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19 agosto 2012 7 19 /08 /agosto /2012 05:21

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Nella prefazione al libro Oreste Del Buono ha scritto: "Questo è un libro terribile. Non solo perché sono terribili i fatti che racconta ma per il modo in cui li racconta. Ovvero senza esagerazioni e falsità", una frase che sembra lapidaria e che ci sentiamo di condividere in pieno perché quegli anni furono davvero terribili e hanno sconvolto la vita di un'intera generazione, irrimediabilmente persa e sulla quale ormai, da tempo, è stata lanciata una "damnatio memoriae" che non permette di capire cosa sia successo e che in molti casi non consente di andare oltre la verità processuale.

 

A mano armata. Vita violenta di Giusva Fioravanti, terrorista neo-fascista quasi per caso

 

 

 

 

Giovanni Bianconi racconta la storia di Giuseppe Valerio Fioravanti detto Giusva, leader dei NAR, i Nuclei Armati Rivoluzionari, autore reo confesso di delitti di cui si è assunto la piena responsabilità, ma che  ha sempre rifiutato di essere, insieme a Francesca Mambro,  il responsabile della strage di Bologna.

Nell'introduzione del libro leggiamo che Giovanni Bianconi ha ritenuto opportuno aggiungere altre pagine perchè, dopo la prima edizione, è accaduto un fatto inatteso: "Alcuni brigatisti rossi hanno preso la parola per sostenere in pubblico la possibilità dell'innocenza dei due terroristi neri, e altri, operatori carcerari , politici, intellettuali anche della sinistra si sono uniti a loro formando un comitato all'insegna del dubbio".

L'interrogativo è "Se fossero innocenti ?" perché non si tratta solo di scagionare Fioravanti e Mambro dall'accusa di essere gli autori della strage di Bologna, ma di pervenire alla verità individuando in primo liogo i mandanti dell'attentato. Prendendo per buone le parole di Fioravanti e Mambro si arriva alla conclusione che non esiste  cosa peggiore per le vittime dell'attentato che quella di trovare ad ogni costo dei colpevoli ma non i colpevoli. La giustizia italiana ha ritenuto chiudere definitivamente la faccenda condannando Fioravanti e Mambro che per molti rimangono a prescindere i  soli colpevoli della strage.

Non si tratta di schierarsi dalla parte degli innocentisti o dei colpevolisti ma di andare oltre la logica dei comitati perché ancora una volta un velo terribile e misterioso impedisce di capire cosa veramente sia successo sabato 2 agosto 1980 a Bologna. L'introduzione di Del Buono scritta a gennaio del 1996 è ancora attuale se si pensa all'intervista a Giusva Fioravanti effettuata nel corso della trasmissione radiofonica "La zanzara" il 25 luglio 2012, un'intervista che ha sollevato un vespaio di polemiche certamente inaspettate per i due conduttori Cruciani e Parenzo.

Anche se il tema dell'intervista radiofonica non era la "strage di Bologna", la sola presenza di Giusva Fioravanti ha provocato la reazione di tutti coloro che hanno ritenuto inopportuna la presenza di un "mostro" condannato come autore materiale dell'attentato. Ma questa è un'altra storia che comunque può costituire del materiale integrativo per affrontare la lettura del libro in modo attivo a distanza di 20 anni dalla sua prima pubblicazione.

 

Il libro si apre con un episodio che Bianconi racconta come se fosse un romanzo: Mambro e Fioravanti insieme ad altri "camerati" si trovano in Veneto sulle rive del canale Scaricatore vicino a Padova, stanno tentando di recuperare delle armi; insieme a loro ci sono: Gigi ( Gilberto Cavallini), Giorgio (Vale), Cristiano (Fioravanti), Fiorenzo (Trincanato) che non c'entra niente con il terrorismo ma è un malavitoso comune al quale il gruppo si è rivolto per acquistare armi e procurarsi auto per le rapine.

L'obiettivo del gruppo nel 1981 è quello di rompere le righe e farla finita con la lotta armata, le armi dovevano essere recuperate ad ogni costo perché sarebbero dovute servire per una "rapina multimiliardaria" che avrebbe consentito loro di ritirarsi senza problemi.

Le cose però non vanno come dovrebbero andare, arriva una pattuglia di carabinieri chiamata da una persona che si è insospettita per i strani movimenti che si stavano verificando vicino al canale, ne scaturisce un conflitto a fuoco, Giusva Fioravanti viene ferito, i due carabinieri vengono uccisi.

L'autore inizia il racconto partendo dalla fine, emblematico il titolo del primo capitolo "La storia è finita qui", non c'è commento ma solo la cruda cronaca dei fatti.

 

L'epilogo finale è l'ultimo atto di una storia iniziata negli ambienti della destra romana: le sezioni del Msi, gli scontri con gli avversari politici, i pestaggi, una serie di azioni che con il tempo diventano abitudine fino al salto del non ritorno: la lotta armata  esattamente come fecero molti giovani che militarono su fronti opposti. Poi il niente....per tutta la vita.

 

Bianconi con precisione certosina racconta quel clima, fa riferimento a fatti che trovano riscontro nelle carte processuali e con uno stile narrativo fluido ripercorre eventi che sfociarono in terribili delitti di cui ancora oggi si fatica a comprendere il perché. Omicidi politici che non potevano avere nessun consenso e che erano l'esatto contrario di una logica rivoluzionaria il cui obiettivo è sempre stato quello di aggregare le masse. L'assassinio del giudice Mario Amato rimane incomprensibile, così come è del tutto priva di significato politico la logica della banda armata che si avvicina alla criminalità comune intessendo dei "rapporti d'affari".

 

Non c'è dubbio che l'intolleranza politica che si respirava in quegli anni nei confronti dei militanti del Msi sia stata la causa che ha portato molti giovani a deviare verso la deriva senza ritorno dell'eversione. Quando Giusva Fioravanti racconta che nel novembre-dicembre 1979 se ne andò di casa per iniziare quella che lui ha chiamato "la latitanza preventiva" aveva già commesso  un omicidio: quello di Roberto Scialabba in occasione della commemorazione della morte di Mikis Mantakas. Ma non era ancora un terrorista.

 

Quando Bianconi spiega il contesto in cui nacquero tanti Fioravanti ricorda che "le violenze, gli scandali, le tensioni politiche che appassionavano e dividevano i giovani ancor più degli adulti erano all'ordine del giorno"; chiedersi chi abbia acceso le miccie però serve e non c'è dubbio che Piazza Fontana,  la madre di tutti i misteri abbia dato inizio a una stagione lunghissima di terrore che ha visto tre protagonisti: il terrorismo di estrema destra, quello di estrema sinistra e non meglio identificati apparati dello Stato. Questo è il punto che potrebbe fornire una chiave di lettura del libro che vada oltre la figura di Giusva Fioravanti, chi soffiò su quel fuoco, chi erano i mandanti politici di quelle trame, chi aveva l'interesse a provocare ad arte divisioni e odi? Forse non lo sapremo mai, nonostante le rassicurazioni di alti epsonenti delle istutuzioni che hanno assicurato più volte che avrebbero fatto tutto quello che era nel loro potere per togliere il segreto di Stato.



La storia di Giuseppe Valerio Fioravanti, terrorista per caso, è stata da lui stesso raccontata, il sangue e la violenza ci sono stati, non ha rinnegato nè negato  quei fatti; la sua storia è quella di molti altri giovani che vissero pericolosamente quel periodo, ma non esiste un racconto vero e credibile sulla strategia della tensione e su quella pericolosa convergenza tra servizi segreti e politica. Lì è la chiave di tutto ma forse non conosceremo mai i nomi dei responsabili che hanno fatto di questa democrazia una "cosa loro".

IL LIBRO

 

  • Titolo: A mano armata. Vita violenta di Giusva Fioravanti terrorista neo-fascista quasi per caso
  • Autore: Giovanni Bianconi
  • Editore: Dalai editore
  • Data di pubblicazione: 1992 (Baldini & Castoldi)
  • Data di ultima pubblicazione: 2007 
  • Pagine: 341 
  • Codice ISBN: 9778860731784

 

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Published by Caiomario - in Storia
18 agosto 2012 6 18 /08 /agosto /2012 06:02

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L'esperienza della guerra

Se c'è un periodo che ha influenzato particolarmente la personalità di Carlo Emilio Gadda, nato a Milano il 14 novembre 1893, questa è stata l'esperienza della prima guerra mondiale, un'esperienza che affrontò quando aveva solo 22 anni. Per comprendere l'opera di Gadda bisognerebbe distinguere quella che è il suo retroterra ideologico dalle vicende personali, ma entrambi gli aspetti si intersecano al punto che diventa difficile capire quanto le esperienze vissute abbiano influito sulla sua produzione letteraria. L'esperienza gaddiana della Grande Guerra, almeno all'inizio per quanto riguarda le motivazioni che lo convinsero ad arruolarsi volontario, erano le medesime di una generazione che credeva fermamente negli ideali patriottici, ma come è accaduto ad altri giovani che parteciparono alla prima guerra mondiale, l'esperienza della trincea prima e la disfatta di Caporetto poi, furono devastanti sul piano morale al punto che ne segnarono profondamente la personalità.

Ne è testimonianza "Taccuino di Caporetto. Diario di guerra e di prigionia", pubblicato solo nel 1955 e che non può considerarsi un'opera organica ma una raccolta di note e appunti scritti a mo' di diario, un'opera che ha un alto valore documentario in quanto è una testimonianza viva e reale del sentire di Gadda e di molte riflessioni  che, in seguito, saranno sviluppate sul piano letterario nelle opere della maturità.

Il diario comprende il periodo che va dal 1915 al 1919, periodo nel quale possiamo distinguere  le seguenti cinque fasi:

  • L'interventismo dominato dai valori patriottici risorgimentali;
  • La guerra con i primi dubbi;
  • La prigionia;
  • La morte del fratello Enrico;
  • La disfatta di Caporetto.

 

Il Gadda mitragliere sottotenente degli alpini che parte entusiasta per la guerra, alla fine rimarrà profondamente colpito per tutta la vita da quell'esperienza bestiale, la sua formazione illuministica prevalse sin da subito sulla parte emotiva e il suo giudizio sull'organizzazione militare che condusse alla disfatta di Caporetto, fu  di una condanna senza appello. Anche se Gadda fu assalito dalla desolazione e dalla amarezza, non si fece vincere dalla rassegnazione e la scrittura fu il modo di reagire alla depressione che lo colpì durante la prigionia. Il valore catartico della confidenza a se stesso fu una medicina che lo aiutò in parte ad accettare la morte del fratello Enrico, giovane aviere che condivise con lui un breve percorso di vita. La figura di Enrico si trasformerà nella mente di Carlo Emilio in un mito e l'amore da fratello carnale diventerà ammirazione verso il soldato coraggioso e tuttavia ne accrescerà in modo smisurato il senso di colpa e di prostrazione.

 

Se vi è materiale sul quale lavorare per comprendere l'opera gaddiana, il "Taccuino di Caporetto. Diario di guerra e di prigionia" è sicuramente una miniera di informazioni per comprendere come Gadda elaborò il concetto della sofferenza e come questo sentimento vissuto in modo incosciente diventerà l'elemento condizionante e caratterizzante della vita vissuta dallo scrittore milanese. Se il dolore lascia i segni che si rivelano nel tempo, la morte del fratello lascerà in Carlo Emilio un segno indelebile che si tradurrà poi in insofferenza verso tutti compresi i familiari e che lo porterà ad un isolamento che assumerà delle forme estreme fino a sfociare nella patologia i cui effetti sono tutti rintracciabili nell'intero corpus della sua opera letteraria. Emblematica è a tal proposito quanto espresse Gadda  con le seguenti parole che rivelano la sua fragilità psichica e la sua delusione:

 "Miserabile io credo soprattutto di essere per l'eccessiva, (congenita e continua) capacità del sentire, la quale implica uno incorreggibile squilibrio fra la realtà empirica e l'apprezzamento che il mio essere ne fa in relazione con le necessità della sua esistenza; implica la sufficienza nel comprendere ma l'insufficienza nell'agire, oltre che nel volere".

Gadda non si perdonerà mai di essersi schierato a favore dell'intervento e quando l'esperienza della guerra rivelò il cinismo, l'incompetenza e la rigidità dei comandi militari, il suo sentimento si trasformò in disprezzo. Se Gadda parte per la guerra impregnato di un'ideologia basata sui valori liberali risorgimentali, torna non credendo più in niente e la sua mente si trasformerà in un groviglio in cui anche la vita civile finisce per essere vista come una grande caserma dove le trincee e le solitudini si ripresentano e dove, al posto di ufficiali imbecilli, si trovano degli esecutori pronti ad obbedire a qualsiasi ordine.

La lettura del libro aiuta a comprendere come la guerra si presenti con un Giano bifronte dove il prima e il dopo sono sempre in contrapposizione, nessuno, anche il più entusiasta della guerra, dopo averla vissuta, sarà più come era prima. La voglia febbrile di menar le mani quando si scontra con il reale diventa  un rifiuto e  un disprezzo inquieto che contagia il lettore il quale condividerà la conclusione senza appello del rifuto della guerra quale espressione estrema della stupidità umana. Se questo aspetto universale vale per ogni guerra, resta la denuncia storica di Gadda nei confronti di quella classe dirigente che, in quelle circostanze, dimostrò la sua incapacità e la sua improvvisazione nel non saper affrontare con senso di dignità  un momento tragico finendo con lo scaricare il peso delle responsabilità sopra coloro che ne subirono le conseguenze. 

La storia si ripete, nonostante passino le generazioni, e la retorica delle ricorrenze è la prova provata che ci sarà sempre un Solone pronto ad usare il patriottismo per unire un popolo che è uso tirare fuori il tricolore solo quando gioca la nazionale di calcio.

Taccuino di Caporetto. Diario di guerra e di prigionia è un libro amaro dove la spietatezza nei confronti di se stesso non lascia scampo diventando a tratti struggente e penosa, il lettore non troverà mai pagine banali o artificiali ma uno stimolante "memento" per comprendere che la nostra cultura è il frutto di esperienze stratificate che determinano le nostre scelte attuali.




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Fonte immagine: http://www.flickr.com/photos/36281822@N08/5761178701

Diario di US Army Africa

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Published by Caiomario - in Libri
17 agosto 2012 5 17 /08 /agosto /2012 04:37

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 IL TITOLO AD EFFETTO

 
Se il successo di un libro fosse determinato dal titolo "Falli soffrire. Gli uomini preferiscono le stronze" scritto da Sherry Argov andrebbe preso ad emblema di come si scrive un libro di successo a partire dal titolo. Non c'è dubbio sul fatto che la frase che fa da titolo incuriosisce il potenziale lettore, mentre non si può dire se il libro venga letto più da un pubblico femminile o da uno maschile perché entrambi potrebbero avvicinarsi con diverse motivazioni:

  • il pubblico femminile per trovare un vademecum su quello che bisogna fare per diventare una stronza ed avere successo con gli uomini;
  • il pubblico maschile per scoprire il modo in cui individuare le stronze ed evitarle oppure incontrarle.

                                                                                                                                                                                                                                                                     Resta il fatto che la frase del titolo fa parte di tutte quelle espressioni stereotipate che vengono utilizzate quando si parla si parla delle relazioni tra donne e uomini ed è chiaro che l'autrice espone il punto di vista di una donna, ma -è questa la sorpresa- il libro non si rivolge a delle "stronze" ma a tutte quelle giovani donne che per difendersi e tenersi stretto il proprio uomo devono diventare stronze.

IL RITRATTO DELLA PERFETTA STRONZA

Eppure il lettore esaurita la curiosità di accostarsi al libro solo per il titolo ad effetto scoprirà un libro che potrebbe essere collocato a metà tra l'analisi comportamentale che riguarda la relazione uomo-donna e il vademecum su cosa bisogna fare e non fare per avere un rapporto di successo e duraturo. Il tutto viene esposto con stile ironico e a volte caustico, la Argov usa un linguaggio semplice ed efficace e delinea il ritratto della perfetta "stronza": è una donna che intanto non si lascia influenzare dai fatti della vita e che è pienamente cosciente dei "rischi" che sta per affrontare, accetta le regole del gioco e le volge a sè adattandole alle circostanze, insomma è una donna sicura che sa essere nel contempo enigmatica e affascinante e che usa le armi della seduzione non in maniera plateale.

Probabilmente nel ritratto delineato dalla Argov non tutte le donne si possono riconoscere ed è altrettanto vero che molte donne non sarebbero nemmeno in grado di mettere in pratica i consigli suggeriti dall'autrice, ma resta il fatto che aumentare la propria autostima diventa un meccanismo di difesa utile in tutte le relazioni donna-uomo a prescindere dal fatto che queste siano quelle di coppia.

Il rischio che invece corre la lettrice è quello di intepretare in modo sbagliato "l'essere stronza" perché è facile passare dalla determinatezza all'antipatia, così come è altrettanto facile cercare di assomigliare ad un uomo credendo di essere una "perfetta stronza". A questo punto, per comprendere appieno lo spirito del libro,  è necessario che il termine "stronza" venga interpetato come sinonimo di: 

  • consapevole;
  • intelligente;
  • astuta;
  • affascinante;
  • misteriosa;
  • dolce le giusto grado necessario a raggiungere lo scopo.

 

E se la qualità dell'essere scaltrita aiuta nella relazione di coppia, non c'è dubbio che diventa una vera e propria arma che aiuta a sopravvivere in ogni circostanza della vita, diventare padrone di un'arte -in questo caso dell'arte del vivere e del rapportarsi agli altri- significa conoscere tutti i segreti e permette di non essere vittime. Del resto non era questo l'obiettivo finale di tutte coloro le quali gridavano "l'utero è mio e lo gestisco io"? Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti e la donna di 40 anni fa non è la donna di oggi, ma è innegabile che la subalternità della donna alla cultura del maschio permane e permarrà fino a quando non cambierà il modo di intendere la relazione di coppia e la famiglia.

Sherry Argov questo lo ha capito molto bene e lungi dal voler "rivoltare" il mondo mettendo in discussione il modo di intendere la famiglia parte dal primo nucleo fondante di essa: la coppia e lo fa dalla parte di Eva.

 

INFORMAZIONI SUL LIBRO

  • Autore: Sherry Argov
  • Titolo: Gli uomini preferiscono le stronze
  • Casa editrice: Piemme
  • Data di pubblicazione: 8 febbraio 2011
  • Pagine: 316
  • Prezzo di copertina: 15,00 euro

 

 

Falli soffrire 2.0. Gli uomini preferiscono le stronze. La versione aggiornata









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Published by Caiomario - in Libri
16 agosto 2012 4 16 /08 /agosto /2012 11:28

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"Vent'anni dopo" insieme a "I tre moschettieri", "Il Visconte di Bragellone" e "Il Corsaro Nero" è il libro di Alessandro Dumas che faceva parte della magnifica libreria che la Fabbri Editore aveva pubblicato per la prima volta nel 1973 in edizione dedicata agli adolescenti. "Vent'anni dopo", in particolare, veniva proposto con una copertina rigida in cui si vede uno dei tre moschettieri ritratto mentre guarda e sta per pronunciare una parola, sullo sfondo un castello e nel lato la figura poco rassicurante di un carceriere che ha la mano appoggiata sulla porta di una cella. 

Il racconto inizia con lo stile tipico di Dumas padre che sapeva creare degli spaccati verosimili degli ambienti in cui si muovevano i protagonisti delle sue storie. Il primo capitolo intitolato "Il Fantasma di Richelieu" inizia in una camera del Palazzo Cardinale presso "un tavolo dagli angoli d'argento ingombro di libri e di carte", dietro quel tavolo un uomo con la testa affondata tra le palme. Una perfetta descrizione per la sceneggiatura di un film. 
Immaginatevi quindi quest'uomo che indossa una zimarra rossa ed è intento a meditare tanto che a vederlo sembrava di vedere il cardinale Richelieu. Chi era quell'uomo? Era il cardinale Giulio Raimondo Mazzarino nome che venne poi francesizzato in Mazarin. 

 

 

 

 

 

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Fonte immagine:  http://www.flickr.com/photos/69875617@N00/742693877 

Album di JohnSeb

UN UOMO AVIDO DI DENARO, ANALOGIE CON IL PRESENTE 

Mazzarino dopo essersi laureato in legge, intraprese la carriera di legato pontificio, inviato in Francia conobbe poi il cardinale Richelieu che lo nominò suo successore. Fautore dell'assolutismo, ne fu il più fedele interprete e dedicò tutta la sua attività politica a rafforzarlo contribuendo a rafforzare la monarchia francese che arrivò poi con Luigi XIV alla sua massima potenza di cui il Re Sole era solito farsi vanto. 
Come lo descrive Dumas? Lo definisce intanto "straniero d'origine" e lo descrive come un uomo ambizioso e avido di denaro che si era reso inviso all'intera nazione opprimendola con sempre nuove tasse e balzelli che poteva agire grazie alla protezione della regina di Francia. 
Il popolo e i borghesi si erano uniti stanchi delle prepotenze perpetrate dall'avido cardinale e avevano costituito dei partiti meditando la rivolta. 


  • Il filosofo Giovan Battista Vico parlava di "corsi e ricorsi della storia", non lo dice "caiomario" ma uno dei più grandi pensatori della storia del pensiero e se accadesse di nuovo? Quell'opprimere con nuove tasse e balzelli mi ricorda qualcuno. Chi vi ricorda? 


Ritornando a Dumas (padre) e alla sua descrizione, ogni volta che leggo il nome di Mazzarino mi ricordo questa illustrazione, potere della forza della parola. 

LA FORZA DELLE PAROLE, PERCHE' E' NATO IL TERMINE "FRONDISTA" 

Ma cosa facevano questi cospiratori? Udite, udite....facevano come gli scolari che tiravano sassi con la fronda, ecco perché i ribelli si chiamarono frondisti, termine che indica gli appartenenti al partito della Fronda. Pensate che da quel momento in poi ogni oggetto -lo racconta proprio Dumas-incominciò a prendere la forma della fronda, persino il pane e i cappelli vennero disegnati a forma di fronda (o fionda, come siamo abituati noi a chiamarla). 

A causa di Mazzarino il popolo incominciava ad invadere le strade (popolo di rivoluzionari i francesi, da sempre) e le guardie a stento lo teneva a bada. 
Mazzarino incominciò a rendersi conto che tutta la Francia era contro di lui, ma ecco che arriva D'Artagnan, ecco che incomincia il romanzo e finisce la storia. 

D'ARTAGNAN PIZZETTO E BAFFETTI 

Il signor D'Artagnan descritto da Dumas era un uomo "sui trentanove o quarant'anni" con l'occhio vivace e i capelli appena brizzolati, riceve a questo punto un incarico dall'avido monsignore e si reca alla Bastiglia e lì si comporta da vero guascone (termine connotativo che oggi indica colui il quale ha un comportamento incline all'ironia, allo scherzo e alla presa in giro altrui). 

Mazzarino però vuole al suo servizio non solo il guascone con il pizzetto ma anche gli altri moschettieri che, trascosi vent'anni si sono separati, ed ecco allora che la magnifica band fa la sua reunion: il gruppo originario è ricomposto? Manco per sogno, solo il corpulento Porthos segue il guascone. Athos e Aramis sono contro il cardinale e simpatizzano per un partito a lui avverso. L'avido monsignore che aveva deciso di servire mammona e non l'Onnipotente, tramava contro Cromwell con lo scopo precipuo di detronizzare Carlo Stuart, re d'Inghilterra. Aramis e Athos vanno allora in Inghilterra per dare aiuto allo sfortunato sovrano. 

LA BANDA DEI QUATTRO....VENT'ANNI DOPO 

I quattro si trovano in fronti avversi, il "tutto per uno, uno per tutti" sembra essere ormai solo un ricordo dei giovanili ardori, ma ecco il colpo di scena alla Dumas/d'Artagnan, i quattro moschettieri si uniscono nuovamente "vent'anni dopo".... 


...qui ci fermiamo, leggete il prosieguo della storia avventurosa. 


ALCUNE CURIOSITA' 

  • Dumas è l'inventore de "L'uomo mascherato"; 
  • Dumas parla del vino di Porto preferibile senza dubbio a una "scipitissima birra"; 
  • Dumas inventa l'espressione "la mente e il braccio" per indicare d'Artagnan e Porthos; 
  • Dumas ha inventato espressioni del tipo "Il boia di.....", ma alcuni termini da lui usati sono entrati ormai nel linguaggio comune comune come appunto "guascone";
  • Il linguaggio dei fumetti attinge da Dumas espressioni quali "Diamine", "Per Bacco" ecc, ecc. 



Leggendo quarant'anni dopo "Vent'anni dopo" si legge la storia in un altro modo. 

Consigliato a tutte le età.

 

 

 


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Published by Caiomario - in Libri
16 agosto 2012 4 16 /08 /agosto /2012 04:24

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È sempre un'epserienza unica leggere le poesie di Alda Merini, la Merini trasognata che usa le parole come un'arte visiva per dar forma all'ambiente nel quale ella si esprime. Spesso si tende a parlare di un poeta con certo convenzionalismo soffocando o non cogliendo quella schietta ispirazione che costituisce una sorta di privilegio poetico, un dono della natura che pochi anno. Almeno quando raggiunge delle vette altissime. 
La Merini non dava mai l'impressione di usare la scorciatoia lirica per manifestare il suo dolore e la sua gioia come fatti poetici. Eppure in ogni sua poesia si riesce sempre a intravvedere un misto di dolcezza trasognata e di straordinaria forza d'animo, è sempre l'amore, quello più vero ed intimo che muove la sua scrittura anche se la fonte sorgiva da cui tutto scaturisce è sempre la sofferenza. 

"La vita facile. Sillabario" per usare una felice espressione è un libro che "ti colpisce nel petto" ma non fa eccezione rispetto alle altre bellissime raccolte che si sono succedute a partire da "La presenza di Orfeo", 142 pagine in cui si ritrovano frequenti locuzione interlocutorie che introducono il lettore in un nuovo orizzonte espressivo. Ho apprezzato quella capacità rarissima di fare poesia in modo artigianale anche quando la Merini si esprime attraverso gli aforismi. Quando la poetessa scrive "Forse il più bicchiere in natura è la mano dell'uomo" fa poesia anche nell'espressione breve. 

 
Raccontare la Merini è  riduttivo, bisogna leggere le sue parole e fermarsi a riflettere, senza fretta, per poi riprendere le pagine apprezzando quel che di superfluo e di conflittuale c'è. Alla fine del percorso si riesce a cogliere quel senso di straniamento che è il segno distintivo del modo di esprimersi della grande poetessa milanese. 


IL LIBRO

 

  • Autore: Alda Merini
  • Titolo: La vita facile. Sillabario
  • Editore: Bompiani
  • Collana: I Grandi tascabili
  • Anno di pubblicazione: 2001
  • Pagine: 144
  • Codice Ean: 9788845250101

 

La vita facile

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Published by Caiomario - in Poesia
15 agosto 2012 3 15 /08 /agosto /2012 18:30

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Ci sono due modi per approcciarsi alla lettura delle opere di Tito Livio: la prima perché si è costretti a farlo, la seconda per libera adesione. Abbiamo avuto entrambe le esperienze: nel primo caso le incombenze scolastiche ci hanno portato a tradurre numerose versioni di latino tratte dalla storia di Tito LIvio, nel secondo caso, invece, la libera adesione è avvenuta in un periodo successivo a quello scolastico per libero convincimento.
Abbiamo sempre trovato Livio un autore non eccessivamente difficile da tradurre, un autore che riserva una miniera di informazioni e di curiosità che permettono di conoscere quelle che, in un certo senso, sono anche le nostre origini.

 

 

 

 

 

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Fonte immagine:  http://www.flickr.com/photos/73416633@N00/675571085 

Album di Colros

 



L'AUTORE

Tito Livio nacque a Padova nel 59 a.C. (la data è certa), uomo austero e conservatore, era famoso per la severità della condotta di vita. Da giovanissimo andò a Roma dove condusse una vita appartata dedicandosi alla stesura della storia di Roma, una storia che va dalle origini fino all'età repubblicana.
Per 40 anni Tito Livio scrisse un'opera monumentale che comprende 142 libri, nessuno storico o gruppo di studiosi ha mai scritto un'opera talmente vasta come quella di Livio. I libri erano talmente numerosi che gli stessi Romani trovavano difficoltà a conservarli in una biblioteca.

Marziale vissuto all'epoca di Domiziano scrisse a tal proposito:

"Livio enorme, che la mia biblioteca, non può accogliere (tutta la sua opera), (Tito Livio) è ristretto in piccole pergamene".

Per i Romani il libro era la pergamena, ossia un rotolo di carta di pecora che per essere letta doveva srotolata e appoggiata su un tavolo, occupava spazio e ne occupava moltissimo quando doveva essere conservata all'interno di una biblioteca. Si comprende il motivo per cui l'opera di Tito Livio venne arbitrariamente ridotta in piccole pergamene al punto che oggi dei 107 libri mancanti ci rimane una riduzione, le "Periochae" scritte da un autore ignoto.

Fu amico di Augusto e il primo Cesare ricambiò l'amicizia e la stima tanto da definirlo scherzosamente il "pompeiano" per lo spazio che diede alle gesta di Pompeo nella sua storia.
Morì a settantasei anni nel 17 d.C. senza riuscire a concludere la sua monumentale opera, la morte lo colse all'improvviso mentre stava scrivendo.


IL LIBRO 

  • Titolo: Storia di Roma dalla sua fondazione. Testo latino a fronte. Vol. 1: Libri 1-2.
  • Autore: Livio Tito
  • Editore BUR Biblioteca Univ. Rizzoli (collana Classici greci e latini)
  • Pagine: 416
  • Prezzo: euro 10,42



IL CONTENUTO DEL LIBRO 

Il libro contiene la storia di Roma dalle sue orgini (ab urbe condita), l'origine di Roma è fissato convenzionalmente nel 753 o 752 a.C; Livio racconta le origini di Roma partendo dalla fondazione mitica di Roma che avvenne per opera di Romolo: Roma per "DECRETO DIVINO" venne nominata "caput mundi".
Racconta Livio un episodio che vale la pena ricordare: Romolo un giorno si trova davanti alla presenza divina, il dio gli dice "Va' annunzia ai Romani che i Celesti vogliono così, che la mia Roma sia capo del mondo: coltivino perciò, e sappiano e ai posteri tramandino che nessuna forza, umana potrà resistere alle armi romane".
E' interessante conoscere la cronologia storica riferita da Livio, la maggior parte degli episodi da lui narrati sul periodo della monarchia sono ancora oggi quelli che si ritrovano nei manuali di storia.
La fondazione di Roma si intreccia cone quella del Ratto delle Sabine, il periodo della fondazione si conclude con la morte (supposta) di Romolo per opera di un fulmine nel 37 a.C.

Dobbiamo credere ad ogni cosa che Livio narra? Ovviamente no, anche se a suo modo Livio con gli strumenti che aveva a sua disposizione cercò di ricostruire la storia di Roma rifacendosi agli storici precedenti come: Fabio Pittore, Cincio Alimento, Catone il Censore, Celio Antipatro e a Polibio.
In ogni caso la sua perfezione oratoria è esemplare e nessuno storico moderno può prescindere dall'opera di Livio.

Nella parte inziale si trova il proemio che è in primo luogo una confessione nella quale Livio esprime tutta la sua trepidazione per l'opera che si accinge a scrivere e la sua venerazione per Roma e per i suoi valori.
Livio inoltre spiega l'intento moralistico e pedagogico della sua storia, per noi non è concepibile pensare alla storiografia in questo senso ma per Livio e per gli antichi la funzione dello storiografo era proprio questa.


L'ANGOLO PERSONALE

Leggere la storia di Roma e conoscere le sue origini secondo la versione raccontata da Tito Livio è immergersi in una storia romanzata; la storia è quella di un'epopea di un popolo e leggere Livio è come continuare a leggere l'Eneide. Livio non è uno storico in senso moderno, nella sua narrazione non vi è un riferimento a dei documenti, tutto è improntato sul "Si narra", una storia "de relato" che ha molti contenuti di realtà ma anche molti elementi inventati che devono suscitare grandi ideali e grandi sentimenti.
Una delle fonti a cui Livio si rifà quando raccolta le guerre puniche è Polibio che aveva il pregio di raccontare un fatto, Livio invece dà anima a quel fatto. Questo è il motivo per cui Livio è stato definito il grande "innamorato di Roma".

Può piacere oppure no ma leggere Livio significa conoscere l'epopea di un popolo e il concetto di cosa pubblica. Nessun uomo poteva creare la storia di Roma se Roma non fosse stata popolata da eroi, quando scompariva un grande personaggio ne compariva subito un altro che portava avanti la res pubblica. Ecco Livio non fa altro che mettere per iscritto quello che era l'animo di un popolo che viveva la virtù nei fatti.


UN EPISODIO CURIOSO 

Livio racconta che nel 260 a.C. il Senato -la massima istituzione di Roma nel periodo consolare- negò l'abolizione dei debiti nonostante lo avesse promesso, il popolo romano per tutta risposta si sollevò e si ritirò sul Monte Sacro. Come si dice oggi: senza se e senza ma.
L'episodio (storico) raccontato da Livio dà l'idea di cosa significava "res pubblica" e come i valori condivisi e convissuti fossero vissuti da tutto il popolo romano. La politica era al servizio del popolo e non il contrario. E' un episodio che fa pensare se raffrontato al nostro modo di accettare qualsiasi decisione anche ingiusta da parte di uno Stato come quello moderno che tratta i suoi cittadini come sudditi.




Consigliamo la lettura del libro e di quelli seguenti editi dalla B.U.R., la lettura è suggerita anche a coloro che non conoscono il latino, la versione a fronte permette un'agevole lettura di una parte di questa immensa opera scritta da Livio, l'autore che meglio interpretò e impersonò la virtù di Roma.

 

 

 


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Published by Caiomario - in Letteratura latina e greca
15 agosto 2012 3 15 /08 /agosto /2012 13:25

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Quando si parla di autori russi è ormai un luogo comune quello di sottolineare un presunto difetto: "quello di essere noiosi"; niente di più fuorviante per i lettori che dovrebbero avvicinarsi ad ogni autore senza preconcetto. Anton Cechov va esattamente in direzione contraria allo stereotipo disegnato da coloro che non conoscono la letteratura russa e il cui giudizio è stato in parte influenzato dalle noiosissime riduzioni televisive in bianco e nero trasmesse negli anni '60. 
Ma Cechov non è Leon Tolstoj, non scrive romanzi lunghi dove il rischio per il lettore è quello di perdere il filo della trama o quello di abbandonare il testo dopo la lettura del primo capitolo, Cechov è uno dei più straordinari autori di novelle e racconti brevi, non è noioso, è sobrio ed è l'autore perfetto per i lettori di ogni epoca perché sa rappresentare, in modo magnifico, i personaggi della vita quotidiana, con le loro debolezze e i loro difetti. 

Leggendo infatti i racconti di Cechov è facile procedere per analogia trovando delle corrispondenze con la propria realtà, così ci accade ogni volta che riprendiamo una delle novelle contenute nelle sua raccolte. 
La prima raccolta di Cechov che abbiamo letto è stata "Racconti variopinti" che contiene una serie di racconti scritti a partire dal 1883; la forma letteraria preferita da Cechov era quella della novella; lo scrittore russo era solito "passare" i suoi scritti a riviste di poca importanza che, all'epoca in cui visse, avevano una scarsissima diffusione nella società russa composta per lo più da una pletora di analfabeti. 
Quello che più apprezziamo di Anton Cechov è il suo saper raccontare con distaccato umorismo l'umanità nella sua universalità. 
Come di Verga ricordiamo novelle quali "La Roba", "La Lupa" o "Rosso Malpelo" così di Cechov ho ben fissato nel mio immaginario alcune delle sue straordinarie novelle come, ad esempio, "Il camaleonte", "Lo starnuto" , "I contadini", "La fidanzata". Ecco la mia selezione: 

IL CAMALEONTE 

La novella è tutta incentrata sul commissario Ociumielov che si trova nell'imbarazzo di prendere dei provvedimenti nei confronti di un cane che ha morso l'orefice Chriukin. 
Il racconto è dinamico e segue il flusso di informazioni che lo stesso commissario riceve nel corso delle sue indagini. Più nuove informazioni riceve, più cambia idea, da questo comportamento deriva il titolo della novella. Il commissario procede come un camaleonte e come il camaleonte cambia il colore della pelle adattandosi all'ambiente in cui si trova, così Ociumielov si adatta al suo ambiente di vita. 
Analogie con l'universale comportamento umano? Tante. Naturalmente il lettore troverà in questo e negli altri racconti della raccolta il punto di vista del commissario, insomma niente a che fare con il modo di procedere, ad esempio, di Maupassant che quando racconta inserisce i suoi commenti condizionando il giudizio di chi legge. 



LO STARNUTO 

Della raccolta è quello che più mi è piaciuto, prima di tutto per la sua brevità e poi per la storia in sé esposta con uno stile al limite del surreale. 
Il protagonista del racconto è il "magnifico usciere" Ivàn Dmitric Cerviakòv che si trova in un teatro per seguire "Le Campane di Corneville", quando all'improvviso starnutisce colpendo senza volerlo un generale, il banalissimo episodio gli crea un senso di colpa talmente forte che provocherà in lui la morte. 

Ecco la conclusione (vale la pena citare il passo per avere un'idea dello stile di Cechov): 

"Nel ventre di Cerviakòv qualcosa si lacerò. Senza vedere nulla, senza udir nulla, egli indietreggiò verso la porta, uscì in strada e si trascinò via.....Arrivato macchinalmente a casa, senza togliersi la divisa di servizio, si coricò sul divano e.....morì"

La caratteristica di tutti i racconti è la presenza di espressioni brevi in cui Cechov descrive abilmente gli stati d'animo e i comportamenti interiori dei personaggi, il lettore troverà una corrispondenza tra il modo di comportarsi di ciascun personaggio e gli accadimenti vissuti in un gioco di continui rimandi in cui diventa difficile comprendere se sono i protagonisti a causare gli eventi o se gli eventi determinano la reazione e influenzano il comportamento dei protagonisti. In questo Cechov è stato un maestro!!! 


INFORMAZIONI SUL LIBRO


Titolo Racconti (1885) 
Autore Cechov Anton 
Editore Feltrinelli (collana Universale economica. I classici) 
Prezzo di copertina: 9,80 Euro. 

Se ne consiglia la lettura.

Cechov acconta l'uomo, l'uomo di ogni tempo. Un maestro.

 

Articolo di proprietà dell'autore adattato per questo spazio.

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15 agosto 2012 3 15 /08 /agosto /2012 04:24

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Raccontano i biografi che quando Franz Kafka scrisse "Lettera al padre" aveva 36 anni e non aveva ancora deciso se sposarsi o abbracciare il celibato, due situazioni assolutamente contrapposte, ma la seconda era ritenuta dallo stesso Kafka una situazione ideale perché gli avrebbe permesso di dedicarsi alla scrittura senza avere alcun tipo di distrazione. E' una figura complessa quella di Kafka che crebbe con un padre attento al prestigio di classe e una madre dal carattere delicato, tra i due il giovane Franz era sicuramente più vicino alla figura della madre. 

I rapporti dello scrittore ceco con il padre Herman furono sempre molto conflittuali a partire dal periodo universitario quando, dopo essersi laureato in giurisprudenza, decise di dedicarsi alla scrittura, in seguito a questa scelta tra i due scoppiarono le incomprensioni dovute anche ad un'incompatibilità caratteriale che ad un certo punto diventò insanabile, raggiungendo un punto di non ritorno che appare evidente in ogni riga della "Lettera al padre". 

La lettera venne scritta nel 1919 in un periodo di profonda crisi di Kafka che si sentiva profondamente frustrato per il lavoro che faceva: era un oscuro impiegato che odiava letteralmente la routine e la lentezza di un lavoro che era quanto di più lontano vi fosse dalle sue aspirazioni. 
Ma se la vita di Kafka non fosse stata così grigia e frustrata, sarebbero nati dei capolavori come "La metamorfosi" (vedi La metamorfosi - Franz Kafka ) e "Il processo"? Probabilmente no, perché le sue opere sono lo specchio della sua personalità e forse solo una catarsi con una rinascita avrebbe potuto cambiare il corso delle cose. 
Ma qual'è la colpa di Hermann Kafka agli occhi del figlio che inizia la lettera con un dolcissimo "Mio caro papà"? Prima di tutto di avergli imposto un'educazione che mirava -a detta di Franz- esclusivamente a soddisfare le ambizioni del genitore, ma Franz, nonostante tutto, aveva bisogno del padre e rivolgendosi a lui gli dice "Tu eri per me la misura di tutte le cose", "Tu hai lavorato per tutta la vita per i figli", "Ti ho sempre evitato, ritirandomi in camera mia, fra i libri, fra amici esaltati, fra idee insane". 

 

 

 

 

 

 

 

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La casa di Kafka, la foto è tratta dall'album di Laura Padgett

Fonte immagine:http://farm4.static.flickr.com/3085/2776408512_701087e6ef.jpg

 

 

Kafka sembra voler mettere le mani avanti giustificando il dissenso del padre nei suoi confronti ed è ben consapevole del fatto che, a causa sua, il padre si era trovato senza un valido aiuto nell'azienda di famiglia. Eppure nonostante queste ammissioni Franz chiede al padre di riconoscere di essere la causa di queste incomprensioni, causa che definisce senza colpa. 
Ma che cosa intende Kafka per causa? E' lui stesso ad esplicitarlo in questa bellissima lettera dove si definisce un "Lowy con un certo fondo kafkiano" ossia una persona fondamentalmente debole che non poteva andare d'accordo con un vero Kafka (il padre). 

La conoscenza della lettera, peraltro lunghissima, permette di conoscere l'intimità di Kafka che da bambino soffriva del sistema educativo paterno sentendosi del tutto inadeguato al cospetto del padre del quale riconosce con timore la superiorità del fisico e dello spirito, ma a cui rimprovera anche l' incoerenza dei comportamenti come quella di pretendere, ad esempio, che gli altri membri della famiglia tagliassero il pane dritto mentre, dimentico dei precetti impartiti, lo tagliava con il coltello sporco di sugo. 

Franz delinea una situazione che è da sempre conflittuale all'interno delle famiglie: da una parte i genitori che impongono dei precetti e che poi non li rispettano, dall'altra parte i figli che si accorgono della loro incoerenza e per questo soffrono. 

Dalla lettera emerge comunque una cosa: ossia quanto sia difficile il mestiere del genitore e come non sempre le parole sono più efficaci di altri metodi, anzi possono essere deleteri, dice a tal proposito Kafka: 

"I Tuoi mezzi verbali d'educazione, efficacissimi e, almeno con me, mai falliti, erano: ingiurie, minacce, ironia, risate sarcastiche e -strano a dirsi- autocommiserazione"
Ecco sono proprio le conversazioni a casa che possono essere deleterie e fare perdere fiducia: 

Sentite questa frase: "Non puoi fare così e così? Ti costa troppa fatica? Naturalmente ci vuol troppo tempo" , quanti l'hanno pronunciata e quante volte? 

Lettera al padre è un'opera sconsolata, amara, una richiesta d'aiuto ma è anche il rimpianto per quello che non potrà mai più tornare.

Franz al padre Herman: Io magro, sottile, esile, Tu vigoroso, grande, grosso.....

 

 

 

 

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Fonte immagine: http://farm3.static.flickr.com/2421/3586406010_5bd64c3250.jpg

Da Album di Center for Jewish History, NYC.

 

Articolo di proprietà dell'autore adattato per questo spazio

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14 agosto 2012 2 14 /08 /agosto /2012 16:56

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Questo kolossal fantascientifico uscito nel 2008 e interpretato dall'attore Vin Diesel che ricopre il ruolo del mercenario Toorop, è in un certo qual senso in linea con la produzione della letteratura fantastica degli anni '70, se non altro perchè il film è la trasposizione cinematografica del romanzo di Maurice Dantec, "Babylon Babies", un romanzo/thriller proiettato nel futuro che si rifà alla letteratura fantascientifica Robert Silveberg.

 

 

Babylon A. D. (DVD) DVD / Blu-Ray Film

 

 

 



IL FILM 


Siano nell'anno 2013, Toorop è un mercenario incaricato di portare negli Stati Uniti una ragazza, Aurora che vive in un monastero dell'Asia centrale.

"Ho detto che devo portarti a New York ma non devo piacerti" è l'unica frase che Toorop dice alla ragazza per condurla nel luogo concordato.

Già dalle prime scene l'azione è al massimo dei giri, spettacolare è la scena di un combattimento che avviene all'interno di una specie di fabbrica stile sovietico tra Toorop e un gruppo di carcerieri come ad alto effetto sono le scene del sommergibile venuto a prendere Toorop, Aurora e suor Rebeka: il sommergibile esce fuori dai ghiacci e viene assaltato da una folla di persone in fuga le quali cercano in tutti i modi di salire a bordo.
Aurora "l'inizio di un nuovo giorno", così la chiamò suor Rebeka quando la raccolse da piccolina, standole sempre accanto come una madre.
Aurora è una ragazza particolare che dimostra una sorta di schizofrenia e che era in grado di parlare già a due anni in 19 lingue diverse, oltre a questa capacità di poliglotta conosce il funzionamento di tutta la tecnologia..."La piccola porta un'arma..un virus", dice uno dei marinai a bordo del sottomarino.

Scene ad alto effetto sulla neve, inseguimenti, gatti delle nevi che si lanciano in spericolate manovre creano nello spettatore un'alta suspense prima di arrivare a prendere il volo 712 per New York ( da notare che l'aereo è un Boeing su cui campeggia una scritta gigantesca Coca Cola zero)

"Il miracolo si sta per compiere credete nella nostra fede è l'alba di una nuova era" dice una voce femminile.

A questo punto le scene si spostano a New York: Aurora mentre guarda la televisione vede la morte di tutte le monache del convento dei noelites dove era cresciuta, uccise da un missile capisce che il convento è stato distrutto subito dopo la partenza di Aurora e suor Rebeka.

I tre vengono seguiti dagli uomini di Gorsky (il cattivo di turno) che li ha incaricati di controllare che la ragazza venga portata a destinazione.

LA PUNTA DI SVOLTA DEL FILM

Ad un certo punto la ragazza comunica di essere incinta di due gemelli e poco prima di essere consegnata ai neolites, dice a Toorop "Se mi consegni a loro, io morirò", decide di non consegnarla.

Fantastica e originale l'idea del missile collegato al passaporto di Toorop, quando questi è inseguito dai noelites: veramente coinvolgente!!

Aurora è in realtà una ragazza che deve essere portatrice di una nuova religione ed è sotto le attenzioni della gran sacerdotessa dei noelites che la vuole usare per imporre ovunque la religione della setta.

Il padre di Aurora, Darquandier, è un medico radiato dall'ordine,che aveva progettato un supercomputer da cui era stata originata Aurora, un essere dotato di capacità soprannaturali ulteriormente potenziato dalla presenza nel suo corpo di due gemelli che la rendono pressochè invulnerabile.

Il finale non lo svelo, l'unica nota da menzionare è che i due gemelli sono in realtà due bambine bellissime che verranno adottate da Toorop, bambine che danno la speranza di una nuova palingenesi regeneratrice.

Bellissima e significativa la frase finale del film:

"A salvare il mondo fu un bambino una volta"


IL CAST 

  • Vin Diesel (Toorop): interpreta al meglio il ruolo del rude mercenario, una faccia incredibilmente rassomigliante ad un Gianluca Vialli inquieto, corpo tutto tatuato e muscoli tesi, duro che più duro non si può.Bravo anche nelle scene d'azione laddove è ben visibile che i ruoli di maggior spettacolarità sono svoti in prima persona senza ricorrere allo stuntman. 

 

  • Mélanie Thierry: volto imbronciato e nello stesso tempo dolce che fa  molto Brigitte Bardot anni '60, ben si è calata nella parte della giovane speciale dai sentimenti umani, dolcemente umani.

 

  • Michelle Yeoh (suor Rebeka): l'attrice malese conferma di essere completamente a suo agio nel ricoprire ruoli in cui mette in evidenza la sua abilità di esperta di arti marziali.

 

  • Charlotte Rampling (la sacerdotessa), l'attrice ultrasessantenne mantiene intatto il fascino degli anni migliori.

 

  • Lambert Wilson (Darquandier, il padre di Aurora), interpreta un ruolo inquietante e come appare improvvisamente nel film così esce di scena, ucciso dalla sacerdotessa.

 

  • Gerard Depardieu ( uno degli accompagnatori di Aurora): recita una  parte minore, quasi da comparsa che non rende onore ai tanti ruoli da protagonista e da mattatore che ha sempre interpretato. Quasi inutile la sua presenza.


Un parere positivo su un film che non è certo un capolavoro ma che ha il pregio di essere ben costruito grazie anche alla scelta di un corredo musicale che contribuisce a tenere alta la tensione.

 

 

Articolo di proprietà dell'autore adattato per questo spazio.

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Published by Caiomario - in Z. Cinema
14 agosto 2012 2 14 /08 /agosto /2012 05:38

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Edipo re è un'opera che dovrebbe essere letta da tutti, è una tragedia classica ma è la base di tutta la drammaturgia moderna. Il nostro approccio con Sofocle non è stato indolore in quanto diversi "estratti" li abbiamo dovuti tradurre dalla lingua originale aiutandomi con il dizionario di greco-italiano Lorenzo Rocci, poi abbiamo preferito leggere in italiano la tragedia nella insuperabile traduzione di Manara Valgimigli, il miglior traduttore di sempre del tragico ateniese. 

La tragedia di Sofocle può essere definita una sorta di"giallo" con la differenza che si sa fin dall'inizio come andrà a finire, l'autore e il lettore/spettatore si trovano coinvolti in un gioco di rimandi molto coinvolgente che porterà Edipo a conoscere la sconvolgente verità: la moglie Giocasta è sua madre. 
Si tratta di un delitto terribile quello dell'incesto e sicuramente tra i più ripugnanti. 
Edipo è un personaggio tragico in ogni situazione anche quando vuole conoscere la verità e anche quando è la luce della ragione a condurlo alla conoscenza della verità, ne rimane inesorabilmente accecato. 
La storia in sintesi è tutta qui, ma il contenuto della tragedia è molto complesso e per di più ciascun personaggio contribuisce a creare uno stato di incertezza e di suspence in quanto ognuno di loro conosce solo una parte di verità. Nella tragedia troviamo quindi la contrapposizione tra la luce della verità che rischiara le coscienze e l'oscurità che nasconde i fatti più terribili e che nessuno vorrebbe fare emergere. 

 

 

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Fonte immagine:http://farm6.static.flickr.com/5095/5539581498_7d4cd7dc83.jpg

La foto appartiene album di IES-MGB

 

EDIPO


Edipo è colpevole degli orrendi delitti di cui è accusato? E' difficile rispondere, lui uccide Laio suo padre senza sapere che fosse tale e la stessa cosa dicasi di Giocasta, la sposa senza sapere che in realtà è sua madre. L'inconsapevolezza però non assolve Edipo che fin dall'inizio della sua esistenza è un vero e proprio "maledetto" che nonostante cerchi di trovare una via d'uscita, sprofonda sempre di più nella disperazione a causa di una sorte che le è sempre contro. 
Edipo è un personaggio della fantasia? Sicuramente si, ma la sua storia dolorosa e sinistra è anche quella di chi rema per tutta la vita contro e non riesce a risalire la china. 
L'uomo può davvero sfuggire al suo destino evitando il disastro? Per Edipo non è possibile, ma è il modo in cui Edipo affronta la cattiva sorte, pur essendo un disgraziato riesce a riscattarsi, dà una dignità alla sua vita, cerca di andare incontro al suo destino senza prostrarsi. 

 
INCESTO E PARRICIDIO


I dialoghi tra Edipo, il nunzio e Giocasta sono un capolavoro della drammaturgia di ogni tempo: Edipo quando fa delle domande per conoscere la verità, ha delle intuizioni e la condanna che si autoinfligge alla fine (la cecità e l'esilio) non possono fargli recuperare nessuna verginità ma, paradossalmente è proprio Giocasta che lo vorrebbe proteggere con istinto materno dalla conoscenza dell'ignobile verità, ma sarà la stessa madre e moglie a procurargli l'ultimo dolore quando si impicca. 
Alla fine è inevitabile assolvere Edipo, non ha colpa, quello che ha fatto non era voluto, non c'era intenzionalità, ma se Edipo è innocente ciò non risolve il problema del conflitto. Sarà Sigmund Freud che spiegherà cosa significa il complesso di Edipo e attraverso la chiave di lettura freudiana possiamo comprendere come il livello individuale della rottura con le leggi non scritte, possa essere devastante per un'intera comunità. 
L'incesto e il parricidio rappresentano quindi il punto di non ritorno, il punto di rottura con i valori condivisi e convissuti di una comunità, di qualsiasi comunità, ma nello stesso tempo l'azione di Edipo contiene in sé il rischio che può avere qualsiasi conoscenza che quando viene perseguita con ostinazione può avere degli esiti tragici e devastanti per l'individuo. 

 

Articolo di proprietà dell'autore modificato per questo spazio

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