, per intenderci quello de "Le sorelle Materassi", tuttavia la "conversione" verso una scrittura più fruibile è solo apparente, in quanto Palazzeschi anche nel noto romanzo che ho citato, rivela la sua insofferenza verso la rigidità del perbenismo borghese.

Per chi ama il linguaggio e il neologismi, la lettura delle poesie contenute ne "L'incendiario" è un'autentico piacere, Palazzeschi come molti avanguardisti della poesia amava deformare le parole, giocare con il suono, questa caratteristica la troviamo, ad esempio, nella poesia intitolata "Lasciatemi divertire" (Canzonetta) che così attacca:

"Tri tri tri
fru fru fru
uhi uhi uhi
ihu ihu ihu

Il poeta si diverte,
pazzamente
smisuratamene.
Non lo state a insolentire,
lasciatelo divertire
poveretto,
queste piccole corbellerie
sono il suo diletto

Cucù rurù
rurù cucù
cuccuccurucù..
.."

Sorprendente, ma non più di tanto per chi conosce il modo di esprimersi degli avanguardisti, veri teppisti della parola pronti a provocare con il loro versi controcorrente.

È lo stesso Palazzeschi a dare una spiegazione di questo particolarissimo modo di scrivere (consapevolmente ricercato): "Cosa sono queste indecenze?/Queste strofe bisbetiche?/Licenze, licenze, licenze poetiche/ Sono la mia passione".


IL LINGUAGGIO DEI FUMETTI DEVE MOLTO ALLE INVENZIONI DI PALAZZESCHI

Le licenze poetiche sono la forma più sopraffina di deviazione dalle regole della lingua, ma sono anche il modo di andare contro le convenzioni condivise e convissute dal pubblico, Palazzeschi quindi, come altri poeti futuristi usa le parole storpiate per esprimere le sue sensazioni e le definisce in questo modo (sentite, sentite):"Sapete cosa sono? Sono robe avanzate, non sono grullerie, sono la.....spazzatura delle altre poesie".
Il poeta spazzino e avanguardista però è anche un antesignano della parola, pensate, ad esempio, al linguaggio espresso nelle "nuvolette" dei fumetti, parole che prese da sole, sembrano non avere alcun significato, ma nel contesto del racconto sono le uniche ad essere in grado di esprimere nel modo più compiuto sensazioni, idee, sentimenti.

Palazzeschi in questo si dimostra straordinariamente lucido ed è consapevole del fatto che queste parole "vogliono dire qualcosa", ma il poeta difende anche i suoi versi in nome del piacere che questi gli procurano.
Ecco allora che il gioco della parola si fa irriverente, scrive in modo volgare (nel senso di popolare)  ed esprime i suoi versi allo stessa maniera del popolano che canta un'aria importante distorcendo il testo che non conosce ( ognuno di noi lo ha fatto e lo fa).


LA FUNZIONE DELLA POESIA COME PURO DIVERTIMENTO

Questo è lo spirito de "L'incendiario", il linguaggio diventa il mezzo per divertirsi, per trasgredire e si fa infantile, libero da qualsiasi convenzione, dissacratorio, incline alla ripicca, apparentemente privo di nessi, quasi che l'autore senta il desiderio di regredire a quella fase prerelazionale in cui tutto è concesso e perdonato e a tal proposito dice: "Certo è un azzardo un po' forte scrivere delle cose così, che ci son professori, oggidì a tutte le porte".

Gozzano scrisse una poesia intitolata "Lasciatemi sognare", (triste e crepuscolare), Palazzeschi rispose con la sua "Lasciatemi divertire", irridente sicuramente come lo è tutta la breve raccolta contenuta ne "L'incendiario".
Palazzeschi in una famosa poesia intitolata "Chi sono?" si autodefinì "il saltimbanco dell'anima mia", bellissima definizione che evidenzia tutto l'anticonformismo di Aldo Giurlani in arte Aldo Palazzeschi.


C'è tanta buona letteratura nelle nostre biblioteche, conviene andare dietro ai  libri "più venduti" fatti a tavolino?  Palazzeschi che era contro le convenzioni sociali avrebbe risposto per le rime in questo modo:

Bubububu
fufufufu
Friù!
Friuù!

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Published by Caiomario - in Letteratura
1 luglio 2018 7 01 /07 /luglio /2018 06:33
Tutte le poesie - Guido Gozzano

Guido Gozzano è uno degli autori che si riprende  sempre volentieri perché la lettura delle sue poesie è sempre una scoperta continua, molti suoi versi poi, assomigliano ad una raccolta "etimologica", versi  che dimostrano la sua non comune padronanza della lingua e ciò non può che costituire motivo d'arricchimento per il lettore contemporaneo abituato ad un linguaggio sempre più povero e superficiale.
Purtroppo oggi esiste il compiacimento per le cose di pessimo gusto, facili da vendere perché sono facili da recepire e questo vale, in particolare modo, per la poesia, l'ultima forma d'arte spontanea che non ha bisogno di riconoscimenti ufficiali per esprimersi.
Questa bella raccolta edita da Mursia contiene "Tutte le poesie" di Guido Gozzano, il più importante esponente del Crepuscolarismo ed anche il più innovativo e il più moderno. Ho avuto occasione di parlare delle opere di Gozzano che ho scoperto fuori dalla scuola: opere come "Verso la cuna del mondo" o "La via del rifugio" meritano l'attenzione del lettore moderno che potrà così scoprire un autore che solitamente viene saltato a scuola o lambito superficialmente nei programmi scolastici.

Leggendo le poesie di Gozzano si scoprono parole dimenticate, rarissime che rimandano alla vasta cultura che il poeta e scrittore di Agliè sapeva miscelare perfettamente senza ostentarla e  dimostrando, inoltre, un'autoironia che cozzava con il rigore da "salotto buono" a cui spesso egli faceva riferimento. Molte poesie contenute nel libro sono liriche a carattere narrativo che assomigliano a dei cesti di vimini da cui spuntano fuori figure, immagini e personaggi della quotidianità borghese; in questo Gozzano è straordinario perché riesce ad esprimere una poesia non solo di sensazioni ma anche di idee.
Le liriche di Gozzano ci immergono in un mondo di banalità e quotidianità a cui lui guarda con distacco, per usare il suo linguaggio usa la penna come un dagherrotipo e ne escono fuori delle miniature con "figure sognanti in perplessità".

Più di mille parole vale la pena citare il seguente esempio:

"O musica! Lieve sussurro! E già nell'animo ascoso
d'ognuna sorride lo sposo promesso: il Principe Azzurro,

lo sposo dei sogni sognati......O margherite in collegio
sfogliate per sortilegio sui teneri versi del Prati!
"

Versi che trasudano di musicalità che riescono a creare un'atmosfera in cui predominano le componente sentimentali e le sensazioni, insomma l'arte poetica attinge dalla vita e Gozzano proprio dalla quotidianità riesce a trarre spunto per comporre versi semplici e nel contempo raffinati.
Gozzano era il contrario di D'Annunzio al punto che lui stesso affermava spesso di ringraziare Dio per non averlo fatto "gabrieldannunziano" proprio perché nelle sue poesie è presente la "vita normale" e non quella immaginifica di cui D'Annunzio era il cantore.

Chi vuole approfondire o accostarsi all'opera di Guido Gozzano,  "Tutte le poesie" è  uno dei libri più completi a cui fare riferimento, contiene  "La via del rifugio", la prima raccolta di poesie pubblicata la prima volta nel 1907 e "I Colloqui" pubblicati nel 1911, si tratta di due opere fondamentali dell'opera di Gozzano.

I versi citati nelle righe precedenti sono tratti da quella straordinaria lirica narrativa intitolata "L'amica di nonna speranza", consiglio di cercarla e di leggerla.



"Trenta quaranta, tutto il Mondo canta canta lo gallo risponde la gallina".. (Guido Gozzano)

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Published by Caiomario - in Letteratura
30 giugno 2018 6 30 /06 /giugno /2018 15:07
Filosofi: Vico Giambattista

La dottrina filosofica

1. LA CONCEZIONE DELLA CONOSCENZA

Non si può esporre la concezione della conoscenza di  Vico  senza fare riferimento a  Descartes, in un certo senso si può dire che egli parte da Descartes sino a rinnegarlo ritenendo del tutto inadeguata la sua concezione del sapere. La posizione di Vico viene spesso connotata come antirazionalistica  tuttavia non è la ragione ciò che mette in discussione quanto la visione cartesiana della realtà fornita dal filosofo francese. Il Cogito cartesiano si rivela a suo parere del tutto inadeguato per fornire una spiegazione filosofica della realtà.  Rigettare Descartes significa in primo luogo per Vico non accettarne l'impostazione matematizzante, impostazione che riduce tutta la realtà a un puro pensare o pura estensione.

Chiarimento

Descartes pensava che solo la matematica potesse spiegare tutti i processi deduttivi della conoscenza, il presupposto cartesiano si fonda sull'idea che la matematica ha a che fare con nature semplici e che quindi attraverso l'intuizione e la rappresentazione la matematica fosse in grado di superare la dicotomia tra fisica e metafisica. La concezione di Descartes, il suo rapporto con la matematica viene spesso definito razionalistico, sarebbe però più consono definire la filosofia cartesiana una filosofica critica in quanto il ricorso alla matematica per spiegare la realtà non poteva prescindere dalla coscienza. Il Cogito cartesiano si configura come un elemento precursore della coscienza, uno dei campi d'indagine con più frequentazione nella filosofia moderna.

 

Il Cogito cartesiano ci dice che esiste quella realtà ma non la spiega, non la penetra; per conoscere la realtà nella sua profondità bisogna conoscere i fatti, al contrario la filosofia cartesiana -a parere di Vico- non solo non conosce la realtà ma ha la pretesa di volerla spiegare. L'accusa nei confronti di Descartes, come è noto, sfociò nella polemica accesa, a tal riguardo si richiama il contenuto di un opera di Vico la famosa orazione De nostris temporis studiorum ratione (1708) dove i toni anche di contrapposizione personale rivelano una personalità appassionata e insoddisfatta nei confronti del razionalismo cartesiano e del clima culturale affermatosi nel XVII sec.

Nella polemica anticartesiana il punto di riferimento di Vico è Ruggero Bacone*, un punto di riferimento almeno come punto di partenza in quanto egli fedele alla concezione classica della scienza della natura ritiene che i fatti non possano dare una conoscenza esaustiva della natura. Senza conoscere la causa dei fatti non possiamo avere una conoscenza della natura, solo Dio può conoscere la causa essendone egli stesso causa, all'uomo non può rimanere che una spiegazione probabile dei fatti della natura. Potrebbe sembrare una visione sconsolata ma in realtà Vico cerca di definire i contorni di una scienza che per definirsi tale deve possedere i requisiti della garanzia razionale. Solo la ragione può fornire i requisiti di necessità e universalità, elementi essenziali della scienza  che a differenza della matematica  fornisce leggi razionali ma fermandosi sul piano dell'astratto. Non è importante per Vico solo sapere ma anche avere coscienza del sapere in questo senso solo una conoscenza piena può dirsi scienza, la pienezza a cui si riferisce Vico va intesa in questo senso pur avendo egli presente i limiti della conoscenza umana.

Le fonti di Vico

* Oltre a Ruggero Bacone, i punti di riferimento di Vico sono Platone, Tacito e Grozio. Platone gli indica una visione spirituale della vita in chiave teologica rivelando l'uomo come deve essere; Tacito gli fornisce il senso della storia indicandogli l'uomo come è; Grozio gli svela l'importanza del diritto come manifestazione concreta della natura umana.

2. LA VERA SCIENZA COME SCIENZA DEL MONDO UMANO

Nella teoria della conoscenza di Vico bisogna distinguere il momento della razionalità da quello della concretezza, entrambi i momenti non possono pero essere disgiunti se si vuole avere un sapere che sia veramente sapere umano. L'esigenza di Vico è quella di fare comprendere come realtà umana e fatti non siano coincidenti.

Chiarimento

La razionalità è una caratteristica dell'uomo, l'uomo quindi possiede la facoltà di avvicinarsi al mondo intellegibile ma nonostante questa sua prerogativa l'uomo non può conoscere i fatti della natura  perché non è causa della natura come Dio. I fatti a cui si riferisce Vico sono pertanto i fatti del conoscente, ossia fatti umani e situazioni umane. La scienza vera scienza è quindi la scienza del mondo umano, della mente umana collocata nel tempo e nello spazio.

 Come scienza del mondo umano la filosofia è filosofia dello spirito umano in quanto il suo contenuto è la concretezza dei fatti dell'uomo, filosofare significa riflettere sui fatti concreti degli uomini. Per quanto concerne questo aspetto Vico si colloca in una posizione che è in netto contrasto con il cartesianismo mentre per quanto concerne la concezione del sapere come processo che va dalla causa all'effetto è ancora immerso nel clima della filosofia cartesiana e dei suoi epigoni. 

Chiarimento

Per Vico la conoscenza del mondo umano è scientificamente valida, nel senso che è possibile raggiungerla, Cartesio al contrario riteneva che la conoscenza umana aveva un alto valore di probabilità.

La "Scienza nuova" di cui parla Vico è la scienza in cui l'uomo riprende se se stesso svincolandosi dalla natura, il filosofare diventa riflettere sull'uomo e sul mondo umano di cui l'uomo stesso è autore (seppur agente con l'assistenza divina).

Non vi può essere sapere (scire) senza fare (facere), il presupposto del sapere è il fare e la verità è antecedente al fatto. Il vero per Vico si identifica con il fatto da qui il noto principio vichiano: Verum et factum convertuntur.

3. LA NUOVA SCIENZA IN RAPPORTO CON LA REALTÀ  E LA STORIA

 

Il significato del principio vichiano Verum et factum convertuntur va inteso nel suo senso che il sapere umano si deve rivolgere ai fatti del mondo; nella filosofia vichiana  vero e fatto convertono,il vero pensa il fatto e si incrocia con il fatto.

Si è visto che razionalità e concretezza sono la peculiarità di un sapere vero, e se è vero il sapere fondato sui fatti umani, questi si dispiegano nella storia, la storia è sempre storia umana. il palcoscenico in cui l'uomo agisce. Vico vuole focalizzare l'attenzione della ricerca storica in ciò che avviene nel mondo e pur non mettendo da parte l'assistenza divina, individua il corso della storia nel mondo secondo leggi immanenti che regolano la realtà.

Nella visuale filosofica delineata Vico assegna alla filosofia e alla filologia un nuovo compito, l'argomentare su quest punto è il seguente: la filosofia si è sempre occupata di ricercare il vero attraverso la penetrazione delle essenze, la filologia di contro si è occupata di accertare i fatti attraverso lo studio dei documenti; detto dualismo ha impedito alle due discipline di dialogare impedendo quindi una lettura vera dei fatti del mondo. Una storia in cui vi è solo ricostruzione documentale manca di una visione complessiva che solo la filosofia può dare. Il vero della filosofia e il certo della filologia incontrandosi creano i presupposti per una palingenesi rigeneratrice della cultura dove  il certo della storia si rafforza con il vero della filosofia e dove, nello stesso con la storia è possibile accertare il vero della filosofia. 

4.LA DEFINIZIONE DELLE LEGGI DELLA STORIA

Ai fini di una nuova scienza che intende ridefinire il modo di concepire la storia, Vico delinea delle costanti che, utilizzando un linguaggio mutuato dall'antropologia culturale  sono le strutture della storia e che sono in grado di fare comprendere il ritmo del divenire umano. Potrebbe apparire spericolata la comparazione vedendo in Vico un antesignano di Lévi-Strauss (e certamente non è così) ma bisogna ammettere che  Vico attua un'operazione che sarà ripresa (con ben altri esiti) in età moderna. A conferma di quanto osservato vale la pena riportare le parole dello stesso Vico sulla costanza delle leggi della storia:

"tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, diversamente fondate, custodiscono questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti".

Nella sua visione filosofica vi è coincidenza tra il ritmo di vita dell'individuo e quello dell'umanità, nel divenire dell'uomo singolo vi è la sintesi del ritmo del divenire di tutti gli uomini, in questo senso la storia del singolo è emblematica della storia degli uomini.

Per determinare il ritmo della storia serve individuare delle costanti che permettano di individuare ciò che è storicamente accertato, Vico chiama queste costanti degnità, le degnità o assiomi sono dei principi universali ed eterni che permettono all'uomo di comunicare, di esprimersi nelle leggi, nelle arti. nelle scienze in tutto ciò che noi oggi chiameremo cultura in senso lato.

Il movimento ritmico della natura umana si attua in tre momenti:

  1. Senso: in questa prima fase l'uomo è governato dall'esteriorità, non avendo coscienza di sé è tutto preso dalle impressioni dell'istante. Il conoscere in questa fase è un conoscere pratico e disordinato. Facendo un paragone tra la psicologia dell'individuo e quello dell'umanità, il fanciullo sta alla storia dell'uomo come l'uomo governato dai sensi sta alla storia dell'umanità. Il fanciullo è nella fase  della passionalità così come l'umanità è nella fase della animalità.
  2. Fantasia: è la fase del giovane che pur non avendo abbandonato del tutto l'istintività del fanciullo si relaziona con l'esteriorità, la fantasia è la facoltà che gli permette di rideterminare le cose dando loro un significato universale. La commozione è un altro elemento che permette di rivivere e creare ex novo la realtà esterna.
  3. Ragione: è il momento più elevato dell'uomo che dispiega il suo agire con "mente pura" , la mente pura è la facoltà razionale che astrae, sistema concetti universali e ordina le diverse conoscenze. Nella storia degli uomini questo momento corrisponde a quello in cui vi sono leggi ed istituzioni quale risultato di una visione razionale ed ordinata dell'esistenza.

 

Chiarimento

Il ritmo della natura umana è un movimento progressivo che segue uno sviluppo cronologico e che nello stesso tempo ne spiega la sua ragion d'essere; come sviluppo necessario ed obbligato è giustificato nel senso che nella visione vichiana ha un suo valore, sotto questo aspetto si può parlare di senso della storicità che non svaluta le varie fasi della storia umana ma ne riconosce la loro irriducibile necessità.

5.  LE FASI DELLA STORIA DELL'UOMO

Ai tre momenti della storia dell'uomo corrispondono le seguenti tre fasi della storia dell'umanità:

  1. Età degli dei: è il momento dell'animalità, gli uomini vivono in una condizione di superstizione e di violenza, la loro condizione è caratterizzata dalla passione selvaggia. L'uomo a cui pensa Vico è un bestione che usa la forza e l'astuzia ma che nello stesso tempo, vivendo come un bruto non si differenzia dagli animali per quanto riguarda i suoi bisogni e i suoi comportamenti.
  2. Età degli eroi: in questa fase gli uomini pur mantenendo i tratti dell'arcaicità, iniziano a unirsi per fare fronte ai propri bisogni e per difendersi più facilmente. In questa fase caratterizzata dalla dominazione signorile acquistano rilevanza le figure dei capi, le famiglie governate dai patres si uniscono costituendo le città. Siamo ancora nell'età delle barbarie ma fuori dall'età primitiva.
  3. Età degli uomini: è la fase della ragione o mente pura degli uomini che organizzati in società costituiscono degli ordinamenti civili, promulgando leggi, governandosi con la politica, sviluppando le scienze. Ciò che illumina gli uomini in questa fase è la ragione, le esigenze del vivere civile sono un'unione di coscienza morale e coscienza religiosa. In questo momento sorgono e si sviluppano la filosofia e le leggi.

 

6. CORSI E RICORSI

La filosofia vichiana concependo la storia come storia degli uomini e giustificando razionalmente il loro manifestarsi, ne ammette la necessità e la progressività ma nello stesso tempo chiarisce che ogni corso storico al suo interno è attraversato da tre età.  Potrebbe sembrare che Vico con la teoria dei corsi e ricorsi ammetta un arretramento della civiltà, un ritorno al passato, ma non è questo il suo pensiero: il ricorso o ritorno significa che una determinata civiltà non arretra materialmente rispetto al passato ma attraversa delle fasi graduali che comunque sono diverse dal'eta dell'animalità, nel Medioevo ad esempio c'è un periodo in cui la barbarie sembra predominare ma quell'età oscura non è un ritorno al periodo del bestione preso da passioni selvagge.

Il ricorso è nella concezione di Vico una legge formale dello stesso movimento della storia che si ripete nella storia di tutte le nazioni che conoscono genesi, sviluppi, decadenze e periodi di stasi.  Vico per indicare questa legge immutabile della storia parla di storia eterna ideale, dove il termini ideale va inteso nel senso che la legge del ricorso è una legge formale che muove tutte le vicende umane.

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Opere

  • De nostri temporis studiorum ratione (1708)
  • De antiquissima Italorum sapientia ex originibus linguae latinae eruenda libri 3 (1710);
  • De uno universi iuris principio et fine uno (1720);
  • De constantia iurisprudentiae (1721);
  • Principii d'una Scienza Nuova d'intorno alla commune natura delle nazione  nota come Scienza Nuova prima (1725);
  • Scienza Nuova seconda (1730);
  • Scienza Nuova terza (edizione definitiva) (1744).

 

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Published by Caiomario - in Filosofi: Vico Giambattista

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