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16 luglio 2012 1 16 /07 /luglio /2012 11:38

DA SCOPRIRE E RISCOPRIRE 

Il lettore attento alle evoluzioni della narrativa, noterà che Luigi Malerba è uno scrittore ancora poco conosciuto, le ragioni di questo fatto possono essere diverse ma è probabile che la sua fama letteraria per andare al di là della fortunata stagione che comunque l'ha visto protagonista, abbia bisogno di un aiuto editoriale, essendo molte delle sue opere reperibili in edizioni ormai datate. 
Bisogna comunque riconoscere che la Mondadori si è impegnata in tempi recentissimi a pubblicare anche delle opere postume rendendo omaggio a uno scrittore di talento e dai variegati interessi letterari. 

"Testa d'argento" è una raccolta di racconti che assomiglia a una galleria in cui vengono descritti personaggi diversi tra loro che hanno in comune solo un aspetto, la bizzarria dei comportamenti. 
E' come se l'autore si fosse messo sul balcone di uno stabile che si affaccia su una piazza e abbia incominciato a prendere nota di tutto quello che vedeva in prima persona, il risultato di questo modo di procedere è un espediente che da un lato permette all'autore di vedere da vicino le diverse situazioni ma mai calandosi completamente nelle vicende dei personaggi descritti. 
Malerba in una nota farà una precisazione, forse al fine di evitare allusioni e sovrapposizioni, in cui distingue la sua attività fabulatoria e cronachistica da quella comportamentale dei personaggi che animano i suoi racconti. 
E' quasi come se Malerba avesse voluto prendere le distanze invocando una normalità comportamentale eppure la sua non è una letteratura che rientra nella normalità dimostrando una rara capacità nello smontare e nel fotografare da diverse angolazioni una realtà che appare continuamente diversa e bizzarra. 
Questa abilità descrittiva che in "Testa d'argento" raggiunge una brillantezza apprezzata dal lettore dimostra acume e nel contempo uno spirito di osservazione straordinario come nel caso del racconto "I due schiaffi" in cui Malerba osserva il diverso valore che può avere uno schiaffo dato ad una moglie a secondo di chi lo da. 
E' un distinguo ironico e formalmente ineccepibile per cui se lo schiaffo, (osserva Malerba che parla nella veste di una macellaio di un piccolo paese), è dato da un cancelliere di tribunale è cosa ben diversa da quello dato da un macellaio, si può dare uno schiaffo per qualche occhiata data durante l'anno? C'è proporzione tra il tradimento morale e quello materiale? 

In queste descrizioni e ragionamenti, Malerba si dimostra uno scrittore imbattibile e le situazioni raccontate sono talvolta talmente provocatorie che il lettore si può domandare che cosa è che non è demente; è difficile dire se Malerba avesse un intento pedagogico o se volesse semplicemente presentare questi ritratti con una lieve e gradevole comicità defilandosi nel narrare e subito confondendosi con il lettore di cui Malerba ebbe sempre un sovrano rispetto come dimostra l'avvertenza scritta dallo stesso Malerba e presente nel libro. 

Un libro intelligente, ironico, pregevolissimo dal punto di vista letterario e da concedersi come piacevole intermezzo, 28 racconti brevi da leggere e gustare e.....fare propri. 
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Published by Caiomario - in Libri
16 luglio 2012 1 16 /07 /luglio /2012 06:02

 

 

CHI ERANO I MANDINGO 

Venivano chiamati "Mandingo" tutti quegli uomini strappati dalla loro terra natia per essere ridotti in schiavitù, all'inizio delle tratte degli schiavi con questo termine si indicavano i gambiesi facenti parti della fiera etnia malinke, poi con questa termine si indicarono in modo generico tutti gli schiavi quale che fosse la loro provenienza. Oggi il termine è utilizzato prevalentemente in ambito etno-antropologico mentre nel linguaggio comune l'uso ha assunto termini connotativi volgari indicanti uomini di colore dalle proporzioni erculee che si distinguono per le loro eccezionali prestazioni sessuali. Detta connotazione è in parte riconducibile agli episodi presenti nel libro di Kyle Onstott in cui viene descritta la congiunzione carnale di Mede/Mandingo con la provocante "padrona" bianca. 
 

LA MORTE TERRIBILE DI MADE/MANDINGO 

Rispolverare un libro come "Mandingo" che venne pubblicato per la prima volta nel 1957 significa per il lettore odierno comprendere fino a che punto l'immagine rappresentata del romanziere statunitense Kyle Onstott possa aver condizionato l'inconscio delle generazioni successive; non si tratta di un pruriginoso sviamento dal giudizio sul valore letterario del libro che tra l'altro è diventato un classico di tutta la letteratura scandalosa e proibita, ma di inquadrare quelle vicende nel contesto dello schiavismo americano. 
Made era infatti il prototipo fisicamente avanzato e più forte degli uomini africani, un esemplare ricercato dagli schiavisti per generare altri schiavi da adibire alle mansioni lavorative più dure e faticose. La scelta quindi di "importare" schiavi mandingo era dovuta esclusivamente ad esigenze di selezione degli individui e la "merce rara" si pagava secondo una logica cinica e spietata che oggi non può che non provocare ribrezzo. 
Ma le forme di violenza a cui erano sottoposti gli uomini come Made non erano solo legati alle dure condizioni di vita a cui erano sottoposti, ma anche al ricatto sessuale che investiva, tra l'altro anche le donne. Era quindi diffusa tra i padroni maschi la pratica di accompagnarsi a giovani donne ridotte in schiavitù (si trattava spesso di adolescenti), mentre le padrone pretendevano le attenzioni dei Mandingo. In caso di diniego vi era la morte sicura perché la padrona avrebbe accusato l'uomo di averla infastidita o peggio ancora di avere abusato di lei. 
Questo è il motivo per cui Made incomincia ad essere tormentato dagli incubi e ad un certo punto si rende conto che non può dare una svolta alla sua esistenza quando la padrona le annuncia di essere rimasta incinta a causa sua. 
Il finale della storia è terribile: il bambino viene ucciso mentre il povero Made viene prima torturato e letteralmente bollito in pentola. 


COSA HA INFLUITO NEGATIVAMENTE SUL GIUDIZIO DEL LIBRO 

La riduzione cinematografica del romanzo, ne ha pesantemente condizionato il giudizio ed ecco allora che il caso letterario si è trasformato in un caso cinematografico attirando le ire della censura che per mestiere svolge sempre un ruolo sgradevole. Poi l'industria cinematografica della pornografia ha creato le saghe dei Mandingo contribuendo in maniera determinante alla svalutazione del libro e alla sua parziale eclissi. 
Ritengo pertanto che l'unico approccio corretto nei confronti dell'opera sia quello di dare importanza alla trama narrativa in cui i fatti, pur rappresentati nella loro crudezza, possono aiutare a fare comprendere anche quegli aspetti di insensata violenza a cui furono sottoposti quegli uomini e che sono stati per lungo tempo taciuti. 





E' un libro che racconta una storia tragica ma che permette al lettore contemporaneo di allargare l'orizzonte, l'autore scrive in modo diretto e ci regala il ritratto vero e commovente di uomini che si sono scontrati contro il male perpetrato da altri uomini. 
Non basterà riscrivere la storia dell'umanità dalla carnagione bianchissima per avere un riscatto postumo dalle loro nefandezza e quella di Mandingo, di tutti i Mandingo, è una storia che ha lasciato un segno indelebile non solo nella vita delle vittime, ma anche nella coscienza di un popolo. 
L'autore non ha fatto altro che raccontare anche i terribili segreti che quelle storie celavano dietro l'apparente normalità della quotidianità, un senso di malinconia avviluppa il lettore dietro quei crudi fatti dove il destino, la morte, la colpa sono i veri protagonisti che accompagnano il male sempre sfuggente e inconoscibile nonostante la ragione cerchi di comprenderne le motivazioni. 



Si consiglia anche la lettura di "Drum" e de "Il padrone di Falconhurst" che insieme a "Mandingo" costituiscono la trilogia della saga.

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Published by Caiomario - in Libri
16 luglio 2012 1 16 /07 /luglio /2012 05:49

Quando finì il secondo conflitto mondiale, molti di quegli uomini che vi presero parte e che si trovavano su fronti contrapposti, dovettero fare i conti con la realtà del dopoguerra; per molti di loro il reinserimento non fu un passaggio indolore e dovettero scontare un isolazionismo che in parte controbilanciò quella violenza distruttiva che costituiva quasi una caratteristica di tutti gli ex combattenti. La volontà di controllare le derive distruttive ormai inglobate a livello di inconscio non bastava al loro reinserimento nella vita civile, ma come si poteva risolvere la conflittualità senza ricorrere alla violenza? "La paga del sabato" di Beppe Fenoglio aiuta a capire come un mondo sbagliato possa avere condizionato pesantemente molte vite al punto che l'essersi impegnati per un mondo più giusto o per l'affermazione dei propri ideali non costituiva più un motivo sufficiente per accettare la pace e la convivenza civile. 

La rappresentazione che Fenoglio diede della guerra partigiana ha fatto molto discutere, ancora oggi si rimprovera allo scrittore di Aba di aver voluto rappresentare istanze universali piuttosto che le istanze autentiche della Resistenza, è un'accusa ingenerosa. 
Leggere "La paga del sabato" il libro che venne pubblicato postumo permette di capire la posizione di Fenoglio e di inquadrare in modo corretto la tensione esistenziale che caratterizzò un'opera come "Ventitré giorni all'alba" che può essere considerata a tutti gli effetti un antefatto de "La paga del sabato". Quali sono i punti di contatto tra i partigiani descritti nella prima opera e l'ex partigiano Ettore che dopo la guerra non riesce ad inserirsi nella vita civile? Intanto entrambi, pur in situazioni diverse, sono calati all'interno di realtà che si trovano a subire loro malgrado (la guerra e il dopoguerra) e poi ancora una volta lo sfondo di entrambe le vicende è costituito dalle Langhe. 
Ettore non è però un eroe positivo fin dall'inizio, anzi i suoi comportamenti sono quelli che possono portare al crimine, all'annientamento e alla dissoluzione e sono forse anche una reazione ai tentavi di normalizzazione che portarono molti ex fascisti ad occupare posizioni di comando quasi come se il tempo della guerra si fosse congelato. 
Ma c'è anche un altro elemento forse molto più spicciolo ma altrettanto determinate nella reazione di Ettore che non vuole reinserirsi nella vita normale con un lavoro ordinario, l'impossibilità ad accettare ruoli subordinati dopo aver assunto un ruolo di comando nelle brigate partigiane nel periodo della guerra. 
A questo punto si entra nella visceralità più indecifrabile o se vogliamo nei sentimenti dell'individualismo e dell'orgoglio che spesso determinano scelte che, a prima vista, potrebbero sembrare irrazionali. 

E' interessante notare che alle motivazioni individuali si uniscono quelle dell'ideologia politica, sotto questo punto di vista il protagonista de "La paga del sabato" è un personaggio atipico rispetto agli altri delineati da Fenoglio che non ha mai avuto una grande simpatia per gli eroi ideologici e politicizzati; nel caso di Ettore sembra che l'ideologia sia strumentale al raggiungimento dei propri obiettivi. 
Anche il personaggio di Bianco risulta ambiguo nel momento in cui la fine della guerra lo restituisce alla vita ordinaria, probabilmente la demitizzazione del partigiano eroico che vive di espedienti ha contribuito nell'esprimere il giudizio polemico e pieno di astio che certa critica ha rivolto a Fenoglio, ma qui si passa al giudizio morale e non più letterario della sua opera. 
E' meglio declinare su queste accuse che nascono dal desiderio di presentare la Resistenza come un'epopea mitica senza macchia, non fu così, luci ed ombre vi furono come in tutte le vicende che riguardano gli uomini. L'unico che ne comprese la portata fu Italo Calvino che lesse il romanzo e ne apprezzò l'impianto al punto che avrebbe affermato che gli sarebbe piaciuto esserne l'autore. 

E se questo è stato il giudizio di Calvino sul romanzo, molti dovrebbero rivedere il giudizio nei confronti di Fenoglio.

La paga del sabato: racconto fuori dai miti ideologici del tempo

 

 

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15 luglio 2012 7 15 /07 /luglio /2012 17:22

 

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Leggere Calvino è una scoperta, rileggerlo è una riscoperta, è stato definito il "narratore più importante del secondo Novecento", forse lo è, ma sicuramente occupa un ruolo di primo piano nella letteratura italiana. 
Nell'arco della sua attività si riscontrano delle sensibili differenze tra il cosiddetto primo periodo che va da 1945 al 1964 e il secondo che va dal 1964 al 1985; il primo periodo, orientato verso lo sperimentalismo, è caratterizzato dall'elemento fantastico in cui è rintracciabile l'influenza di Ariosto piuttosto che Voltaire, mentre nel secondo periodo la tematica sociale e politica è al centro della sua produzione narrativa. 

L'INTELLETTUALE DISTANTE 

Nel primo periodo rientra "Il Barone rampante" uno dei racconti brevi più fortunati di Calvino insieme a "Il visconte dimezzato" e "Il cavaliere inesistente" che fanno parte della trilogia "I nostri antenati", il cosiddetto ciclo "fantastico-allegorico" che vede la narrazione di storie ambientate in epoche remote. 
Il "barone Rampante" è l'illustrazione di un periodo che va dalla Rivoluzione francese alla Restaurazione, i due periodi sembrano senza soluzione di continuità e potrebbero essere giustapposti solo sul piano temporale ma vanno letti all'interno della concezione che Calvino aveva, almeno nel primo periodo della sua produzione letteraria, in cui affrontò il ruolo dell'intellettuale all'interno della società e della sua vocazione alla distanza. L'interpretazione de "Il barone rampante" come un semplice racconto di un' epoca è pertanto fuorviante, potremo definirla scolastica nel senso che si limita a vedere solo l'aspetto favolistico; parlare poi di diversi piani di lettura come taluni fanno è altrettanto superficiale in quanto l'ambientazione in cui è inserito il romanzo è solo un pretesto letterario, mentre ciò che Calvino ha voluto affrontare è proprio quello dell'alienazione dell'intellettuale, del suo vivere distante dalla società vissuto come costrizione e non come scelta volontaria. 
Ad aver contribuito a questa interpretazione è sicuramente la proposizione della lettura nel periodo adolescenziale quando il testo viene solitamente affrontato in modo leggero, mentre una lettura più consapevole in età adulta permette di cogliere l'essenza del romanzo e di apprezzarne l'aspetto allegorico. 


IL RACCONTO IN BREVE 

Siamo alla fine del Settecento (1797) Cosimo Piovasco di Rondò barone di Ombrosa vive un profondo contrasto familiare, la sua è una famiglia nobile che vive un irreversibile decadenza mentre in Francia dilagano le idee della Rivoluzione. 
Cosimo all'età di dodici anni dopo avere rifiutato un piatto di lumache e dopo l'ennesimo bisticcio con la sorella prende una decisione irreversibile, fugge da casa e decide di salire sugli alberi da cui non scenderà mai più. Con la sua testardaggine e il suo senso di ribellione si riesce a costruire un mondo a sé, sospeso a mezz'aria raggiungendo l'autosufficienza. Dal suo rifugio, in mezzo alla chioma degli alberi, riesce persino ad addestrare un cane e a cacciare, poi si fa portare dal fratello e dal precettore dei libri e con voracità e curiosità divora i testi degli autori illuministi, studia, si forma, incomincia a diventare un intellettuale che riflette sulla vita e sulla sua condizione e quella della sua famiglia, arriva persino a suggerire delle letture a un vecchio brigante, tale Gian dei Brughi e vive persino una storia d'amore con Viola, una ragazza capricciosa che però solletica la sua curiosità e i suoi sensi. 
Il racconto è sempre surreale sino alla fine quando in punto di morte non si riesce a farlo scendere giù dagli alberi per dargli l'estrema unzione. 
Cosimo è poi un viaggiatore "arboreo", come un primate, passa di albero in albero, si preoccupa di curare la natura e di non danneggiarla, osserva e comprende la realtà da questo mondo sospeso che diventa un osservatorio privilegiato dal quale osservare ogni cosa con l'obiettivo di cambiare la realtà Insomma fa il filosofo sospeso tra cielo e terra e la sua fama si diffonde a tal punto che persino il Bonaparte decide di andare a conoscere Cosimo che con la sua stranezza attira gli altri invece di respingerli. 

GUIDA ALLA LETTURA 

* IL RACCONTO 

Restando sul piano favolistico, il racconto di Cosimo si presta ad essere una proposta narrativa sempre verde per i giovani lettori. Ma è come leggere l'Orlando Furioso, si comprende la trama, ma sfugge il significato delle parafrasi La riduzione a "favola" può anche essere una chiave di lettura de "Il barone rampante", ma non basta; siamo insomma lontani dal "Manuale delle giovani marmotte" anche se l'idea di costruirsi un rifugio sugli alberi ha sempre affascinato i ragazzini di tutte le epoche. 
La chiave di lettura entro l'ambito della narrativa per ragazzi però si ferma qui, il mito del buon selvaggio tipico della letteratura settecentesca è sfiorato da Calvino che lo usa come cavallo di Troia per dire altro. 

* L'ETA' DELLA RIBELLIONE 

Cosimo vive sugli alberi tutte le età, a dodici anni è un ragazzino testardo e ribelle come tanti, il suo conflitto con i parenti rientra nella normalità delle cose, il merito di Calvino è quello di aver presentato il periodo dell'adolescenza con molta ironia e una sana dose di indulgenza. 
Gli episodi raccontati come quelli del furto della frutta nei poderi dei vicini, il suo ruolo di capobanda, le piccole ripicche giovanili e l'amore con la marchesina rientrano nell'età della ribellione, un 'età che tutti con nostalgia ricordano voltandosi indietro. Anche l'amore adolescenziale diventa l'occasione per raccontare come questo si forma e come cambia nel corso degli anni; Calvino ci presenta l'amore istintivo dell'adolescente Cosimo in modo lieve ma mai superficiale, come non riconoscersi in quel periodo che richiama l'epoca dei primi baci? 

* LA FINE DI UN'EPOCA 

Il romanzo celebra l'età della ragione incarnata nei valori dei Lumi che fanno piazza pulita di tutto il vecchiume della nobiltà che viveva come un parassita sulla società produttiva. La nostalgia del padre di Cosimo appare patetica e la sua condizione economica fatta di molta apparenza (e poche sostanze) lo costringe a trovare sempre delle scorciatoie che gli servono per mantenere il suo status di nobile. Ma il processo di cambiamento è ormai in atto, per la nobiltà non sarà più come prima e anche gli "aristocratici" per vivere dovranno lavorare 


* IL PENSIERO E LA RIFLESSIONE FILOSOFICA 

Cosimo si dimostra curioso nei confronti della conoscenza, si fa portare dei libri, studia e arriva persino ad elaborare un "Progetto di Costituzione d'uno Stato ideale" che manderà a Diderot. Cosimo poi scopre sempre nuovi libri e si avvicina a tutti gli autori dell'epoca. Passa dalla fase dell'azione compulsiva tipica dell'adolescenza alla fase della riflessione. Per avere i libri dei "phliosophes" caccia dei fagiani, una lepre ecc, ma apprende la scienza e se ne serve per trovare delle soluzioni pratiche Calvino insomma celebra la ragione di tipo illuministico che porta non solo ad elaborare la prima enciclopedia ma anche ad utilizzare le scoperte scientifiche per migliorare la società e renderla quindi più libera. 

* IL RUOLO DELL'INTELLETTUALE 

E' il punto centrale del romanzo, il nodo cruciale affrontato da Calvino attraverso l'espediente del racconto. L'intellettuale esce fuori dalla mischia ma osserva il mondo da una posizione privilegiata, ma nello stesso tempo vive la sua condizione di isolamento che lo fa apparire bizzarro agli occhi del mondo 
Il rapporto con la realtà è spesso conflittuale ma è lucido, ironico a tratti canzonatorio. Quella di Cosimo è una scelta assoluta, per conoscere deve vivere tra gli alberi e anche se non riesce a cambiare il mondo riesce a dare una chiave di lettura dei fatti ordinata prospettando delle soluzioni che possono aiutare a vivere meglio. 


Quando Cosimo Piovasco di Rondò barone di Ombrosa si accorse che stava per morire si aggrappò alla fune di una mongolfiera e sparì in mezzo al cielo, una lapide lo ricordò con queste parole: 

"Visse sugli alberi -amò sempre la terra-salì in cielo"

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Published by Caiomario - in Libri
14 luglio 2012 6 14 /07 /luglio /2012 17:11

Pier Paolo Pasolini (Bologna 1922 - Roma 1975), poeta, scrittore, regista, critico, politologo antelitteram, critico letterario, amante dello sport e in particolare del calcio..... ha vissuto senza padrone, ricercando sempre continuamente la sperimentazione in ogni campo da quello ideologico a quello linguistico. 

Basterebbero queste poche righe per presentare Pier Paolo Pasolini che a distanza di 36 anni dalla sua morte non potrà mai venire saccheggiato per quanto riguarda le sue formidabili intuizioni (nonostante i numerosi tentativi) semplicemente perchè certi pensieri li ha espressi per primo. Ancora oggi leggendo le sue lucide analisi ( vedi  Scritti corsari - P. Paolo Pasolini ) si rimane stupiti di quale lungimiranza quasi profetica avesse Pasolini, da allora poco è cambiato, l'Italia molto bigotta e arretrata descritta in pagine che pesano come piombo è madre di quella che noi oggi viviamo e non possiamo non constatare il peggioramento che ha investito ogni campo, compreso quello della cultura. 
Pasolini non era incline al pessimismo, ma era un'ottimista realista che con la parola ha dato un contributo determinante per la comprensione di fenomeni troppo spesso liquidati semplicemente come cronaca giudiziaria o resoconto storico, il suo "Io so.." rimane come un monito e purtroppo tutti quei misteri che ricordava nel famoso articolo rimangono ancora insoluti, ma adesso anche "noi sappiamo..." anche se non abbiamo le prove, grazie a Pasolini. 

LA MEGLIO GIOVENTU' DI ALLORA E QUELLA DI OGGI.....CHISSA' COSA AVREBBE DETTO PASOLINI 

La meglio gioventù ci rivela non un altro Pasolini ma il suo volto vero e autentico: quello del poeta che persegue in altro modo (attraverso la poesia) la sua scarnificazione della realtà e la sua attenzione verso le classi subalterne in particolare la gioventù e la bellezza diventano delle dimensioni temporali ed esistenziali che costituiscono l'unica vera dote di chi non ha altro da scambiare. 
E se la meglio gioventù fu falcidiata nelle trincee della Prima Guerra Mondiale, quell'evento terribile si è ripetuto infinite volte non solo nelle guerre, ma in tutte le situazioni in cui la gioventù e la bellezza vengono usate dal potente come merce di scambio, chissà cosa avrebbe detto Pasolini sulla carne giovane e bella utilizzata come unico metro di giudizio per fare carriera nel mondo dello spettacolo e della politica. 
Chissà cosa avrebbe detto Pasolini su quelle pletore di giovani che bruciano la loro meglio gioventù sull'altare dell'effimero e delle notti dei festini a casa dei miliardari, chissà cosa avrebbe detto su quest'orda di mercenari assetati che assomigliano a ragazzini viziati.....appunto la meglio gioventù. 
E la " meglio gioventù va soto tera" canta come un lirico antico Pasolini, una poesia che ci rivela ancora una volta quel mondo massificato e votato al consumo in opposizione con l'autentica tradizione della cultura italiana, quella contadina, tradita dai suoi stessi figli attratti dal lucicchio delle grandi città e ammaliati da un progresso che sempre brucia la gioventù e la bellezza e verso queste sirene Pasolini mostra tutto il suo timore che si trasforma in orrore. 
E se ripensiamo allo sconcertante modus operandi dei nostri giorni i mix pericolosissimi di queste attrattive che si servono di "Amici" e "Grandi Fratelli" comprendiamo l'orrore di Pasolini che aveva ben compreso il giro economico redditizio e vorticoso che gira intorno alla meglio gioventù, non ci sono più guerre in cui la "gioventù va sotto tera", ma ci sono altri insidiosi e più pericolosi suonatori di cetra capaci di bruciare le energie più fresche attraverso l'attrattiva del facile guadagno. 

Esistono due edizioni de "La meglio gioventù", la prima redatta nel 1954 e che raccoglie le poesie scritte nel 1941 a Casarsa in Friuli e la seconda scritta tra il 1973 e il 1974 che oltre a un corpus di nuove liriche è più aderente allo spirito dei tempi, ma in entrambe le edizioni emerge la diversità di Pasolini, una diversità antropologica che non è quellla scontata della omosessualità, ma del suo non essere stato mai un intellettuale organico, quando Pasolini diceva di "di non saperne di croci" intendeva una cosa molto precisa, la sua rivendicazione totale di intellettuale libero, di battitore senza padroni, ma comunque impregnato di spirito religioso, quel suo "Signore, siamo soli.." è un grido di aiuto e un atto di protesta, è un accorato rivolgersi a Dio quando constata la solitudine dell'uomo, quando scriveva queste belle poesie Pasolini aveva solo diciannove anni e se di diversità bisogna parlare questa (a parere mio) andrebbe esclusivamente intesa nell'abissale distanza che separa una buona parte della gioventù odierna dalla sua precoce sensibilità. 
Stessa religiosità la avvertiamo in uno dei versi più belli presenti nella raccolta «Verrà il vero Cristo, operaio, a insegnarti ad avere veri sogni", è forse questo l'aspetto meno noto di Pasolini che fu forse visionario, ma anche profetico e impregnato di una religiosità autentica quella che ritroviamo nella gente contadina della sua terra. 

La seconda edizione de "La meglio gioventù" venne pubblicata nel 1975, nello stesso anno morì tragicamente, la sua morte a distanza di oltre 36 anni è avvolta ancora nel mistero, anche in questo fu profeta. 

 

 

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Published by Caiomario - in Libri
14 luglio 2012 6 14 /07 /luglio /2012 16:52

Recensendo un'opera di Gozzano poco conosciuta (vedi: http://www.condividendoidee.it/article-la-via-del-rifugio-guido-gozzano-89024390.html) "La via del rifugio"  ho rilevato come il poeta e scrittore torinese fosse un amante della parola che sapeva padroneggiare non di meno di D'Annunzio al punto che quando si cerca di mettere un'etichetta sulla sua opera si rischia di ridurla a una mera connotazione scolastica, anzi per dirla con Montale, Gozzano è stato in grado di far "scoccare le scintille" al punto che nel suo stile letterario si incontra l'aulico e il prosaico e chi legge attentamente le sue pagine si trova davanti ad un autore che cita continuamente altri autori e lo fa con uno stile e una descrizione che spesso sfiora il preziosismo. 

IL VIAGGIO IN INDIA, RESOCONTO DIARISTICO CHE CI RIVELA IL GOZZANO ATTENTO OSSERVATORE DELLA REALTA' 

Oltre al Gozzano poeta, c'è quello letterario che ho trovato particolarmente interessante in quei testi minori come "Verso la cuna del mondo" che ci rivela un autore curioso ben diverso da quello stereotipato definito, con un malcelato senso di commiserazione, "crepuscolare" inteso come sinonimo di triste e ripiegato in se stesso, si è vero Gozzano fu anche questo, ma è prima di tutto un autore ironico che prende in giro anche se stesso anzi, aggiungo che certe pagine ci introducono in un mondo a lui contemporaneo visto attraverso la lente speciale di chi lo visse e lo soffrì , sembra che per Gozzano lo scrivere avesse una funzione consolatoria e che lo aiutasse a proteggersi da un altro modo di intendere la letteratura; taluni critici hanno parlato della scrittura di Gozzano come una forma di autocontrollo, in parte è vero ma se leggiamo "Verso la cuna del mondo" appare una personalità attenta ad osservare la realtà e a rilevarne quegli aspetti non immediatamente rilevabili che sfuggono ai più. 

Nel primo capitolo di "Verso la cuna del mondo" Gozzano descrive i lsuo soggiorno a Bombay, è curioso notare che sulla pagina iniziale troviamo annotata la data in cui scrisse queste pagine, il 3 dicembre 1912 ed è interessante anche la descrizione degli inglesi che in quel perido governavano l'India, parlando infatti dell'isola di Elefanta, Gozzano scrive " Gli inglesi vanno ad Eelfanta solo per due cose: mangiare e fare l'amore", non so come oggi sia l'isola di Elefanta ma a quanto pare nel resconto di viaggio di Gozzano viene definita come l'isola di Cuccagna in cui si vedevano solo coppie amorose che facevano dei pic nic. 
Nel suo racconto sembra di sentirle le urla e gli odori acri di Bombay e di vedere una città brulicante dove all'epoca attraccavano navi provenienti da tutto il mondo e sembra di vedere quella sterminata umanita ( allora come oggi) che Gozzano definisce "peschereccia" perchè usa a dedicarsi alla pesca come attività economica principale. 
Particolarmente gustose sono le descrizioni, veri e propri quadretti che potrebbero essere utilizzati per il cinematografo come l'episodio di una signora bionda che sbarca da un piroscafo e viene solevata da terra da due giganti e che a Gozzano ricorda "una romana della decadenza, una flava coma contesa da due schiavi nubiani poco irriverenti". Questi passaggi ci rivelano una grande capacità di osservazione che ricorda alcuni dei resoconti di viaggio dei navigatori dell'epoca e che troviamo con questa dovizia di particolari solo in Emilio Salgàri che fu colui che più utilizzò i diari di viaggio per descrivere quei luoghi lontani. 
Il gusto di raccontare la quotidianità: per esempio ho appreso dei particolari sul comportamento degli indù che spiegano molte cose della loro mentalità, Gozzano racconta che quando scaricavano dalle navi mercantili della merce, cantavano nonostante il lavoro pesante che stavano facendo, leggete con quali parole Gozzano descrive questa attività: 

"E' una melopea a denti chiusi, che nell'attimo dello sforzo o dell'intesa si accentua con un ritmo più forte e produce nell'insieme l'effetto di una orchestra ronzante, monotona non priva di dolcezza" . 

In questa illustrazione Gozzano affronta gli argomenti quasi con lo spirito dell'etnologo ottocentesco ( ma non poteva essere diversamente ) senza dubbio alcune connotazioni stonano con la sensibilità attuale, ma dobbiamo considerare che queste pagine furono scritte nel 1912 e che pertanto Gozzano non poteva conoscere le posizioni che l'antropologia avrebbe assunto sul cosiddetto "etnocentrismo". 

Il libro si compone di 15 capitoli., tutti deliziosi, non c'è solo letteratura ma un vero e proprio resoconto che assomiglia a una fotografia, una sorta di istanea che ferma il tempo in quel momento esatto, il 1912; in particolare segnalo un capitolo intitolato "Agra: L'Immacolata", leggendolo si comprende la spiritualità indiana, sono passati quasi 100 anni da quando Gozzano scrisse queste splendide pagine, la spiritualità indiana è rimasta sempre la stessa ed è interessante vedere come abbia attraversato un secolo senza subire contaminazioni esattamente come il tempio di Tai-Mahal che Gozzano ci presenta con parole che assomigliano al tocco lieve del pittore che sa fare capolavori. 

Libro consigliato in particolare a chi scrive di viaggi, quello di Gozzano è uno straordinario resoconto di grande valore letterario. 

 

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14 luglio 2012 6 14 /07 /luglio /2012 11:14

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RACCONTI DEL TERRORE, RACCONTI DELL'INCONSCIO 

"Aspettami là! Non mancherò 
di raggiungerti in quella valle cupa

Esequie in morte della moglie, 
HENRY KING, Vescovo di Chichester 

La lettura dei racconti del terrore di Edgar Allan Poe ci introduce all'interno di un labirinto immaginario dal quale è impossibile uscire, appena ci si immerge nella lettura delle storie, ci si sente avviluppati da un morboso desiderio di andare avanti dalla prima all'ultima riga. 
Poe è stato il più straordinario affabulatore di racconti orrifici, un visionario in grado di entrare in un universo delirante che alberga all'interno della psiche umana e che non è immediatamente rilevabile se non con un processo di scarnificazione che fa venire alla luce ciò che si cela all'interno di quella parte dell'io che più crea sofferenza: la paura della morte. 

Tutti i racconti del terrore sono un dialogo della follia con la morte, un dialogo che l'uomo ha sempre cercato e che nella letteratura ha trovato la sublimazione della paura; il riferimento più antico è rintracciabile in Omero dove si narra la discesa di Ulisse nell'Ade, luogo in cui incontra le anime dei defunti, un luogo di infinita tristezza che rappresenta la desolazione infinita che circonda la morte vista come condizione in cui il corpo si dissolve ma in cui permane la coscienza e l'individualità dell'anima. 

LA DISCESA NELL'ADE, OMERO E POE 

Vale la pena ricordare il famoso episodio in cui Ulisse, disceso nell'Ade, incontra l'ombra di Achille e durante il colloquio gli dice: 

"...quando eri vivo rendevamo onori come agli dei, ed ora che sei qui hai grande potere sui morti: perciò non crucciarti di essere morto, o Achille" 
allora Achille gli da una risposta terribile: 
"On no non lodarmi la morte, glorioso Odisseo; vorrei contadino essere servo d'un altro, presso un uomo sia pure senza fortuna,che molto non abbia per vivere,sì piuttosto che essere il re di tutti i morti,sfiniti così come sono" (Odissea Libro XI) 

Nella morte, questo è il messaggio di Omero, non c'è conforto nè sollievo ma solo disperazione, quest'idea della morte è il collegamento tra il modo in cui era concepita la morte dai greci e come la pensava Poe. 

IL MECCANISMO NARRATIVO DEI RACCONTI 

Come in Omero vi è un collegamento tra il reale e il mondo 
ultraterreno, così in Poe si sviluppa e si dispiega questo meccanismo: l'inizio di ogni racconto parte dall'ordinario, dalla vita di tutti i giorni con i suoi meccanismi quotidiani e ripetitivi poi riga dopo riga ci si trova immersi in un ritmo incalzante dove si confondono i due piani, quello della vita reale e quello dell'inconscio, la morte diventa il reale, si scopre così che le vie dell'inconscio imboccano diverse destinazioni: l'uomo scopre di essere mutevole, sente di essere esposto a forze oscure e di esserne influenzato e questa consapevolezza lo fagocita completamente sino a fargli perdere la ragione. 
Il bene diventa male e la via della riflessione è incapace di dare delle spiegazioni razionali e convincenti, la bravura di Poe è proprio questa riesce a fare scattare nel lettore un processo di indentificazione per cui la similitudine del racconto con quello che ognuno è e sarà porta a vedere, ad esempio, nel fantasma di questo o quel personaggio tutti i fantasmi delle persone care a ciascuno, il lettore stesso è persuaso che la comunicazione tra chi vive e chi è morto è possibile, la vita quindi porta un'impronta divina, duratura e ogni azione assume così un valore sovrapersonale, l'ultraterreno trova così un suo riconoscimento, la morte stessa incombe istante dopo istante e nessuno può sfuggire al suo destino, il richiamo a Omero è ancora illuminante, 

Ettore congedandosi da Andromaca prima della battaglia finale dice: 

"Non rattristarti troppo il cuore:nessuno mi farà scendere nell'Ade contro la volontà del fato. Poichè nessuno, vile o valoroso che fosse, è mai sfuggito, dappoichè nacque, al proprio destino". 

Così in Poe nessuno sfugge al proprio destino, il lettore stesso è vittima di questa perfidia del fato, viene catturato dal racconto, il racconto si impossessa del lettore che non riesce a reagire e che ha solo una strada obbligata: terminare il racconto. 

RACCONTI FUORI DAL TEMPO 

E' questa una delle caratteristiche più evidenti dei "Racconti del terrore", Poe colloca le vicende in una dimensione atemporale e se proviamo a riflettere sui temi trattati da Poe, ci si affaccia subito alla mente la parola "inconscio", il concetto di inconscio è relativamente moderno, si pensi ad esempio all'accezione junghiana ma già nella cultura classica troviamo una sovrapposizione di mito e realtà, si tratta quindi di una consapevolezza umana che rappresenta un bisogno stesso dell'uomo. 
Così Poe va oltre la dimensione temporale scegliendo di raccogliere i racconti in cinque gruppi tematici: 

  • Vendetta e assassinio 
  • Immaginario 
  • Morte 
  • Mistero 
  • Terrore 


Ci troviamo dinanzi a racconti dove il filo conduttore è unico, ogni racconto idealmente si riallaccia al precedente perchè in ogni racconto troviamo l'ipotesi più orrifica che da sempre attanaglia l'uomo, solo che ad accompagnarci in questo viaggio nell'immaginario non c'è Tiresia ( la guida di Ulisse nell'Ade9 ma Edgar Allan Poe. 

CREDETE NEGLI SPIRITI? 

Si è ormai verificato che numerose erano le conoscenze di Poe sull'esoterismo e sull'occulto e sicuramente il fascino che queste "discipline" ebbero sul suo modo di narrare varrebbe la pena di essere approfondito, resta il fatto che Poe procede ad esplorare i meandri oscuri dello spirito attraverso un metodi investigativo applicato alla narrazione per quanto non pervenga ad una dimostrazione matematica di quanto lui stesso crdesse. 
I racconti di Poe non sono certamente un trattato sistematico ma sistematico è il suo modo di procedere nelllo scandagliare l'animo umano, pertanto dinanzi alla domanda "credete negli spiriti?" si ha un certo timore nel rispondere negando con assoluta certezza. 

I "Racconti del Terrore" non nascono come opera organica ma costituiscono una raccolta di storie pubblicate a più riprese, una traduzione di racconti anonima apparve nel 1858, a Torino, sotto il titolo di "Storie orribili", sarà poi la critica letteraria ad assemblare queste storie dividendole per aree tematiche, anche se è possibile individuare una sequenza narrativa cronologica a cui lo stesso Poe si attenne. 

In ogni racconto vigono delle regole narrative ben definite: ogni tentativo di liberarsi dai morti è vano, gli spettri appaiono e comunicano con i vivi e talvolta cercano di condizionarne la volontà ma anche tutto ciò che è arcano per i vivi come la Morte.............l'ultimo racconto intitolato "Il pozzo e il pendolo" non è altro che l'attesa per un appuntamento certo di cui non conosciamo nè ora nè giorno. 


**** " Vacillai all'indietro verso il tavolo - la mia mano cadde su un calice annerito e incrinato - e la consapevolezza dell'intera terribile verità, mi balenò improvvisamente nell'anima"...........L'APPUNTAMENTO (con la morte)

Conclusione: Una raccolta che palpita di mistero

 

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13 luglio 2012 5 13 /07 /luglio /2012 05:34

IL CAPOLAVORO DI ELSA MORANTE 

Quando "Menzogna e sortilegio" è stato pubblicato nel 1994 per le edizioni Einaudi, la Morante era un'autrice affermata e questo bellissimo romanzo andava in giro da quasi mezzo secolo, avendolo letto qualche anno fa ho dovuto riprenderlo anche perchè la sua lettura va metabolizzata per via di una trama densa che ben a ragione la Morante pensò di dividere in sei parti. 

La storia è raccontata da una narratrice che è stata testimone di vicende vissute e tramandate e in particolare quelle avvenute prima della sua nascita. 
Elisa dopo essere rimasta sola alla nascita in seguito alla morte improvvisa della madre adottiva, la prostituta Rosaria, fa una ricostruzione di tutti i fatti e accadimenti che riguardano la sua famiglia originaria della Sicilia; è una storia che ripercorre un tempo cronologico piuttosto lungo e che riguarda tre generazioni vissute tra l'Ottocento e i primi del Novecento. 
Il titolo è anticipatore del tema dominante del romanzo che è il ricorso sistematico della menzogna da parte di una piccola borghesia che alla mistificazione unisce come tratto distintivo e caratteristico, la convenzione e la superstizione religiosa. 
C'è molta Sicilia gattopardiana in questa bella storia della Morante in cui i personaggi avvezzi alla teatralità sembrano recitare delle parti, ma accanto alla menzogna troviamo il sortilegio, nel senso di un incantesimo che sembra incombere su fatti e circostanze intorno alle quali Elisa cerca di trovare un senso, un filo conduttore che possa almeno spiegare in parte un destino al quale neanche lei sembra essere sfuggita. 

UN TEMA IN PARTE AUTOBIOGRAFICO 

Il tema della madre persa o comunque di un genitore che non si è conosciuto è stato un tema comune alla narrativa della Morante che aveva un padre adottivo e un padre naturale, questo tema ritornerà anche nel romanzo "L 'isola di Arturo" del quale parleremo in un prossimo articolo; in "Menzogna e sortilegio"il rapporto figlia-madri è ancora più complesso e in particolare la narratrice-testimone Elisa, nonostante la professione di meretrice della madre, si sente attaccata a questa madre che lei definisce "la mia sola amica protettrice" e verso la quale dimostra riconoscenza per averla allevata dopo la morte dei genitori naturali. 

LO STILE LETTERARIO DELLA MORANTE

Secondo taluni critici la Morante sarebbe una scrittrice tradizionale quasi a volere alludere ad una sorta di minorità rispetto, per esempio, anche allo stesso Moravia che si contraddistinse per originalità innovazione; eppure proprio questo suo essere aderente alla tradizione ottocentesca è a nostro parere il miglior pregio della Morante,spesso la sua scrittura rimanda all'immaginario descrittivo tipico della letteratura popolare ottocentesca come anche è ampio l'uso di termini desueti che rivelano una ricchezza conoscitiva della lingua italiana fuori dal comune. 

Nella prima delle sei parti , Elisa quale voce narrante, racconta il suo trovarsi come una sepolta viva nella casa in cui viveva con la madre adottiva, analizziamo alcuni punti per avere un'idea dello stile della Morante che permette di fruire anche di espressioni antiquate che non possono che affascinare il lettore colto: 

"La nuova luttuosa......", la notizia luttuosa , la Morante usa il termine nuova privilegiando il termine nel senso del significato etimologico, inteso come novitas, cosa nuova. 

"Mirare..." è preferito al termine contemplare ed è usato nel senso di guardare con attenzione ma anche di ammirare. 

Riportiamo questo passo: 

"Guardo la gracile, nervosa persona infagottata nel solito abito rossigno (non mi curo di portare il lutto), le nere trecce torreggianti sul suo capo in una foggia antiquata e negligente, il suo volto patito, dalla pelle alquanto scura e gli occhi grandi e accesi, che paion sempre aspettare incanti e apparizioni............" (Da "Menzogna e sortilegio") 

Bellissima la scelta dell'aggettivo "rossigno" al posto di rossiccio,"torreggiante" nel senso di qualcosa che sale come una guglia, come una torre, la pettinatura disordianta diventa "una foggia antiquata e negligente". 

Il non facile esercizio mnemonico può però sostituire la chiarezza dello spirito delle aggettivazioni usate dalla Morante e questo spingerà il lettore ad arricchire il suo lessico che potrà comunque impiegare nel suo giusto senso. 

La Morante ricorre anche a complesse similitudini che spingono il lettore a comprtendere, come ad esempio in questa espressione: 

"Senza pretendere ad altro merito, incomincerò col dirvi che la mia madre adottiva, fu, dopo la mia madre vera, la persona da me più amata. Or il mio cuore potrebbe rassomigliarsi a quegli antichi Principati in cui per il popolo vigrva una diversa legge che per i Grandi: si che questi erano in certo modo inattaccabilinon soltanto dal castigo,ma addirittura dalla colpa. E quelle medesime azioni che agli umili eran delitto, eran lecite e giuste ad essi" 

Il ricorso alla similutidine, lunga, densa e articolata è un altro dei tratti distintivi della Morante che riesce a creare dei rapporti tra i significati delle parole tali da suscitare l'attenzione da parte del lettore. 

Rispetto ad un altro grande romanzo come la "Storia" , la Morante sembra privilegiare in "Menzogna e sortilegio" più la prospettiva interiore, il monologo sempre comunque provocato da eventi esterni per quanto avvenuti nel ristretto ambito familiare. 

Un altro aspetto del romanzo che rivela una delle componenti della prosa della Morante è il narrare come favolare e questo soprattutto quando parla del sortilegio in cui emergono aspetti strani, meravigliosi e fantastici che finiscono con conferire all'intero racconto un'atmosfera irreale in cui ogni dimensione del reale viene oltrepassata evocando la l'inconscio dell'uomo e della sua realtà psicologica. 



PS: Prima di leggere improbabili autori e autrici che scrivono storie dozzinali e il cui successo è pilotato per attirare i gonzi che cadono regolamente nella rete del tam tam editoriali..riscopriamo i nostri autori e le nostre autrici che hanno scritto bellissime pagine di letteratura.

 

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13 luglio 2012 5 13 /07 /luglio /2012 04:54

 

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CESARE MORI: UN RITRATTO CHE RENDE GIUSTIZIA 

Arrigo Petacco è un autore prolifico che ha scritto numerose opere di interesse storico e quello che contraddistingue il suo scrivere di personaggi, fatti e vicende è che le sue opere pur non essendo storiche sono sempre rigorosamente documentate. 
Quello di Petacco è un pregio che possedeva un altro grande del giornalismo come Indro Montanelli quando raccontava di storia, non c'è dubbio che gli storici di professione storceranno il naso sul fatto che possa definirsi storica, l'opera scritta con intento divulgativo e che quell'indulgere alla storia romanzata non sia da tenere in considerazione, ma l'eccessiva severità degli accademici ignora che il genere divulgativo può essere altrettanto rigoroso e onesto quanto un libro di storia e che in più ha il vantaggio di non essere mai noioso. Petacco nel suo libro dedicato alla figura di Cesare Mori è riuscito a coniugare rigore e gradevolezza con la capacità di suscitare interesse , caratteristica questa che solo i grandi biografi riescono a realizzare. 


Il prefetto di ferro. L'uomo di Mussolini che mise in ginocchio la mafia di Arrigo Petacco è prima di tutto un libro interessantissimo perché costituisce l'occasione per ristabilire delle verità volutamente ignorate sul fenomeno mafia, su come il fascismo cercò di combatterla e sulla figura di Cesare Mori che il 23 ottobre 1925 venne nominato prefetto di Palermo. 

Chi era Cesare Mori? Cesare Mori era un uomo delle istituzioni, non era un fascista ma era un uomo integerrimo e onesto. 
Piccolo di statura era un duro, ma un duro intelligente che sapeva destreggiarsi di volta in volta in tutte le situazioni in cui veniva minacciato l'ordine dello stato, un grande poliziotto con una visione ampia comunque non un repressore buono per tutte le stagioni ma un uomo attentissimo alla società e ai suoi risvolti culturali. 
La mafia ha sempre avuto come caratteristica distintiva un preponderante aspetto delinquenziale i cui codici di iniziazione erano e sono quelli di una cultura contadina in cui la forza è concepita come l'unico modo per risolvere le controversie. 
Mori aveva capito che la mafia ha il consenso e che il modo migliore per combatterla era "togliere l'acqua ai pesci", per cui se i capomafia e i mafiosi erano spazzati via senza pietà, dall'altra parte solo ragionando con la mentalità dei siciliani poteva sottrarre alla mafia quel terreno in cui era facile reclutare nuovi aderenti. 
Sicuramente un metodo primitivo ma efficace che lo stesso Mussolini condivideva al punto da dare carta bianca a Mori che non deluderà le attese del governo fascista. 
Mori faceva terra bruciata intormo ai capimafiosi colpendo quel reticolo di connivenze familistiche che da sempre permette ai mafiosi di operare nel loro territorio che costituisce la base logistica da cui vengono prese tutte le decisioni, oggi forse sarebbe inconcepibile arrestare tutti i parenti di un mafioso per constringerlo a consegnarsi, ma Mori non badava troppo per il sottile quando si trattava di raggiungere un risultato. 

Ieri come oggi però la mafia ha sempre usato il potere politico per raggiungere i suoi scopi sia attraverso il ricatto sia attraverso la correità di esponenti politici collusi. 
Noto è il contrasto che Mori ebbe con il numero uno del fascismo palermitano, Alfredo Cucco, mafioso corrotto e colluso il quale venne espulso dal PNF quando sul tavolo di Mussolini arrivò il dossier di Mori che riguardava gli illeciti dello stesso Cucco.

Mori non era fascista ma il Fascismo lo riteneva la persona migliore per combattere la mafia che avrebbe potuto destabilizzare il potere stesso di Mussolini, quindi l'azione del prefetto di ferro non era una semplice lotta alla criminalità organizzata ma una lotta senza quartiere a tutti coloro che avevano costituito un potere all'interno dello stato e che se ne servivano. 
Se la lotta alla criminalità organizzata per riuscire deve essere prima di tutto lotta politica, questo accadde con l'attività prefettizia di Mori, la mafia era vista allora come una setta di iniziati sostenuta dai circoli di potere dei notabili siciliani, quindi colpire la mafia significava colpire ogni possibile forma di concorrenza. 
Mori di questo si fece interprete utilizzando sistematicamente la retata e il ricatto nei confronti di tutti coloro che, in un modo o nell'altro erano collusi con i mafiosi. 

Ed è proprio di questo periodo l'istituzione di maxiprocessi, del ricorso sistematico al confino che si scontava in un'isola, delle retate e del ricatto quale strumento di pressione nei confronti dei mafiosi, tutte questi mezzi risultarono efficaci e in quattro anni di attività prefettizia (1925-1929) Cesare Mori aveva inferto dei colpi micidiali alla mafia che ne uscì fuori prostrata e comunque, è un dato storico che non può essere messo in discussione rialzò la testa a partire dallo sbarco angloamericano in Sicilia, molti mafiosi tra cui Lucky Luciano collaborarono con i servizi segreti americani da quali ebbero protezione e grazie ai quali poterono riprendere quella forza che il prefetto di ferro aveva smorzato. 

Petacco sviluppa la storia dell'epopea di Mori arricchendola di aneddoti, facendo conoscere molti episodi di microstoria e soprattutto pennellando un ritratto psicologico del personaggio che era un duro ma un duro onesto ed integerrimo, un incorruttibile temuto dai mafiosi che non conosceva la parola pietà, la sua azione venne favorita dallo Stato perchè possono cambiare i regimi ma se c'è uno Stato che ha pezzi deviati che scendono a compromessi con la mafia, nessuna azione risulterà veramente efficace. 




 


 

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12 luglio 2012 4 12 /07 /luglio /2012 11:42

 

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RITRATTO DEL ROMAGNOLO SANGUIGNO CHE MORI' CON L'ANTICO COMPAGNO DI UN TEMPO, FU AMICO DI LENIN E DI MUSSOLINI 

Il libro "Il comunista in camicia nera" di Arrigo Petacco è un'occasione per conoscere la vita di Nicolino Bombacci il cui nome probabilmente sarebbe caduto nel dimenticatoio se non fosse stato giustiziato a Dongo il 28 aprile 1945. 
Con il consueto stile giornalistico che inviata alla lettura, Petacco delinea un ritratto di Bombacci antico compagno socialista di Mussolini e che rappresentava l'anima sociale del fascismo, quella forse più aderente ai valori originari che coincidevano con quelli della storia personale di Mussolini. 

Si ignora il motivo per cui Bombacci da comunista approdò al fascismo in un momento in cui era ormai morente, il 25 aprile 1945 decise di aggregarsi alla colonna di auto che partì dalla prefettura di Milano, salì sulla stessa vettura di Mussolini e giustificò la sua decisione con una frase diventata celebre "Dove va lui, vado io". 
Spirito lucido dall'umorismo salace e dalla battuta pronta, vestito in giacca e pantaloni a righe, in quell'occasione Bombacci ricordò che lui di fughe era esperto, rievocando un'altra situazione estrema vissuta con Lenin quando osservava le truppe di Judenic che bombardavano Pietroburgo: "Le cannonate facevano tremare i vetri, e la situazione era quasi la stessa di questa. Ma ora è peggio". 

Questo è il tragico epilogo a cui volle andare incontro Bombacci, ma chi era Bombacci? 
Per capire il personaggio bisogna andare ai tempi della sinistra socialista ( quella da cui si originò il Partito Comunista Italiano), nei giorni della disfatta di Caporetto e della resistenza sul Piave, si verifica la presa di potere in Russia da parte dei bolscevichi capeggiati da Lenin
Angelica Balabanoff accorse a Mosca per diventare uno delle più strette collaboratrici di Lenin, assumendo la segreteria della III Internazionale
Nello stesso periodo, Bombacci venne arrestato e condannato insieme a Lizzari, in quel momento ricopriva la carica di vicesegretario del PSI, l'accusa era quella di attività sovversiva e disfattismo, un'accusa molto simile a quella che oggi va molto di moda e che si usa definire di "sentimento anti italiano". 

Il 15 gennaio 1921 si aprì il congresso socialista a Livorno che vedeva da una parte i riformisti come Filippo Turati, Claudio Treves, Giuseppe Emanuele Modigliani e dall'altra parte la corrente dei comunisti rivoluzionari capeggiati da Nicolino Bombacci e Antonio Gramsci, questa è la realtà storica, purtroppo il nome di Bombacci colpito dalla "damnatio memoriae" che accompagna tutti gli eretici è stato spesso omesso dalle storie ufficiali che riguardano il Partito Comunista Italiano e questo solo per un motivo, la sua adesione alla RSI. 
Ma insieme a Gramsci,Togliatti, Longo,Terracini, Camilla Ravera, Vidali c'era lui, il comunista intrasigente e visionario, filorusso al punto da lavorare per l'ambasciata russa in Italia. 

L'ADESIONE ALLA RSI 

Uno dei documenti più importanti che venne redatto durante il breve periodo della RSI fu il cosiddetto "Manifesto di Verona" che contiene 18 punti sui quali Bombacci rivendicò la paternità, il contenuto sociale di quel documento è innegabile. 
Un documento socialista e massimalista sul quale è riconoscibile l'impronta di Bombacci : oltre al riconoscimento dei diritti civili più importanti e dell'indipendenza della magistratura, il lavoro diventava il soggetto più importante dell'economia, lavoro che doveva essere sottratto allo sfruttamento sistematico del capitale. 

LA COGESTIONE (L'IDEA DI NICOLINO BOMBACCI CHE NESSUN INDUSTRIALE ITALIANO ATTUALE VORREBBE MAI APPLICARE) 

Recentemente da più parti si è parlato della cogestione nelle aziende e della partecipazione degli utili nelle aziende, la Confindustria ha immediatamente espresso la sua contrarietà ribadendo che la gestione delle aziende spetta solo alla proprietà, a quanto pare l'idea della cogestione proposta da Bombacci era così rivoluzionaria che ancora oggi si ha paura di questa soluzione che consentirebbe di realizzare la vera rsponsabilità nel lavoro. 

***Secondo "LA CARTA DEL LAVORO", gli operai debbono essere immessi nella responsabilità della gestione delle aziende (cogestione) e partecipare agli utili, è il punto cardine della socializzazione che sottrae il lavoro allo sfruttamento delle forze produttive. 
In agricoltura le terre debbono essere redistribuite se i proprietari non le utilizzano. 
TUTTI AVRANNO DIRITTO ALLA CASA ED AL LAVORO E AL TRATTAMENTO PENSIONISTICO. 

Queste erano le idee di Nicolino Bombacci che in quei giorni tragici correva da una parte all'altra a tenere comizi per illustrare le sue idee agli operai, un bolscevico che seguì l'antico compagno socialista e che prima di cadere sotto la granaiuola di proiettili sparati da oltre 500 partigiani avrebbe gridato: "Viva Mussolini, Viva il Socialismo". 

Senza dubbio dalla vita di Bombacci di cui Petacco fa un ritratto aderente alla realtà storica emergono tanti di quegli episodi sconosciuti che permettono di vedere,oggi, il rivoluzionario romagnolo come un uomo dalle idee avanzatissime al punto che in molte aziende si applicano i principi della cogestione ( ma non nelle aziende italiane) in quanto solo nella responsabilità il lavoro può crescere, solo nella responsabilità l'economia di una nazione può competere. 

***Con Pomigliano nasce l'esperimento di "serbizzare l'Italia", molti lavoratori per conservare il posto di lavoro hanno accettato le condizioni imposte da Marchionne, alcuni sindacati hanno parlato di modernizzazione dell'Italia, troppi politici hanno applaudito all'iniziativa senza precedenti........Bombacci avrebbe proposto la socializzazione, la terza via oltre il fascismo e oltre il comunismo..... 

Il sistema della cogestione nelle aziende è oggi applicato in Germania, un tentativo ben riuscito di democrazia economica che a quanto pare i sindacati italiani ignorano..e poi parlano dei diritti dei lavoratori! 


Arrigo Petacco, Il comunista in camicia nera. Nicola Bombacci fra Lenin e Mussolini, Milano, Mondadori, 1996

 Hanno paura delle idee di Bombacci, ma le idee non possono essere uccise dai plotoni di esecuzione.

 

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