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23 luglio 2012 1 23 /07 /luglio /2012 05:48

...E INNASSIUS ARRAS COSA VI HA FATTO? 

"Colombi e Sparvieri" tra i libri meno noti di Grazia Deledda ed è quello più atipico in quanto l'autrice sarda affronta, con un taglio che non si ritrova in altre opere, temi di natura sociologica che probabilmente appartengono ad una fase che potremmo definire sperimentale. 
Il libro affronta in maniera cruda il tema dell'organizzazione sociale barbaricina attraverso la storia di due famiglie che vivono rispettando delle regole condivise e convissute che normano i rapporti sociali ed individuali, un descrizione quella della Deledda bellissima che non è eccessivo definire omerica per le somiglianze che si ritrovano tra quella Sardegna dell'inizio del Novecento e il mondo greco cantato da Omero. 
La storia si svolge nel paese di Oronou (Orune), un paese che la Deledda descrive con una rara efficacia descrittiva e con una capacità di sintesi che solo i grandi scrittori, refrattari alla prolissità, hanno. 

Oronou in una giornata di freddo, dopo una settimana di nevischio e di pioggia, una scena quasi leopardiana di "quiete dopo la tempesta", casette che si arrampicano lungo un percorso in salita, arroccate come i suoi abitanti, l'immancabile piazza del paese con i vecchi seduti nelle panchine, vecchi sfaccendati ormai inattivi che trascorrono le loro giornate ad osservare, immagine sempre eguale a se stessa che potremmo ritrovare in ogni latitudine e in ogni tempo. 
Eppure specifica la Deledda questa è una situazione del tutto nuova perchè un tempo i giovani e i vecchi erano affacendati nel difendere la propria roba per "salvaguardarsi dai nemici". 
Una piazza che potrebbe essere raffigurata pittoricamente: i vecchi "seduti all'orientale", immobili che tacciono che paiono morti prima di esserlo e poi gli uomini che giocano alla morra. 

UOMINI BARBUTI E DONNE VESTITE ALLA ARABA 

Uomini che la Deledda descrive come barbuti, rossi in viso e con gli occhi nerissimi, vestiti con cappotti di orbace e donne imbaccucate come le arabe con delle lunghe sottane nere che vanno avanti ed indiero per riempire le loro brocche, una scena di una Sardegna antica che comunque si sarebbe potuta trovare in moltissimi paesi almeno fino alla fine degli anni '60. 

JORGI RICORDA 

Spesso si fa riferimento al racconto retrospettivo come tecnica narrativa, la Deledda vi ricorre per parlare della storia dopo averci introdotto nella povera stamberga del personaggio principale del racconto, Jorgi, anche qui grazie allo stile narratorio pare di vedere questo scorcio di paese: una casa arroccata che si raggiunge dopo aver precorso un viottolo, una casa che appare un "luogo triste e deserto", una scaletta senza ringhiera con dei gradini rovinati e poi la camera in cui si trova Jorgim una camera bassa con le pareti dello stesso colore del pavimento e le pareti nere per la fuliggine, una camera spoglia con una cassapanca nera e un 
letto di legno in cui si trova il malato, Jorgi e Jorgi ricorda............ 

JORGI E COLUMBRA 

La storia di un amore impossibile tra due giovani, Jorgi e Columbra, è anche la storia di due famiglie vissute tra i rancori e l'odio, in queste due famiglie si stagliano due figure gigantesche, quella di Innassius Arras, un latitante che si è dato alla macchia e che rifiuta qualsiasi accordo con la famiglia rivale e quella di un despota arrogante e sarcastico, zio Remundu il nonno di Columbra. 
Una sorta di promessi sposi in salsa barbaricina che l'abilità della Deledda riesce a presentare ambientandola nello splendido paesaggio della zona di Orune e dove ogni personaggio, anche quello che svolge un ruolo da comprimario, riesce ad affascinare per la sua umanità come per esempio zia Giusè che va a trovare Jorgi malato per dargli conforto e gli dice: 

"Nessuno di noi può dirsi senza peccato! Dire il contrario è già un peccato di superbia di ribellione a Dio. E uno come voi, ammettiamo pure calunniato, perseguitato che non riconosce la mano di Dio (Egli solo sa i suoi fini) e si ribella e grida contro quel Divino volere che ha guidato e fatto soffrire lo stesso Cristo, ebben, dico uno che opera così fa più male col suo cattivo esempio che se avesse davvero commesso il male in cui lo accusano

Jorgi è stato calunniato da ziu Remundu, di essere un ladro, non si da pace, si ammala ma non riesce ad accettare una situazione che lo sta portando alla tomba ma non riesce soprattutto ad accettare il consiglio di zia Giusè............ 

come finirà.?..........L'invito è di leggere il racconto. 

 

IL RUOLO DEI LATITANTI 

In questa società matriarcale quale era il ruolo dell'uomo? L'attività agro-pastorale assorbiva gran parte delle energie ed era un'attività esclusivamente maschile, la struttura dei villaggi era rigidamente gerarchica e un ruolo inportante era svolto dai capi clan, chi erano i capi clan? 
I capi clan era di solito latitanti accusati di vari delitti che appartenevano alle famiglie più potenti del paese, vivevano nelle macchie e continuavano ad impartire ordini alle due fazioni, di solito questa latitanza era tollerata dalle autorità e non impediva ai latitanti di partecipare a matrimoni o ad altri eventi importanti, molti di questi "delitti" erano di solito legati a problemi di proprietà e di pascolo e niente avevano a che fare con i fenomeni delinquenziali di altre realtà che spesso si confondono ma non appartengono alla storia dei sardi. 
I sardi non sono mai stati estortori e non hanno mai praticato violenza contro la loro gente........ 

Un bellissimo racconto di Grazia Deledda, tra i meno noti che consentirà al lettore di apprezzare non solo lo stile della scrittrice nuorese ma anche le figure di questi personaggi come quello di Inassius Arras che la Deledda così magnificamente descrive: 

"Alto e rigido sul suo cavallo.........un uomo imponente, dritto, dagli occhi d'un nero verdognolo, brillanti e minacciosi. La pelle del suo viso dal profilo ebreo, ricorda la scorza delle quercie ed anche la folta capigliatura grigia e la lunga barba a ciocche nere e giallastre hanno qualcosa di vegetale" 

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Published by Caiomario - in Libri
23 luglio 2012 1 23 /07 /luglio /2012 05:38

"Satura" è una delle ultime opere di Eugenio Montale, la raccolta venne scritta fra il 1962 e il 1970, il titolo ha un doppio significato: quello di satira quale genere letterario che rappresenta in modo beffardo e canzonatorio i comportamenti umani e quello di "lanx satura", un'espressione che indica una pietanza di primizie che gli antichi romani offrivano in dono agli dei per averne i favori e ringraziarli. 
Le liriche presenti nella raccolta hanno tutte il carattere dell'occasionalità tipica del poeta che scrive solo nei momenti di ispirazione, oltre all'omaggio alla figura femminile Montale mostra un atteggiamento ironico e mordace nei confronti della società dei consumi la più antipoetica delle manifestazioni umane e mette alla berlina l'insana abitudine di circondarsi di oggetti inutili e privi di significato. 

Come tutte le raccolte di poesia anche "Satura" può essere letta prendendo e riprendo il testo, non c'è una trama, ma il lettore odierno potrà trovare nelle liriche del poeta genovese delle corrispondenze e nutrire, in tal modo, il proprio bisogno di poesia. Il lessico di Montale è quelli della lingua parlata, si trovano poi molti neologismi che rendono la lettura delle liriche mai disgradevole. I momenti dedicati alla lettura possono poi rappresentare un momento di disgiunzione dal rumore della cronaca quotidiana in cui viene descritta una donna degradata e rappresentano un esempio che può aiutare a imitare il senso di trasfigurazione che il poeta amava fare nei confronti dell'universo femminile. 

Non vi è nessuna esibizione nella sua lirica anche quando la donna viene presentata come una creatura travolta dal dolore, semmai il senso del tragico si accompagna sempre ad un tributo nei confronti della straordinaria resistenza della donna per natura più forte dell'uomo, una forza non muscolare che la protegge dai mali che la possono sovrastare.E' un viaggio straordinario attraverso i sentimenti del poeta che vide nella donna l'interlocutrice privilegiata del suo canto. 
Splendide è la figura di Annetta-Arletta descritta nella "Casa dei doganieri" , si tratta della trasposizione poetica di Anna degli Uberti, una ragazza che il poeta conobbe durante un soggiorno estivo a Monterosso. E' una lirica sconsolata che indulge verso un pudico sensualismo di cui si rimpiange l'impossibilità di viverlo appieno per due destini che si sono separati e di cui il ricordo non riesce a colmare l'enorme vuoto. Il filo della memoria diventa così l'unica ancora di salvezza che mitiga solo in parte l'amarezza del poeta. Sono parole che ispirano i sentimenti delicati senza mai scadere nel patetico. 

LA POESIA DEDICATA ALLA MOGLIE 

Tra le tante splendide poesie ho apprezzato "Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale", una lirica che è un tributo nei confronti della moglie, una donna che dietro l'apparente aspetto insignificante è stata la sola con la quale è riuscito a realizzare il suo progetto di amore. La lirica termina con questi splendidi versi: 

"Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio 
non già perché con quattr'occhi forse si vede di più. 
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due 
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate 
erano le tue". 

Chi vedeva era la moglie del poeta che ci indica due modi di vedere le cose: il primo è quello di chi si ferma alla superficie delle cose, alle apparenze, il secondo quello di chi vede le cose con lo "sguardo intellettuale" andando oltre....e nel cammino della vita (è stato breve il nostro lungo viaggio) a guidare la vita del poeta erano state le pupille della moglie Drusilla Tanzi definita amorevolmente "il caro piccolo insetto/che chiamavano mosca". 


L'atto d'amore del poeta della moglie dimessa, affetta da una forte miopia è stato anche un riconoscimento al sostegno che ella seppe dargli in ogni circostanza andando oltre le apparenze di una vita insignificante vissuta con ironia e tanta saggezza. 

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21 luglio 2012 6 21 /07 /luglio /2012 05:42

Leggere Alain De Benoist è un'occasione per riflettere sulla contemporaneità raffrontandosi con il passato. 
Questa saggio intitolato "Ripensare la guerra" scritto in tempi di conflitti e di guerre permanenti, è, prima di tutto, una fenomenologia della guerra e su che cosa è diventata ma soprattutto come a partire dalla prima guerra mondiale gli eserciti come èlites abbiano lasciato il passo agli eserciti di massa dove militari non di professione sono stati "lanciati" nel più sanguinoso dei conflitti di tutta la storia dell'umanità. 
La seconda guerra mondiale è stata definita, non a torto, una continuazione della Prima e parlare di un unico conflitto mondiale non è un'ipotesi azzardata in considerazione che tutti i nodi irrisolti, primo fra tutti l'umiliazione della Germania, ritornarono in tutta la loro virulenza venticinque anni dopo ed è probabile che le inique decisioni, prese all'indomani della fine della Grande Guerra, avrebbero portato, nonostante Hitler, a rivendicare quanto perduto e a ridiscutere le condizioni di resa. 
Ma al di là delle conseguenze che ci sono state sul piano politico, c'è un dato che emerge fra tutti ed è il fatto che la prima guerra mondiale fu il primo conflitto " tecnologico ", l'utilizzo dei gas tossici, dei carri armati, delle mitragliatrici cambiarono completamente il volto della guerra anche e soprattutto per il numero di vittime coinvolte. 
I numeri ufficiali sono impressionanti, de Benoist ricorda le note di un cronista dell'epoca il quale osservava che se si fossero messe una dietro le altre le bare dei dieci milioni di morti si avrebbe avuto un corteo funebre lungo 20.000 Km. 
Ancora più accentuato nella seconda guerra mondiale fu il coinvolgimento di vittime civili, solo i morti di Dresda, Hiroshima e Nagasaki supererebbero le 750.000 unità, un numero impressionante considerando il fatto che in passato le città venivano messe a ferro e fuoco e saccheggiate ma mai si arrivava allo sterminio totale dei loro abitanti. 
Un altro dato che fa riflettere è quello che riguarda le dimensioni degli eserciti di massa moderni rispetto, per esempio, a quello che fu uno dei più formidabili eserciti di tutti i tempi, quello di Roma che anche nei momenti di massima espansione non superava le seicentomila unità. 
Perchè queste differenze così evidenti nei numeri? Prima di tutto perchè è cambiato a partire da Napoleone il modo di reclutare i soldati e poi perchè l'introduzione della tecnologia ha creato armi devastanti che coinvolgono strati sempre più vasti della popolazione. 


LA GUERRA CHE HA L'OBIETTIVO DELLA PACE E QUELLA CHE SI PREFIGGE L'UMILIAZIONE DELL'AVVERSARIO 

Alain de Benoist ben evidenzia la differenza tra l'ideale cavalleresco e quello moderno per quanto concerne la guerra, è utile citare testualmente quanto scrive il Nostro: 

"...scopo della guerra non è tanto la distruzione, quanto il conseguimento di un vantaggio decisivo: i belligeranti non cercano di eliminare ma di fargli riconoscere la sua inferiorità. Una volta terminate le ostilità, si accordano per concludere quella che al tempo viene chiamata "una bella capitolazione". Lo scopo della guerra è quindi la pace". 

I Romani dicevano "Si vis pacem, para bellum" se vuoi la pace prepara la guerra e laddove conquistavano imponevano quella che era la cosiddetta "pax romana" che lasciava intatte tradizioni e abitudini a patto che si pagassero i tributi a Roma, oggi la guerra è il mezzo attraverso il quale con una bruttissima espressione ha come obiettivo quello di "esportare la democrazia" eliminando (anche fisicamente) la precedente classe dirigente e i vertici politici. 
Era inconcepibile per gli antichi processare i vinti che venivano o eliminati o graziati ma mai umiliati al punto da processarli con tribunali sui quali molto ci sarebbe da dire circa la volontà di discernere tra crimini di guerra dei vinti e quelli dei vincitori. 
Che differenza passa anche in termini numerici tra le vittime civili di Dresda ( dove non c'erano obiettivi militari), quelle di Hiroshima e Nagasaki e le stragi in Ruanda? Gli americani si sono sempre difesi che il bombardamento atomico era necessario per porre fie al conflitto e se questo sul piano dei risultati è ineccepibile, sta di fatto che solo la metodologia cambia: da una parte migliaia di vittime uccise a colpi di machete dall'altra parte centinaia di miglia di morti spazzati via dall'alto con armi di distruzione terribili e devastanti. 
Non esiste una guerra buona che diventa tale quando è stata perpetrata da chi vince e una guerra cattiva condotta da chi è stato vinto, esiste la guerra moderna che colpisce vittime civili e che non coinvolge solo gli eserciti, non esistono bombe intelligenti ma solo bombe e i conflitti in Iraq ed in Afghanistan stanno lì a dimostrare che la metodologia di colpire le popolazioni civili per fiaccarne il morale e indurle alla ribellione contro questo o quel regime, è una pratica che va avanti da circa sett'anni e che venne inaugurata dagli Stati Uniti come strategia sistematica per distruggere moralmente ogni forma residua di resistenza. 
Esistono quindi due modi di fare vittime civili: quello rozzo tipo pulizia etnica alla Milosevic e quello più sofistificato delle bombe intelligenti che quando coinvolgono vittime civili vengono giustificate come "effetti collaterali", entrambi i metodi sono comunque hanno un solo obiettivo, annientare l'avversario, demonizzarlo e distruggerlo fisicamente. 

L'idea di combattere per una giusta causa, osserva de Benoist, dovrebbe essere concessa ad ogni Stato perchè lo sconfitto di domani potrebbe essere l'alleato di domani e non è l'utopica volontà di eliminazione dei conflitti ciò che può preparare la pace quanto un diverso approccio culturale nei confronti delle ragioni degli sconfitti. 
Prendiamo per esempio il discorso che riguarda il diritto di veto dal possedere armi nucleari: è bizzarro che gli USA che si oppongono al fatto che uno Stato sovrano possegga ordigni nucleari, sono proprio quelli che hanno usato tali ordigni e quelli che ne posseggono in maggior numero. 
Gli USA si sognerebbero mai di proporre sanzioni alla Cina che possiede ordigni nucleari da decenni e che nel contempo sostiene il debito pubblico americano detenendo una quantità impressionante di titoli di stato? 

Molti analisti internazionali (?) parlano di realpolitik, di ragioni politiche etc..in realtà questo modo di condurre le relazioni internazionli, di concepire il diritto internazionale come una coperta da tirare da una parte o da un'altra a secondo delle circostanze è soprattutto la conseguenza di come è concepita la guerra, ancora una volta le parole di de Benoist spiegano efficacemente l'origine di questo atteggiamento culturale che affonda le sue radici in quella concezione della "religione della felicità" che si è diffusa a partire dal XVIII secolo: 

"...l'universalismo individualistico liberale creerà, cristallizzandosi all'interno della vita politica, le condizioni di una trasformazione radicale della guerra, che da allora in poi si troverà ad essere condannata sul piano del principio e notevolmente aggravata sul piano della prassi". 

Un bel saggio per comprendere molti fenomeni moderni, affrontato con lucidità critica e con rigore storico. 

Alain de Benoist, Ripensare la guerra. Dallo scontro cavalleresco allo sterminio di massa, coll. "Quaderni", 1, Milano: ASEFI-Terziaria,1999, trad. Marco Tarchi.

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20 luglio 2012 5 20 /07 /luglio /2012 16:03
Gli scrittori inutili

Molti si saranno domandati quali siano i fattori che fanno si che uno scrittore non dico abbia successo, ma sia almeno preso in considerazione da una casa editrice, è una domanda che molti aspiranti scrittori si fanno, spesso tentati dall'intraprendere una strada che sembra non avere una logica, ma sopratutto che vede corsie completamente intasate da presunti e poco probabili scrittori .

I dati sono veramente impressionanti sul numero di quanti titoli ogni hanno vengano "sfornati" dalle varie case editrici, parliamo di centinaia di migliaia e non sempre questi libri hanno i requisiti per potersi definire opere pregevoli, ma questo è un argomento che svilupperò in un'altra opinione.

La realtà è che nessuno può oggi diventare uno scrittore preso in considerazione da una casa editrice se non esiste un supporto promozionale che costruisca il successo e lo preannunci prima che questo sia realmente tale.

Allora la domanda è perchè gli scrittori inutili hanno successo?

Partirò quindi da una mia considerazione per arrivare al punto di vista di Ermanno Cavazzoni che ha una straordinaria capacità, quella di trattare l'argomento con ironia facendosi beffa al limite della derisione ( ma sempre con eleganza e stile) sul mondo che circonda quel nulla letterario di cui vorremo fare a meno, ma che ci assedia in maniera fastidiosa impedendoci di vedere le perle che pur esistono nel panorama editoriale librario.

Il libro si apre con una raccomandazione:

Chi vogliia diventare scrittore inutile, non ha che da esercitarsi. Ed èraccomandato l'esercizio dei vizi che sono sette; occorre insistere in
ciascuno di essi finchè improvvisamente non si apre una nuova visuale
e so resta lì muti, molli e incapaci di tutto.
Ma poichè non è facile diventare anche solo scrittori, ci sono per questo-
scuole (pag. 9)

Già dalle righe iniziali si comprende qual'è lo spirito del libro e in poche parole Cavazzoni ci introduce all'argomento del suo discorrere dove prende il numero sette come emblema per raggiungere questo paradossale risultato, e non a caso sceglie il numero sette proprio per il suo significato simbolico e cabalistico che ricorre in molte combinazioni numeriche tradizionali.

per diventare scrittori inutili bisogna frequentare una scuola dove bisogna raggiungere un risultato fodnamentale che è querllo di perseguire sette vizi, le 
materie insegnate sono sette e i docenti che le insegneranno saranno sette.

Con ironia e arguzia, Cavazzoni osserva che nemmeno se ci si impegna a fondo sarà facile diventare scritori inutili a meno che non si segua alla lettera il manualetto ( è lui stesso a definirlo così).Quali sono questi sette vizi da perseguire?

  • Lussuria
  • Gola
  • Avarizia
  • Accidia
  • Invidia
  • Ira
  • Superbia
  • Lussuria


Sono i sette vizi capitali che come caratterizzano come un abito chi è impregnato del male, così caratterizzano lo scrittore inutile di cui Cavazzoni delinea i possibili tratti e combinazioni nel numero di quaratanove ( numero ottenuto dalla combinazione dei sette vizi con le possibili evenienze).Ed ecco la storia dello scrittore che viveva con una bambola gonfiabile e che si incontrava con altri scrittori che avevano ciascuno di loro una bambola gonfiabile e mettendosi in circolo parlavano tra di loro e alle bambole gonfiabili. ( Non anticipo gli sviluppi perchè toglierei il gusto di leggere il libro, ma questo è uno dei racconti più ricchi di sarcasmo).

Ma il libro, oltre a contenere i ritratti di questi scrittori inutili, è ricco di osservazioni che possono definirsi veri e propri aforismi come questo ad esempio:

Ci sono scrittori schiavi di altri scrittori che vengono asserviti e ridotti alle
funzioni del cane.

Ed è proprio così in tutte le attività umane, ci sono persone che vivono di luce riflessa, veri e propri lacchè di chiunque abbia successo, portaborse dell'immaginario, servi curiali senza alcuna personalità, viscidi con le loro mani che trasudano di inutilità.

E argutamente Cavazzoni osserva:

Il perchè non si sa. C'è chi dice che fa parte dell'apprendistato e che loschiavismo c'è in tutte le parti. (pag. 17)

e poi una bordata alle case editrici:

Presso le case editrici, vengono mantenuti scrittori in disuso, i quali sono
incaricati di leggere i romanzi dattiloscritti che giungono per darne un giu-
dizio. ( pag.20).

Nota finale

E' uno dei libri più divertenti che abbia letto, è un pò datato perchè è stato edito nel 2002, ma è il caso di dire che ha sette anni e non li dimostra ed è sempre attuale anche per coloro i quali si affannano a dare consigli su come si scrive un best seller o fanno delle inutili scuole di scrittura che dovrebbero essere utili a sfornare nuovi Checov o Manzoni ma è anche utile a coloro che della propria inutilità hanno fatto la peggiore mistificazione che vorrebbero spacciare per virtù.

Autore: Ermanno Cavazzoni

Titolo: Gli scrittori inutili

'Editore: Feltrinelli

Collana: I narratori

Pagine 182

Prezzo Euro 15,00

 

 

gli-scrittori-inutili.jpg

 

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20 luglio 2012 5 20 /07 /luglio /2012 15:53
Pezzi di storia e di memoria familiare

Non capita sempre di leggere con piacere un libro e di "divorarlo" nel giro di poche ore, quando questo accade e oltre al favore della critica e alle vendite, c'è anche il piacere del lettore, il libro viene riposto in uno scaffale, ripreso più volte anche se si conosce lo svolgimento e il finale, consultato e riletto.

Per quanto pubblicato nel 1999, questa narrazione merita comunque l'attenzione di tutti gli amanti della letteratura e della buona scrittura, anche per il dispiegarsi di una trama che nella descrizione tocca punti di lirismo di non sempre facile riscontro.

La trama

Non volendo togliere al lettore il gusto di leggere il libro e non volendone svelare completamente la narrazione ,mi soffermerò su alcune pagine affinchè chi decidesse di leggerlo, abbia un quadro d'insieme che funga da utile anteprima.

I protagonisti del racconto sono tre: Giovanni Alessi, suo padre Scanderberg e la
moto Guzzi Dondolino ed è proprio Giovanni Alessi che inizia all'èta di trent'anni un viaggio nella memoria alla ricerca delle proprie radici e della propria identità.

Questa ricerca parte da un pesino della Calabria, Hora dove vive una comunità dalle antiche origini albanesi, quando un gruppo di amici, seduti dinanzi a un Bar della piazza principale e intenti a giocare a carte si ritrovano con Giovanni Alessi che era rientrato dalla Germania per ritornare nel suo paese di origine.

E fin dalle prime pagine entra come protagonista la moto:

(il) Guzzi Dondolino, che il padre aveva acquistato da un suo commilitone di 
Como che per mestiere faceva il meccanico e per sport le gare di moto(pag.14)

la moto era appartenuta al padre, Scanderberg e poi a Giovanni che si divertiva a girare per le strade del paese e a fare dei giochi acrobatici.

Ma come incomincia questo viaggio nella memoria alla ricerca del padre? Inizia con una lettera inviata da un amico del padre, tale Stefano Santori che oltre a mandargli una foto del padre, rievoca anche le estati passate insieme al padre in sella alla moto Guzzi Dondolino.

La moto di Scanderberg cessa di essere solo moto e incomincia ad avere
un forte significato simbolico sia per quanto riguarda il passato, sia per quanto riguarda il presente.

Per il passato perche il padre era l'unico ad avere la moto al paese e uno deipochi in tutta la zona.
Per il presente perchè era appartenuta al padre che come lui da ragazzo aveva fatto le stresse cose e che per tutti era Scanderberg con la moto.

E assieme al padre, ecco la rievocazione tenerissima della madre Lidia della quale dice confessandosi:

La voce di mia madre era solitamente morbida e melodiosa; quella sera alla
fine del racconto, era diventato un canto d'amore. Mi sarebbe piaciuto vedere
il suo viso, il viso di una donna innamorata, ma lei continuava a tenermi la testa sulle sue gionocchia.....(pag.22)

E in questa rievocazione entrano in gioco i vecchi amici, i vecchi compagni di scuola, i vecchi del paese mentre muta sullo sfondo, raccontata e quasi invocata c'è Claudia, la compagna di Giovanni.

Tra ricordi e rievocazioni il romanzo prosegue sempre con uno stile narrativo elegante quasi musicale, a tratti l'intimità descritta sembra quasi sussurrata.

E' una ricerca della propria identità ma è anche una confessione per l'ammirazione nei confronti di un padre inarrivabile che si fa mito nella memoria del figlio, a sua volta soprannominato dai paesani Scanderberg e che sembra perpetuarne la leggenda.

AUTORE: Carmine Abate
TITOLO: La moto di Scanderberg
EDITORE: Fazi Editore
PAGINE: 197

 

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20 luglio 2012 5 20 /07 /luglio /2012 12:23
Parlare di un poeta

Parlare di un poeta come Giorgio Caproni che esce fuori completamente dai circuiti letterari ufficiali è l'occasione, sia per chi scrive, sia per chi legge di scoprire quella poesia che pur non essendo celebrata, permette di giocare con la fantasia.
Anche per chi non ha frequentazioni letterarie e non ha familiarità con forme metriche antiquate tale occasione si può tradurre in un appuntamento privilegiato che arricchisce la propria capacità di esprimersi, imparando come il verso sia la forma più immediata e nello stesso tempo più elaborata per esprimere i propri sentimenti.
Questa convivenza è anche propedeutica alla comprensione del codice-lingua approfondendo il significato delle figure retoriche e conseguentemente sviluppando la capacità di riflessione ed è proprio il riflettere, come capacità di ripiegarsi di nuovo su se stessi per pensare che ci permette di comprendere il colore delle parole.

Parlare del libro significa parlare della poesia di Caproni

 

Esistono due modi di leggere una poesia, leggerla accompagnando il verso con la lettura di un valido apparato critico o leggere il verso libero, libero da ogni interpretazione; nessun poeta, di questo bisogna essere consapevoli, scrive con le note, nessun poeta usa la scrittura esplicativa, se lo facesse verrebbe meno la natura stessa della poesia che anche quando segue un rigore formale è sempre istinto seppur codificato con un tirocinio lungo e difficile.

Caproni appartiene alla categoria dei rigoristi nel senso che con rigore elabora la sua poesia ma questa concezione non va a discapito di una vocazione che va verso il lettore nel senso che la sua poesia appartiene alla vita di tutti e tutti possono comprendere....anche senza apparato critico.

Quel che è pregevole della sua poesia è il rifiuto di ogni intellettualismo di maniera eppure i suoi versi appaiono raffinati nel senso che plasmano il mosaico linguistico in maniera delicata rendendo sottile, fino e perfetto il verso anche quando parla della quotidianità.

 

La canzonetta di Giorgio Caproni

 

La canzonetta, come è noto, è un genere popolare improntato alla spontaneità e alla naturalezza e rappresenta un genere minore rispetto alla canzone per esempio petrarchesca e a differenza di questa , era sempre accompagnata da un componimento musicale (spesso abbiamo i testi ma abbiamo perso la parte musicale), Caproni riprende questo genere comunque sapendo di essere il continuatore di questa particolare forma aulica.

Da buon letterato toscano, nella specifica livornese, era conscio del fatto di essere il continuatore di una tradizione lirica che affonda le sue radici nella poesia di Guido Cavalcanti e di Petrarca , poesia che noi oggi fatichiamo a comprendere perchè le forme espressive utilizzate nei loro versi sono quelle di un italiano antico completamente differente da quello che parliamo oggi, eppure Petrarca e Cavalcanti parlavano la lingua che parlavano tutti all'epoca in cui vissero e così fa Caproni, usa il linguaggio del suo tempo.

Un esempio di poesia

Esaminare tutte le poesie di Caproni richiderebbe uno studio a parte, può essere, invece utile al lettore conoscere il poeta livornese attraverso dei suoi noti versi:

La gente se l'additava

Non c'era in tutta Livorno
un'altra di lei più brava
in bianco, o in orlo a giorno.
La gente se l'additava
vedendola, e se si voltava
anche lei a salutare,
il petto le si gonfiava
timido, e le si riabbassava
quieto nel suo tumultuare
come il sospiro del mare.
Era una personcina schietta
e un poco fiera (un poco
magra), ma dolce e viva
nei suoi slanci; e priva
com'era di vanagloria
ma non di puntiglio,andava
per la maggiore a Livorno
come vorrei che intorno
andassi tu canzonetta:
che sembri scritta per gioco,
e lo sei piangendo: e con fuoco


*Le parole sono semplici e immediate popolari, comprensibili a tutti,nessuna ambiguità neppure formale eppure il linguaggio comune non è lasciato libero.

*Al linguaggio comune si accompagna una sapiente metrica che Caproni da buon artigiano del verso dispensa senza che il lettore se ne accorga, la rima baciata è usata sapientemente creando legame tra i versi che si sciolgono in una gradevole naturalezza.

* L'uso del linguaggio tecnico è sempre popolare: bianco e giorno indicano due tecniche di ricamo a cui le donne del popolo si dedicavano.

* Il verso assume massima efficacia narrativa: La gente (vedendola) se l'additava cioè la indicava, nella descrizione della madre che è una ragazza del popolo con il seno che si gonfiava e timidamente si ritirava, segno di un carattere orgoglioso e fiero per la propria bellezza ma anche pudico, timido.
Sembra di vederla questa personcina schietta e magra che cammina per le strade e che andava per la maggiore a Livorno.

* Il poeta è consapevole del fatto di essere continuatore della canzonetta della tradizione quando augura alla sua poesia chiamata canzonetta, di andare per la maggiore

* La poesia è ritagliata per la protagonista, Caproni ribalta il concetto della poesia come espressione dell'io soggettivo a favore dell'oggetto che appare il centro della lirica, unico mentre il poeta preferisce essere defilato per apparire fugacemente solo nel momento del commiato.

*Effetto espressivo massimo rivolto verso l'oggetto, poco spazio verso la propria posizione sentimentale soggettiva.

Un' altra poesia

 

Dies Illa

Nessun tribunale
Niente
Assassino o innocente
agli occhi di nessuno un cranio
varrà l'altro,come
varrà l'altro un sasso o un nome
perso fra l'erba

La morte
(il dopo) non privilegia
nessuno

Non c'è per nessuno,
bruciata ogni ormai inattendibile
mappa, nessuna via regia.

Lo stoico
(in eco)

Sei solo con la tua coscienza

Il perfido
(c.s.)

Puoi --------anche---------farne senza


Questa è una delle poesie più belle e più intense di Giorgio Caproni che rivela l'altro lato (quello più stimolante) dove alla vocazione narrativa si unisce quella più propriamente filosofica ed esistenziale.
Chiunque si trovi davanti ad un testo poetico lo riconosce subito perchè è scritto in versi ma quando i versi sono liberi e irregolari l'effetto è anche sul piano grafico.

Effetto grafico : ho riportato il testo esattamente come è posto nella sua versione originale, ogni strofa, come è possibile notare, è isolata in mezzo ad ampi spazi bianchi, è come se le parole del poeta costituissero, prese da sole, un epitaffio:

La morte non privilegia nessuno

Sei solo con la tua coscienza

Per quanto vi sia un legame logico tra i versi, l'effetto grafico delle parole, la loro disposizione accresce l'effetto sul lettore che memorizza immediatamente il verso, la morte non privilegia nessuno, sei solo con la tua coscienza, se le parole fossero state poste seguendo una successione lineare differente, l'effetto non sarebbe stato lo stesso.

Effetto fonicoSei solo con la tua coscienza (Lo stoico) Puoi ----anche ---- farne senza (Il perfido), il congegno architettonico della poesia si accresce nella parte finale con il ricorso alla rima, la ripetizione del finale enza, crea il ritmo e anche se non viene adottata una metrica parasillabica del tipo piove suipini, l'effetto è assicurato; come si può notare il verso è costruito in maniera da creare una corrispondenza tra l'effetto fonico e quello del significato (questo fa la differenza).


Il piano del significato: La scelta del titolo Dies illa è di sicuro effetto e significa quel giorno, quel giorno è il giorno della morte, il giorno in cui tutto finisce, finisce il tempo e non c'è più niente, nessun tribunale conta più, nessun giudizio umano ha valore, Non c'è nessun tribunale dopo la morte, non c'è niente.

Terribile questa frase, desolante e nichilista: dopo la morte non c'è più niente, non è possibile fare distinzione tra un cranio ed un altro sono eguali.

Ma ancora sul titolo: quel Dies Illa è un'unità sintattica che fa parte dell'espressione Dies Irae,dies illa attribuita, come è noto, a Tommaso di Celano e dedicata alla descrizione del giorno del giudizio universale, il giorno del giudizio universale è il giorno dell'ira di Dio, Caproni elimina il dies irae lasciando solo l'altra parte del sintagma per voler significare che quel giorno, il giorno della morte, non c'è niente e che quindi tutti i valori si annullano: assassino e innocente sono sullo stesso piano.
Dio è morto non ci sono più i valori, la morte cessa di essere il giorno in cui i buoni e i giusti vengono premiati, i malvagi sono sullo stesso piano dei buoni: questo è il significato di Dies Illa.

La morte non privilegia nessuno: nessun tribunale, occhi di nessuno, privilegia nessuno, non c'è per nessuno, nessuna via regia, il termine nessuno viene ripetuto cinque volte, quasi ad intervalli regolari, la ripetizione conferisce ritmo ma l'effetto voluto non è quello di creare musicalità, bensì di spostare l'attenzione del lettore dal piano del verso a quello della metafora: nessuno è il termine che diventa una figura retorica di straordinaria potenza emotiva crando una combinazione dove la parola chiave diventa asse portante di una struttura inamovibile dalla forte impronta simbolica.

Lo stoico e il perfido: Con il termine stoico, come è noto, si indica colui il quale era seguace della scuola stoica fondata nel III sec. avanti Cristo da Zenone di Cizio, Caproni qui usa il termine non nella sua accezione filosofica ma in quella del linguaggio comune dove il termine indica colui il quale che con pazienza sopporta e si affida alla sua coscienza, nello stoicismo l'etica dipende dalla fisica e compito del saggio è affidarsi ai voleri del fato, per Caproni invece lo stoico è colui il quale è solo con la sua coscienza: se non c'è Dio nell'al di là, tutto è permesso ma compito dell'uomo saggio è affidarsi alla sua coscienza per discernere ciò che è bene da ciò che è male.

E' una posizione quella espressa da Giorgio Caproni di grandissimo valore morale: un conto è perseguire il bene perchè si aspetta una ricompensa nell'al di là o perchè si ha paura di una punizione, un conto è invece seguire il bene, rifiutando il male, perchè non ci si aspetta nulla in cambio. ('''Meditare su questo''')

Il perfido: anche questo termine va visto in senso lato, perfido è una persona malvagia, maligna e nel contesto poetico il piano dell'oggetto si confonde con quello del soggetto, puoi -----anche---- farne senza, il perfido esprime un pensiero perfido: se non c'è Dio e non c'è giudizio, anche la coscienza diventa inutile ( a differenza dello stoico)...tutto è permesso....Dio è morto.


La scelta delle due poesie è puramente soggettiva, ma ritengo che entrambe siano rappresentative dell'intera produzione poetica, presente nel volume, in quanto:

-La prima esprime l'anima popolare di Giorgio Caproni, quella delle canzonette. (sono numerose quelle di questo tenore e segnalo la raccolta:
Il franco cacciatore).

-La seconda è invece rappresentativa di un altro gruppo di poesie in cui Caproni abbandona il genere della canzonetta ( vedi le raccolte presenti nel volume: Il-
Conte di Kevenhuller e Res amissa) a favore di una poesia scarna, essenziale con una forte impronta filosofica.

 

Un libro impegnativo

 

1071 pagine , tutte le raccolte, comprese le ultime ,richiedono un lettore interessato che non solo legga le poesie ma le rilegga e le faccia sue, naturalmente non basta dire che leggere è bello o lanciarsi in una lettura ingenua, è necessario leggere criticamente e questo soprattutto per quanto riguarda il secondo gruppo di poesie presenti nel volume.

Il volume raccoglie tutta la produzione poetica di Caproni e nella parte finale troviamo un'interessantissima scelta antologica con un apparato critico che aiuta il lettore nella scelta e nella comprensione, segnalo oltre alle raccolte ricordate nelle righe precedenti, la bellissima raccolta Il seme del piangere e in particolare la poesia Battendo a macchina , un esempio del primo Caproni in cui gentilezza ed eleganza si mischiano, provocando nel lettore emozioni ed intensa partecipazione.


La mia scelta delle cinque poesie che più mi hanno creato emozione ( scelta soggettiva seguita con criteri del tutto personali) è la seguente:

1) La gente se l'additava

2) Dies Illa

3)Battendo a macchina

4)Spiaggia di sera

5) Il passaggio d'Enea


....a chi volesse leggere le poesie di Giorgio Caproni l'invito è di sceglierne altre cinque, sceglierne solo cinque tra tante non è facile, ma è l'unico modo per evitare che .... scivolino via come l'acqua..

 

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20 luglio 2012 5 20 /07 /luglio /2012 06:25

 

 

Una rosa per l'Ecclesiaste - Roger Zelazny

 

 

 

 

 

 

 

 

Dieci anni fa trovai in una bancarella un libro con in copertina uno splendido disegno raffigurante un cavallo che galoppa in un verde paesaggio mentre dall'alto viene osservato dal volto di un personaggio inquietante che mi conquistò all'istante. 
Il libro era ancora più bello della sua copertina e il suo titolo è "Fuoco e gelo", racconto fantastico dell'autore polacco Roger Zelazny. Dopo averlo letto ho voluto scoprire gli altri libri di questo autore molto prolifico assolutamente unico nel campo della letteratura che con la sua fantasia creativa ci ha consegnato dei gioielli d'inventiva letteraria in cui s'esprime al meglio la potenza straordinaria della parola, l'ultima frontiera del simbolismo perché niente è in grado di esprimere cosa esattamente vuole dire uno scrittore meglio di un suo scritto diretto. 

Dopo "Fuoco e gelo" ho letto "Una rosa per l'Ecclesiaste" che con il suo mondo surreale trasporta il lettore all'interno di una delle più sconvolgenti e originali rappresentazioni letterarie del genere fantastico-filosofico. 
Roger Zelazny ha la capacità unica di mostrare attraverso le sue opere come il nostro universo riflessivo non ha confini e che tutto il nostro essere dipende esclusivamente dai nostri pensieri e dai concetti che via via elaboriamo davanti ai fatti del mondo. 
Di libri appartenenti ai cosiddetti "cicli marziani" ne sono stati scritti una quantità impressionante, molti sono reperibili proprio nella collana "Urania", probabilmente perché all'epoca delle prime esplorazioni spaziali il pianeta rosso è stato caricato degli stessi significati che avevano coloro i quali vedevano nell'Oriente una nuova frontiera che nei loro racconti era anche un viaggio di avventura nei sentimenti umani. 
E siccome tutto è in movimento nei confini elastici della narrativa, può uscire fuori un "frullato" che dà forma a romanzi veri e propri come è appunto "Una rosa per l'Ecclesiaste" dove Marte è lo sfondo in cui si svolge tutto il racconto che ha come protagonista un certo Gallinger, un eclettico e poliedrico personaggio poetico, lieve e un po' irrazionale che viene incaricato di decifrare e tradurre i libri della letteratura marziana. A questo punto - questa è la singolarità di Roger Zelazny- la storia diventa una sorta di test psicologico della personalità che incomincia a sorprendere e ad avvincere il lettore. Il passo successivo è l'incontro di Gallinger con una "marziana" una certa Braxa con la quale ha una storia d'amore e di sesso, nasce un ibrido (vi ricordate la famosa serie TV andata in onda negli anni '80?) non prima però di avere superato i divieti delle autorità religiose marziane che vietavano di congiungersi con esseri non appartenenti al pianeta rosso. 
Proprio nelle varie sequenze descritte dall'autore veniamo coinvolti in un mondo che può apparire misterioso ed incomprensibile ma che è l'esatto rovescio del nostro pianeta, intessuto della stessa sostanza che si manifesta per una forte opposizione per tutto ciò che è diverso dalla comunità autoctona. 
Ciò che permette sia a Gallinger che a Braxa di salvarsi è una rosa, un fiore che non può crescere su Marte ma che l'impianto sacro marziano riteneva legato ad una profezia contenuta nei loro testi sacri, Braxa e suo figlio si salvano dopo essere sfuggiti ad agguati e pericoli. 

Gallinger perciò svolge la funzione di un profeta, una funzione in apparenza frutto della più banale delle rappresentazioni, ma è proprio il suo desiderio di opporsi al destino ineluttabile preconizzato dalle sacerdotesse della civiltà marziana, che salva il loro pianeta. La forza che permette questo miracolo -come suggerisce il titolo esplicativo- è una rosa simbolo dell'amore che è ricerca ma anche perdita, ostinazione, tormento. 
L'autore riesce perfettamente a dare una rappresentazione di un amore planetario che tra sacro e profano porta alla salvezza lui, la sua "marziana" , il loro figlio e tutta la civiltà del pianeta rosso. 
Il libro dell'Ecclesiaste diventa perciò il testo sacro condiviso che permette di fare capire ai marziani la "vanità di tutto" ma nello stesso tempo di dare un senso alla loro esistenza e questo si realizzerà quando i terrestri si uniranno agli abitanti di Marte. 

La storia fantastica ha una morale che può trovare corrispondenza in questo passo dell'Ecclesiaste: 

"Due stanno meglio di uno, perché hanno una buona ricompensa per la loro fatica. Se infatti uno cade, può essere rialzato dal compagno: guai a chi è solo, se cade e non c'è chi lo rialzi. Anche se si va a letto, in due ci si può scaldare, ma chi è solo come fa a scaldarsi?
(Ecclesiaste 4, 9-11).

 


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20 luglio 2012 5 20 /07 /luglio /2012 06:08

IL GIOCO NELLE VITE CONSUNTE DEI DISPERATI DELLA VITA 

Vi sono dei libri che raccontano storie datate nel tempo e prive di qualsiasi interesse, si tratta spesso di libri che costituiscono dei reperti archeologici che costituiscono motivo di interesse solo per gli storici della letteratura o per i cultori delle cose trapassate e vi sono poi libri talmente attuali che vanno al di là del periodo storico in cui sono stati scritti. 
Nel secondo gruppo vi rientra senz'altro "Il giocatore" di Fedor Dostoevskij, autore difficile ed impegnativo ma immenso, spesso tendenzioso e provocatore che si occupò in molte delle sue opere del male fino alla sua forma più estrema: il delitto. 
Ma il male si può manifestare anche sotto altre spoglie e il gioco è uno degli abiti del male, specie quando consuma le coscienze, rovina le vite, diventa l'unica e sola ragione di un'esistenza che "punta tutto ai dadi" nell'illusoria speranza di cambiare per sempre il proprio destino. 


IL LIBRO 

Il libro è stato pubblicato da numerose case editrici ed è facilmente reperibile in commercio sia online che in una libreria tradizionale (a richiesta). 
L'edizione pubblicata da Einaudi ha il pregio di avere una traduzione aderente al linguaggio moderno e una bella introduzione di Leone Ginzburg. 

Per maggior informazioni sul prezzo consiglio di vistare il sito della casa editrice al seguente indirizzo: 

www.einaudi.it 


L'ANGOLO PERSONALE 

Alexis Ivanovitch è il protagonista/comprimario del racconto, una contraddizione in termini perché in realtà il vero protagonista del romanzo è il gioco ed il gioco maledetto che conquista il giovane Alexis è una droga che non lo abbandona più dal momento in cui scopre l'appassionante sensazione che gli provoca e quando l'idea di guadagnare a tutti i costi una grande somma di denaro entra nella sua mente come un tarlo che tutto consuma. 
Il giocatore delineato dallo scrittore moscovita rappresenta il giocatore di tutti i tempi, il giocatore febbricitante che non sente mai la faticante attività della scommessa a tutti i costi, che si sottopone a continue ed estenuanti prove che richiedono un notevole sforzo mentale, pronto a rialzarsi raccogliendo le proprie miserie per puntare continuamente su un gioco che assomiglia al masso di Sisifo portato sulle spalle e che rotola giù dalla montagna delle illusioni..... per poi rincominciare esattamente come all'inzio. 
Non esiste per Alexis Ivanovitch un momento fausto, non c'è motivo di letizia nella sua azione di giocatore che lenisce la sua brama di invertire la rotta solo nel momento in cui si siede nel tavolo del casinò; la sua è una sorta di "morfininomania" del gioco, uno smodato bisogno della dose quotidiana della puntata. 
Alexis è intossicato pr l'uso prolungato di un gioco che non è più tale ma che è diventato un oppiaceo che gli provoca una grande forma di assuefazione ma che nello stesso tempo funge da "mordacchia" dell'anima e che gli impedisce di agire consapevolmente. 

Se il gioco per Alexis Ivanovitch è la fune che lo lega al vizio, è anche passione, ragione di vita, voglia di misurarsi con la fortuna e con le proprie capacità, tutto sommato il giocatore Alexis è un uomo vero che agisce senza troppe mediazioni. 

Suscitano invece un senso di riprovazione due personaggi come M.lle Blanche e De Grieux che sono la quintessenza del cinismo e dell'opportunismo, il contraltare in un certo senso dello stesso Alexis Ivanovitch, vizioso ma sincero ed autentico. 

Il racconto è ricco di personaggi dalla miltiforme personalità, comprimari che rappresentano tanti caratteri e tanti modi di porsi nei confronti della vita, in questo Dostoevskij dimostra una capacità unica di essere psicologo attento e descrittore finissimo. Nel romanzo poi emerge r il carattere cosmopolita della Russia zarista che a quanto pare era visitatissima da tutti coloro che appartenevano alla bella società dell'epoca. 
Fedor Dostoevskij dimostra una certa altezzosità nei confronti dei non russi; un francese diventa "il francesino", i polacchi sono "i polaccucci", i tedeschi sono solo dei commercianti pronti a fare affare con chiunque. 
Ma Dostoevskij non risparmia critiche al sistema, i giornalisti sono accusati, ad esempio, di servilismo perchè presentano una situazione falsa del gioco, descrivono la straordinaria magnificenza e il lusso della sale da gioco, raccontano dei "mucchi d'oro" che giacciono sui tavoli, sono insomma complici e alimentano la febbre del gioco contribuendo alla rovina delle persone che finiscono per cadere nel tranello della ricchezza facile. 



LO STATO BISCAZZIERE FA COMODO A TUTTI 

In Italia il gioco è monopolio di Stato, significa che a parte la briscola e il tresette, la tombola e altri giochi vari in cui non si puntano soldi, lo Stato ricava dal gioco i quattrini per finanziare la spesa pubblica. 
Assistiamo ad un moltiplicarsi di lotterie, di "gratta e vinci", di grattini e grattoni, di slot machine, di vincite istantanee che invogliano i più sprovveduti a giocare continuamente, tutti i giorni in una sorta di roulette maledetta che diventa un girone infernale. 
Ci sono delle persone anziane che prendono la pensione e nel giro di qualche giorno la consumano nel gioco, ci sono casalinghe che fanno la cresta sulla spesa e corrono in una ricevitoria a spendere i pochi spiccioli "risparmiati" tentando la fortuna, ci sono cassaintegrati che spendono quel poco che hanno nelle macchinette e....lo Stato non fa niente, anzi invoglia le persone al gioco. 

***Dalla benzina e dal gioco arrivano la maggior parte delle entrate dello Stato, è logico che nessuno ha l'interesse a contrastare un fenomeno come quello del gioco, anzi lo alimenta come i giornalisti descritti da Dostoevskij . Con le entrate derivanti dal gioco si pagano gli stipendi dei dipendenti pubblici, le pensioni, le prestazioni assistenziali, la sanità e...... i politici. 


NOTA FINALE SULL'AUTORE 

Fedor Dostoevskij era un giocatore incallito, si rifugiò nel gioco dopo aver scoperto che Polina la sua amante lo tradiva. Dopa aver vinto 5000 franchi intraprese un viaggio in Italia, ma il momento di serenità durò molto poco. Polina lo abbandonò e per sempre. 
Più tardi Dostoevskij si sposò con Anna Stitkina, una giovane che gli fungeva da segretaria e alla quale dettò "il giocatore", oberato dai debiti fu costretto a fuggire dalla Russia..........Il romanzo è chiaramente autobiografico ed è un grido di aiuto al mondo e un monito ai posteri che il grande scrittore russo lanciò per raccontare gli effetti nefandi del vizio del gioco. 

Libro consigliato a tutti coloro che amano la bella letteratura, ai giocatori incalliti che si stanno rovinando e a tutti coloro che, davanti a questo triste fenomeno, tacciono deliberatamente contribuendo a gettare nell'inferno migliaia di disperati della vita.

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Published by Caiomario - in Libri
19 luglio 2012 4 19 /07 /luglio /2012 17:06

CON AMMIRAZIONE 

Il primo libro che ho letto di Ildefonso Falcones De Sierra è stato "La cattedrale del mare", non amando i (libri) più venduti e guardandoli con diffidenza sono in genere restio a guardare un film o leggere un libro a cui si accompagna un battage pubblicitario che è solo un'operazione di marketing e che poco a che fare con la letteratura. 
Questa volta però (e lo confesso con piacere) sono stato smentito da una piacevolissima lettura che mi ha convinto totalmente sul talento di Ildefonso Falcones De Sierra (capace di riconfermarsi a distanza di così breve tempo), una vera e propria rivelazione nel panorama letterario mondiale spesso dominato da figure di scrivani che costruiscono una narrazione con il solo scopo di conquistare il grande pubblico. 
Non è sbagliato l'intento, è fuorviante il mezzo e deprimente il risultato ottenuto ( dagli scrivani). 

Tralascio anche qui la trama che è possibile reperire ovunque, mentre vorrei soffermarmi sull'aspetto letterario di un'opera che possiamo fare rientrare nel genere del grande romanzo storico, un genere questo non facile perchè oltre al talento è necessaria la pazienza certosina del ricercatore che deve verificare per evitare strafalcioni e incongruenze storiche. 


La storia è suggestiva e intrigante ed è ambientata nei villaggi di Alpujarras, una zona dell'Andalusia che venne colonizzata dagli arabi nel VII sec. d.C. e riconquistata dai Cristiani nel 1492. 
La regione venne profondamente islamizzata e raggiunse una grande floridezza economica e ancora oggi negli usi e costumi degli andalusi si ritrovano tracce consistenti di quell'antica dominazione. 
Siamo nell'anno 1568, sono passati tre lustri dalla riconquista cristiana che non è stata solo militare ma anche culturale tesa a una conversione forzata dei moriscos i quali si ribellano alla soldataglia di Carlo V e ai religiosi inviati per ripristinare il cattolicesimo. 
In questo gruppo di riviltosi spicca un ragazzino di quattrodici anni figlio di una donna araba e di un prete che l'ha violentata, il ragazzo fatica, come tutti i meticci, a farsi accettare dalla sua gente. 

Bellissima è la storia d'amore tra Hernando e Fatima, una ragazzina che Falcones riesce magistralmente a descrivere e che il lettore riesce ad immaginare bella e con due grandissimi occhi neri; un amore tormentato che non ha niente di morboso nonostante l'innamoramento dell'adolescente imberbe sia quello verso una ragazza madre che seppur nella violenza ha perso la sua innocenza. 
Falcones prende il lettore per mano e lo conduce lungo il percorso che Hernando farà lottando per il proprio destino e per il proprio popolo e questa storia personale è quella dei sentimenti di sempre: amore, passione, orgoglio, speranze e sullo sfondo la tetra società spagnola del XVI secolo con un potere secolare repressivo che si serve dell'Inquisizione come mezzo per scardinare ogni forma di eresia spirituale che era all'epoca anche un'eresia verso il potere politico che si sentiva legittimato direttamente da Dio. 

UNA TRAMA COMPLESSA TRA RIVALSA E COMMOVENTI DELICATEZZE 


Falcones oltre ad aver ricostruito minuziosamente quel periodo, descrive i sentimenti andando al di là dei confini del tempo e dello spazio, il lettore,nonostante il numero di pagine veramente imponente (911), si sente trascinato da una scrittura lieve mai barocca e ridondante. 
La storia è una storia anche capace di provocare incredibili e commoventi delicatezze ma nello stesso tempo di indurre il lettore a prendere le parti di Hernando e a farsi coinvolgere dai suoi sentimenti di frustrazione e di rivalsa. 

Il ritmo incalzante dell'intero racconto è magistrale ed irripetibile per le emozioni che ruotano intorno al binomio amore-odio, Falcones riesce a mettere le tessere del mosaico-racconto nel posto giusto dispiegando la narrazione facendola diventare epopea e regalandoci una galleria di personaggi indimenticabili. 

Un bellissimo romanzo che potrebbe essere accostato a "I miserabili" di Victor Hugo, sarà il tempo a dire se questo bel libro non sarà solo uno dei più venduti ma anche uno dei più letti. 

la-mano-di-fatima-ildefonso-falcones.jpg

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Published by Caiomario - in Libri
19 luglio 2012 4 19 /07 /luglio /2012 16:35

QUELLA SCRITTRICE INGLESE CHE RACCONTAVA LE INDAGINI CONDOTTE NELLA PIU' ASSOLUTA NORMALITA'. 


Non sono un "giallista" incallito, ma apprezzo la letteratura d'intrattenimento e in particolare i romanzi polizieschi a enigma. E non c'è dubbio che Agatha Christie è prima di tutto una straordinaria scrittrice e poi un'autrice di libri gialli. 
I romanzi della scrittrice inglese sono diventati dei veri e propri classici che hanno fatto scuola in quel genere cosiddetto poliziesco che dovrebbe essere studiato anche da tutti quegli investigatori che oggi prediligono la "genetica" per scoprire gli autori di efferati omicidi. Si pensi, ad esempio, al famosissimo "Assassinio sull'Orient Express" dove la narrazione dell'enigma si svolge nei tempi rapidissimi di un fine settimana e dove l'investigazione viene condotta nella più assoluta normalità, quella che ahimè manca da tempo anche nella condotta di molti personaggi più o meno noti pronti a frequentare salotti televisivi che solleticano la morbosità dei telespettatori. 

Considerazioni generali a parte che dovrebbero comunque essere maggiormente approfondite, sorgono molti dubbi sui modi di condurre le indagini che non portano prove e quando le portano vengono sistematicamente smontate in sede processuale. Ecco perché l'ispettore Poirot mi piace (anche nelle rappresentazioni che ne sono state fatte nelle riduzioni televisive): grandi baffi neri, abiti impeccabili e ricercati, si accompagnano ad una razionalità attenta e curiosa pronta a cogliere ogni minimo particolare (anche quello più apparentemente insignificante) fino a che tutto non si ricompone in una paziente attività di investigazione che suscita ammirazione per il modo in cui viene condotta.
In molti racconti la spalla dell'ottimo Poirot è il capitano Hastings, una sorta di dottor Watson che ha nel racconto la funzione di disturbatore ingenerando dubbi nel lettore evidenziando particolari spesso di poca importanza ma che possono essere rilevanti per sciogliere l'enigma. 

Agatha Christie era solita definire i suoi racconti polizieschi "la mia fabbrica di salsicce", non c'è dubbio che la sua prolificità le ha dato successo e gloria letteraria imperitura, ed è altrettanto certo che le sue "salsicce" restano ancora le più buone grazie ad una sagacia ed ironia che la rende la migliore autrice di gialli di tutti i tempi. 

Tra i diversi romanzi di Agatha Christie che ho letto, "L'assassinio di Roger Ackroyd" è uno di quei testi narrativi che ripercorre la classica ambientazione dei gialli della scrittrice inglese. La vicenda ha inizio a King's Abbot, un paesino che si trova nell'Inghilterra nord-occidentale e dove si svolge una vita sempre eguale a se stessa dove non accade mai niente di particolare e dove l'unico passatempo dei suoi abitanti è il pettegolezzo. L'assassinio di Roger Ackroyd rompe la vita tranquilla e monotona degli abitanti di King's Abbot ha così inizio lo schema della Christie: 

  • un maggiordomo su cui si spostano gli sospetti degli investigatori; 
  •  una zitella curiosa e (naturalmente) pettegola....(la stessa Christie ce la immaginiamo con il volto di Margaret Rutheford che interpretò l'altro grande personaggio scaturito dalla sua fantasia: Miss Marple); 
  • un numero indefinito di personaggi che sono funzionali al racconto e sui quali di volta in volta si spostano i sospetti; 
  •  i poliziotti che spesso hanno come unico strumento un taccuino sul quale prendono appunti; 
  • l'impomatato Poirot. 


IDENTIKIT DEL TESTO 

Non svelo il finale del racconto, posso solo anticipare che l'assassino è davvero un insospettabile e il lettore avrebbe la possibilità di arrivare alle stesse conclusioni di Poirot se avesse il suo medesimo acume. 
L'unicità e la particolarità di questo romanzo sta nel fatto che la Christie mette davanti al lettore gli stessi elementi che ha Poirot, solo che è veramente difficile arrivare alla soluzione del caso. Insomma alla fine manca sempre l'ultimo tassello, io personalmente non sono riuscito a comporre tutte le tessere anche se ho cercato fondare il ragionamento su delle ricostruzioni logiche che non hanno retto al finale...a sorpresa. 


"Poirot si avvicinò alla finestra. 
"Quando lei ha trovato il cadavere, la luce era accesa, vero?" domandò senza voltarsi. 
Dissi di sì e mi avvicinai a lui che stava esaminando le impronte sul davanzale della finestra" (Tratto da "L'assassinio di Roger Ackroyd"). 

Nota finale: Il romanzo più noto della Christie è -a detta di molti- "Dieci piccoli indiani", ma questo è l'unico romanzo in cui tutto accade sotto gli occhi, ma è difficile rendersene conto.

 

L' assassinio di Roger Ackroyd di Agatha Christie: il vero giallo a enigma, il resto è noia.

 

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