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12 luglio 2012 4 12 /07 /luglio /2012 06:08

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Fonte immagine: https://www.flickr.com/photos/12403504@N02/10997776524

 

 

 

 

EMILIO UN TESTO MULTIDISCIPLINARE 

"Emilio" è l'opera di eccellenza del pensiero di Jean-Jacques figura indecifrabile e per certi versi, misteriosa dell'Illuminismo francese al punto che molte sue posizioni bizzarre si distaccano dalla riflessione dei filosofi dell'Enciclopedia. Non fu quindi un intellettuale organico al movimento dei Lumi per quanto i suoi rapporti di amicizia con Diderot ne abbiano in parte orientato le riflessioni. 
In ambito filosofico la portata delle concezioni de L'Emilio è stata sottovalutata per molto tempo in quanto l'opera è stata vista più come un testo pedagogico che strettamente filosofico, ma nell'opera confluiscono anche meditazioni di carattere psicologico e sociologico. Il senso dell'opera va quindi rintracciato nel profondo convincimento di Rousseau che non può essere esservi libertà ed eguaglianza nella società se non si punta alla formazione della personalità dell'educando. 

I CONTENUTI DEL TESTO

L'Emilio venne pubblicato ad un anno di distanza dal "Contratto sociale", tra le due opere esiste una continuità in quanto L'Emilio delinea un modello di uomo nuovo e nel Contratto sociale viene prospettato un modello di comunità che si fonda proprio sul concetto di cittadino così come viene illustrato nella prima opera. Per Rousseau non vi può essere quindi alcuna rivoluzione sociale senza un profondo rinnovamento individuale, il processo di mutamento parte da una prospettiva antropologica individuale che è sempre politica per poi diventare sociale. Quella prospettata dal ginevrino è la base di ogni stato etico e molti dei principi da lui espressi si possono prestare a degli equivoci perché i totalitarismi si basano proprio sul concetto di educazione degli individui che devono essere forgiati secondo i valori espressi dallo Stato. 
Tali finalità non possono essere però ricondotti esclusivamente ai totalitarismi ma costituiscono la base di ogni comune convivenza, in un sistema democratico, ad esempio, non possono esistere valori condivisi e convissuti se non c'è educazione degli individui ossia se le istituzioni non preparano le nuove generazioni ad essere cittadini. 
Rousseau stesso non ha mai espresso l'idea che l'educazione del singolo debba essere avulsa dalla società e debba costituire un'attività fine a se stessa, per il pensatore ginevrino il bambino di oggi sarà il cittadino di domani; per preparare quindi l'uomo che verrà è necessario formarlo. 
La necessità e il valore dell'educazione sono in questo senso un'opera politica, afferma a tal proposito Rousseau: 

"Vivere è il mestiere che gli voglio insegnare. Uscendo dalle mie mani, egli non sarà, ne convengo, né magistrato, né soldato, né soldato, né prete; sarà prima di tutto uomo: tutto quello che un uomo dev'essere, egli saprà esserlo, all'occorrenza, al pari di chiunque; e per quanto la fortuna possa fargli cambiare condizione, egli si troverà sempre nella sua". 

Il compito dell'educatore è quello di favorire lo sviluppo della personalità del bambino e di favorire la sua coscienza pratica e riflessiva, senza questi due elementi il bambino non può sviluppare il suo spirito. 
Rousseau vede l'uomo come un essere dinamico in continua formazione, una formazione che deve essere organica e non parziale e che deve riguardare ogni aspetto dell'essere uomo. 
Bisogna quindi rispettare l'istinto naturale dell'uomo che per Rousseau è un istinto buono (è la società che è cattiva) evitando accuratamente che l'individuo inglobi le deformazioni tipiche della società civile. 

L'EDUCAZIONE INTEGRALE

Non può esservi una buona opera educativa senza che vengano considerati tutti gli aspetti dell'individuo a partire dalla sua parte sensoriale, un sano sviluppo psichico e una maturazione per ciò che concerne l'apprendimento avviene quindi rispettando i bisogni del bambino. 
***Il bambino non può essere considerato un piccolo uomo nel senso di un uomo in miniatura ma è un essere che ha una sua personalità nei cui confronti vanno adottati dei metodi pedagogici che rispettino le sue caratteristiche. 

EMILIO, LA CAMPAGNA E IL PRECETTORE 

Chi affronta la lettura de "L'Emilio" non troverà un noioso trattato pedagogico ma un romanzo filosofico in cui viene raccontata la storia di un bambino che rimasto orfano, viene affidato alle cure di un educatore. 
Perché Rousseau sceglie proprio la campagna? Perché proprio in un contesto agreste il bambino non è soggetto agli influssi corruttivi della società civile e può stare in diretto contatto con la natura. 
Per Rousseau quindi una sana educazione può avvenire solo rispettando i ritmi che favoriscono lo sviluppo naturale della personalità del fanciullo e ciò deve avvenire senza forzature evitando di inculcare qualsiasi tipo di dovere sociale. 

LE TAPPE DELLO SVILUPPO DELLA PERSONALITA' 

Rousseau delinea quattro periodi che devono essere tenuti in considerazione dall'educatore: 

  • L'ETA' INFANTILE: E' il periodo in cui vengono articolate le prime parole e i primi discorsi che permettono di interloquire con gli altri; 

 

  • L'ETA' DELLA PRIMA INFANZIA E DELL'INFANZIA ( LA PUERIZIA): va dai tre ai dodici anni; 

 

  • L'ETA' DELLA PRE-ADOLESCENZA: viene definita dal pensatore ginevrino "età dell'utile"; 

 

  • L'ETA' DELL'ADOLESCENZA: è il periodo in cui avviene una seconda nascita. 


Nell'Emilio ad ogni periodo viene dedicato un libro, di particolare interesse è l'ultimo che viene dedicato alla scoperta dell'amore e all'educazione della donna. 


   

 Ci siamo interessati di pedagogia in ambito filosofico e a parte il giudizio sulle  numerose bizzarrie che Rousseau espresse per quanto riguarda i metodi da impiegare nella formazione educativa, siamo fermamente convinti che lo sviluppo di una coscienza pratica e riflessiva porti ad una maggiore consapevolezza di se stessi e del nostro ruolo all'interno di una famiglia, di una comunità oppure in un contesto lavorativo, sportivo ecc.

Senza educazione diventiamo strumenti ignari di tutti e perdiamo la possibilità di essere partecipi almeno della consapevolezza di quello che accade intorno a noi. 
Molti credono che lo studio e l'educazione debbano per forza portare ad una monetizzazione della cultura, ci spieghiamo meglio: è ormai diffusa l'idea che lo studio debba essere spendibile per una professione che "tira" per cui se non si studia ingegneria, fisica e matematica tutto il resto della scienza non conta. In questa assurda gerarchia delle conoscenze chi studia lo fa ormai solo per fini professionali e questo porta a dei disastri sul piano sociale perché si ignora il centro della problematica roussoiana; senza consapevolezza pratica e critica non vi può essere coscienza morale e questo accade, ad esempio, al medico che "commercializza" il proprio sapere per fare soldi sulla saute degli altri, all'ingegnere che non progetta le case secondo scienza e coscienza, all'insegnante che ha come unico obiettivo quello di arrivare a fine mese, al politico che agisce solo pro domo sua ecc. Gli esempi sono infiniti e l'elenco comprende tutte le categorie professionali. 
Rousseau sosteneva che Emilio doveva essere in grado di controllare le proprie capacità e che tale capacità fosse essenziale per convivere con gli altri uomini; il pensatore francese affrontò alla radice proprio i temi dell'egoismo e dell'arrivismo vedendo in essi la causa di una cattiva società. 
Ma è la società stessa che favorisce l'insorgere di questi "vizi" e l'idea che la società cattiva faccia nascere uomini cattivi è proprio l'idea di fondo della riflessione roussoiana. 

L'EDUCAZIONE NEGATIVA E I MAMMONI 

Con un educazione negativa si favoriscono solo gli impulsi peggiori e il vizio prevale sulla virtù dimenticando che i doveri dell'individuo devono sempre rivolgersi al di fuori della propria sfera personale, senza questo "imperativo educativo" c'è solo la disgregazione della società e di ogni forma di convivenza civile. 
Secondo Rousseau educare un bambino significa non inculcargli dei valori ma tenerlo lontano da influenze negative, chiaramente questa scelta è già di per se un valore perché è l'educatore che sceglie cosa è negativo o positivo, però trovo che in questo principio di fondo ci sia una buona dose di saggezza. 
In questo senso l'educazione negativa nel senso che insegna a tenersi lontani dall'errore è utile per tutta la vita perché favorisce lo sviluppo della prudenza. 

Scrive Rousseau: "La prima educazione dev'essere puramente negativa. Essa consiste non già nell'insegnare la virtù e la verità, ma nel garantire il cuore dal vizio e la mente dall'errore". 

Cosa bisogna fare allora nella prima fase dell'educazione? Nulla assolutamente nulla, bisogna portare il bambino fino all'età di dodici anni sano e robusto perché -secondo Rousseau- l'uomo ha in sé la ricchezza e la forza per autosvilupparsi. 
Su questo punto non mi trovo completamente in sintonia con Rousseau, ma bisogna accogliere la parte positiva che c'è in questa concezione perché solo permettendo lo sviluppo della personalità di un individuo gli si permette di crescere al pieno delle sue potenzialità. Un'educazione compressa non fa maturare il bambino che da adulto dipenderà sempre da qualcuno e da qualcosa: se uomo vedrà in una donna una madre, se donna vedrà in ogni uomo il padre. 

Si può pilotare l'educazione? Si per Rousseau ma favorendo lo sviluppo positivo, ossia indirizzando il bambino verso le cose concrete come, ad esempio, imparare un mestiere ossia verso un lavoro pulito ed onesto? 

Non sarebbe il caso allora di rispolverare il vecchio filosofo e abbandonare gli esempi negativi che stanno facendo tanti danni nella mente dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze che saranno uomini e donne di domani? 

Concludiamo con questo interrogativo rivolto ai lettori: ognuno si dia la sua risposta, del resto Rousseau diceva che non bisogna inculcare i doveri ma un vecchio proverbio dice: "Chi è causa dei suoi mal pianga se stesso".....

 

Emilio: Il piacere di leggere un romanzo filosofico.

 

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Published by Caiomario - in Filosofi: Rousseau Jean Jacques
12 luglio 2012 4 12 /07 /luglio /2012 05:47

 

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FRANTUMO' TUTTI I VALORI DEL PASSATO 


*Premessa 
Con un discreto imbarazzo parlo di Filippo Tommaso Marinetti, soprattutto considerando il fatto che la lettura delle sue opere meriterebbe non una veloce ricognizione ma un'attenta analisi e così meriterebbero un giusta attenzione  molti dei fatti salienti della sua vita unica e speciale fatti che andrebbero inquadrati all'interno di un quadro generale che è non solo letteratura ma arti figurative, architettura e persino la musica. 
Lo spazio breve di un articolo può essere un omaggio ma non può avere la pretesa di essere esaustiva soprattutto se ci si prefigge di andare al di là dei meri dati biografici reperibili altrove. 
Cercherò pertanto di cogliere l'essenzialità affinchè sia propedeutica per coloro che vogliano accostarsi all'opera di Marinetti e comprendere lo spirito non solo politico ma anche culturale dell'italiano Filippo Tommaso Marinetti e vorrei quindi soffermarmi proprio sull'aspetto dell'italianità di una figura di intellettuale sui generis che ha inciso profondamente su molti aspetti non solo squisitamente letterari ma anche di costume, contribuendo, in taluni casi a creare una mentalità di cui ancora oggi, in parte, se ne possono vedere i seppur sbiaditi effetti. 

IL FUTURISMO DI MARINETTI QUALE AVANGUARDIA POLITICA 

Parlando del'italianità di Marinetti è inevitabile parlare di quello che ha rappresentato anche sul versante politico del primo Novecento, per molto tempo nei confronti di Marinetti è calata una sorta di "damnatio memoriae" per la sua adesione al fascismo, il pregiudizio "ad excludendum" di cui si è macchiata una buona parte dell'èlites intellettuale del dopoguerra, non fa onore alle intelligenze critiche perchè la complessità della storia, dei movimenti culturali e delle epoche non si può ridurre a una chiave di lettura che giudica solo in base alle adesioni politiche. 
Marinetti è perfettamente calato in quel periodo di formidabili cambiamenti che è stato il primo Novecento, negarlo significa non conoscere la storia; in quel periodo di fermenti politici, intellettuali e culturali, il vecchio mondo era rappresentato da tutte le forze e le forme reazionarie che difendevano il passato e in principio era impossibile fare distinzioni entro quel magma ideologico di ansia rinnovatrice che permeava le avnaguardie politiche e culturali italiane. 
Socialismo rivoluzionario, massimalismo e sindacalismo spesso si incontravano con il nazionalismo ma dall'altra parte c'era il mondo borghese che non accettava i cambiamenti, l'èlite culturale che faceva resistenza e che difendeva le sue forme. 
É allora che nasce il femminismo e molte femministe aderirono a molti di quei movimenti rivoluzionari tra cui anche il primo fascismo ben diverso dal fascismo regime che avendo normalizzato tutto, normalizzò anche le coscienze. 

Gli inizi del Novecento sono caratterizzati in Europa dal fervore attivista di tanti movimenti riformatori sia nel campo della letteratura che delle arti, l'obiettivo era unico. cercare nuove forme espressive che superassero le vecchie forme tradizionali, questo anche a costo di far crollare tutta l'impalcatura che sorreggeva un mondo di valori in alcuni casi più che trapassato. 
In questo frenetica esplosione le proposte furono numerose e spesso autenticamente rivoluzionarie e queste proposte finirono non solo per essere accettate ma anche per creare un gusto del tutto nuovo, una sensibilità rinnovata che si riversò poi, anche in ambito politico. 

**Uno di questi movimenti che dette inizio a uno dei più formidabili rinnovamenti culturalì, paragonabile solo al Rinascimento, fu quello cui dette inizio Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944) con un famoso manifesto programmatico apparso il 20 febbraio 1909 sul giornale Figaro di Parigi e che prese il nome di "Futurismo". 
Quel manifesto andrebbe riportato integralmente perchè è lì che si svela buona parte della personalità di Marinetti e da lì è possibile comprendere anche la scelta finale della sua vita che si identificò in pieno con quanto propugnato. 
In questo manifesto si possono leggere delle frasi come queste: 

"La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi e il sonno.Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno....Noi affermiamo la bellezza della velocità....un automobile ruggente è più bella della Vittoria di Samotracia....Noi vogliamo glorificare la guerra -sola igiene del mondo- il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna...Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie di ogni specie

Marinetti auspica quindi una palingenesi rigeneratrice che spazzi via tutto il vecchiume e riparta da zero con le nuove idee, certamente certe frasi andrebbero spiegate perchè si rischia di non comprendere le vere intenzioni. 

Marinetti è il futurismo e in questo manifesto progrmmatico c'è molta della sua personalità, dopo aver letto quelle proposizioni si può avere l'idea di un guerrafondaio, misogino e dalle tendenze barbare, invasato e ansioso di distruggere ogni cosa, non è così. 

L'esigenza di mutare i canoni della letteratura era una tendenza che poi culminò in diverse forme espressive e che era già in atto da tempo in tutta Europa, pensiamo ad esempio all'ermetismo quale corrente poetica del nostro Novecento, sviluppatasi tra due guerre che reagiva alla retorica del tardo Ottocento di D'annunzio o del Pascoli e che aveva i suoi maggiori rappresentanti in Mallarmè e Valery. Tipico dell'ermetismo è il frammento lirico , la parola caricata da suggestioni, la soppressione di nessi linguistici e sintattici. 
In questa tendenza rinnovatrice Marinetti si inserisce andando oltre, creando un linguaggio nuovo, originale, volutamente provocatorio teso a rompere con la parola bella fine a se stessa. 
Si tratta di un modo nuovo di concepire la letteratura e che Marinetti stesso definì come "parole in libertà", un impulso al nuovo una sorta di sotituzione delle foze brute della materia ad un "io" letterario che esprime se stesso riscoprendo la propria estetica primordiale. 
Marinetti inventava le "parole in libertà" sopprimendo, sintassi, metrica e punteggiatura. 

*Una puntualizzazione sull'auspicata distruzione dei musei, Marinetti capì prima di ogni altro che lo spazio museale come mera esposizione di oggetti, non solo è fine a se stessa ma non ha alcun significato, è semplicemente mettere oggetti insieme, distruggere i musei quindi non significa distruggere gli edifici con le opere d'arte ivi contenute ma distruggere l'idea di un museo così concepito. Oggi non solo questo è accettato, ma è il primo criterio per organizzare uno spazio museale, la paternità dell'idea fu di Filippo Tommaso Marineti. 

*Sulle accademie e sul loro vecchiume, Marinetti acutamente già aveva compreso la tendenza tutta italiana della rendita di potere che vige all'interno delle accademie e delle università (aggiungiamo noi), purtroppo la sua intenzione programmatica non ha avuto alcun seguito anzi si è andati in direzione esattamente contraria. Le accademie sono oggi governate da satrapi che impongono parenti e figli uccidendo qualsiasi ansia rinnovatrice, uccidendo il merito e relegando le nuove generazioni a ruoli marginali o costringendole ad andare all'estero per potersi affermare. Chissà cosa avrebbe detto Marinetti di quei professori universitari che hanno fatto assumere nei vari dipartimenti mogli e figli..avrebbe invocato il gesto distruttore dei libertari. 

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Marinetti avrebbe così risposto:"Noi vogliamo liberare l'Italia dalla sua fetida cancrena di professori,d'archeologi, di ciceroni e d'antiquari....." 
(Manifesto del Futurismo) 
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****Il disprezzo della donna, una frase che letta così non rende onore a quella mente fine che fu Marinetti che non era affatto misogino anzi..il disprezzo per la donna era il disprezzo verso un modo di vedere le donne da parte degli uomini e di quelle donne che così si volevano vedere, è la donna angelo del focolare, dedita a quei "lavori donneschi" che la relegavano ad essere un donna di servizio a vita. 
E' pur vero che nel manifesto del 1909 si dice anche "combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà" ma è un'accusa verso ogni forma di sottomissione, una concezione che predilige la donna-amazzone e non quella dedita ai fornelli e ai panni da lavare. 
Potrà sembrare bizzara questa idea della superfemmina ma è un'esigenza quella della riappropriazione della donna e delle sue prerogative che sarà poi ripresa anche dai movimenti femministi, anche in questo Filippo Tommaso Marinetti è stato profeta ..."futurista". 
Un ideale di donna anticonformista, antiborghese pronta ad essere paladina dell'estetica, di una nuova concezione di vedere il mondo, l'arte, la letteratura..una donna nuova affianco ad un uomo nuovo. 

*Il militarismo e la guerra: anche su questo aspetto bisogna fare degli opportuni distinguo, l'idea di un Marinetti violento e guerrafondaio è quanto di più lontano possa esserci, l'auspicata palingenesi rigeneratrice era soprattutto l'esaltazione del vitalismo contro ogni logica pantofolaia e piccolo-borghese. Non è questa logica forse che porta all'indifferenza e all'accettare qualunque cosa pur di stare tranquilli? Non è queta logica che porta alle peggiori pulsioni egoistiche che escludono la generosità e non è proprio questa logica che nei posti di lavoro, ad esempio, porta a non vedere soprusi e violenze, pur di stare tranquilli. 
****Coerente a questi principi e ostile ad ogni forma di pantofolaia acquiescenza a cui la borghesia italiana era avvezza anche nei confronti del fascismo, polemico nei confronti del regime e maldisposto ad accettare la retorica dei panciuti gerarchi, Marinetti partì volontario ultrassesantacinquenne in Russia, senza alcun grado....coerente fino in fondo. 

Marinetti contribuì anche al rinnovamento del teatro, drammaturgo e autore di testi teatrali propose testi talmente innovativi che quando venivano portati sulle scene i suoi testi il pubblico reagiva alle provocazioni con gazzarre, urla e lanci di verdure sul palco..eppure quelle proposte apparentemente balorde non solo hanno contribuito a svecchiare un teatro vecchio e cadente ma sono state accolte dalle avanguardie teatrali dando origine poi a tantissime novità ancora oggi utilizzate in scena. 
Basti pensare all'episodio presente in una dei pezzi più interessanti di Marinetti "La camera dell'ufficiale" in cui tutto l'effetto del pezzo teatrale sta nell'improvvisa esplosione che interrompe all'improvviso la lunga scena precedente e il clima di attesa che aveva creato. 


A chi voglia accostarsi al pensiero di Filippo Tommaso Marinetti consiglio la lettura di  un libro interessantissimo ed originale  intitolato "La cucina futurista" edito da Viennepierre, non è il solito banale libro di ricette. Altro bel libro è "L'alcova d'acciaio" edito da Valecchi, è un libro che parla di guerra, l'occasione migliore per leggere che cosa lui pensasse su questo argomento. 



Conclusione: Quanto c'è da svecchiare nelle menti..caro Filippo Tommaso


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Published by Caiomario - in Letteratura
11 luglio 2012 3 11 /07 /luglio /2012 14:35

Qualche anno fa ci fu un'interessante proposta editoriale da parte del Centro di diffusione Libraria che aveva messo in commercio dei libri finemente rilegati con impressioni in oro, dei bei libri da esporre che fanno ancora bella mostra di sè nella mia biblioteca, molti titoli di narrativa che in parte ho letto e che in parte ho consultato avendoli letti in altre edizioni. 

Tra questi titoli ho scelto un libro che ultimamente ho letto "I racconti di Belkin" di Aleksandr Puskin, scrittore russo vissuto nella prima metà dell'Ottocento e che è ritenuto l'iniziatore della grande narrativa russa. 

Avendo letto quasi tutto Cechov, temevo di imbattermi ancora una volta in trame complesse che avrebbero messo a dura prova la mia attenzione e la mia pazienza di lettore, poi mi sono dovuto ricredere perchè Puskin è diretto, immediato e chi legge un suo racconto si trova dentro una storia, nel suo cuore e non può fare a meno di partecipare agli avvenimenti che il grande scrittore russo sa trasmettere, evitando disgressioni inutili e fuorvianti. 

Questa è una capacità che pochi scrittori hanno e se dovessimo fare un paragone con uno scrittore italiano, quello che più si avvicina per immediatezza e facilità nel raccontare è senza dubbio Giovanni Verga, entrambi sono stati dei novellieri perchè hanno privilegiato il racconto breve rispetto alla stesura di testi prolissi dalle trame complesse. 

"I racconti di Belkin" sono un capolavoro in cui sono presenti diverse varianti che il genere letterario e in particolare narrativo offre, sono composti da cinque racconti:"Il colpo di pistola","La tormenta", "La signorina contadina", "Il fabbricante di bare","Il maestro delle poste"; ogni novella ha una tipologia narrativa differente dove si trova l'intreccio psicologico, l'enigma, la storia d'amore, il grottesco e una sorta di realismo umanitario che per la sua capacità di commuovere il lettore, è un esempio di letteratura universale e senza tempo di straordinario impatto emotivo. 


Una delle novelle che più mi è piaciuta è "La tormenta" dove si racconta una storia in cui avviene di tutto: il matrimonio segreto, lo scambio di persona, il riconoscimento finale, il lieto fine. 


-Prima di tutto c'è da dire che ogni opera porta le tracce della corrente culturale da cui proviene e da cui è stata influenzata, Puskin ha la capacità di raccontare la storia di coloro i quali sono senza diritti, gli umili, quelli che sono comparse nella storia e che non diverranno mai protagonisti, se Verga costruì i suoi racconti entro i canoni di quel realismo di provenienza ottocentesca e in particoalre francese, Puskin rientra in quel genere letterario in cui ben si equilibrano il "tempo della storia" in cui il racconto è incasellato e il "tempo del racconto". 
Questa capacità di equilibrare i tempi narrativi fa si che il lettore non si stanchi, le connessioni cronologiche rispettano i tempi logici di causalità. 

Leggere un romanzo è sempre l'occasione per imparare nuove cose, nel caso della lettura de "I racconti di Belkin" si familiarizza con termini antichi propri della cultura russa come ad esempio "verste", un'unità di misura russa usata per misurare la lunghezza (l'equivalente del miglio), "samovar" è una teiera per conservare a lungo l'acqua del tè sempre bollente ( esisteva molto prima dei termos moderni che oggi utilizziamo!), "ulano" è un cavaliere armato di lancia di origine polacca etc, etc,.......l'elenco sarebbe lunghissimo ma è interessante vedere come si possa sfruttare l'occasione della lettura per arricchire il proprio linguaggio e per allacciare i contenuti ad alcuni riferimenti al contesto storico in cui sono ambientate le vicende.

 
Sono numerosi  gli indizi sparsi nei racconti di Puškin che favoriscono la lettura attiva e che lo spingono a conoscere il clima storico e in quale contesto sono ambientati; ad esempio nelle righe iniziali de "La tormentaPuskin scrive: 

"Alla fine del 1811, nell'epoca per noi memorabile..........." 

nove parole che rimandano al periodo in cui i russi opposero una tenace resistenza all'invasione di Napoleone, questo mi ha stimolato a riprendere i libri di storia e a ripercorrere a ritroso quei tragici avvenimenti della campagna di Russia in cui l'armata francese venne decimata prima dalla fame e poi dal freddo....cosi è stato quando ho voluto approfondire la storia degli ussari...l'elenco anche qui è lunghissimo!! 

 

E Aleksandr Sergeevič Puškin  cita Petrarca

"Non si poteva dire ch'ella civettasse con lui,ma il poeta, notando il suo contegno, avrebbe detto

Se amor non è, che è dunque?.............

Non è straordinario constatare che  uno dei più grandi scrittori russi di tutti i tempi citi uno degli italiani più illustri che molti italiani non conoscono se non di nome?

Conclusione: Il segreto, di qualunque specie sia, pesa sempre a un cuore di donna (A.Puskin)

 

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Published by Caiomario - in Libri
11 luglio 2012 3 11 /07 /luglio /2012 08:58

 

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UNA SCUOLA MOLTO PARTICOLARE: COME CREARE LA MOGLIE PERFETTA 

Parlare di una commedia significa parlare di teatro, intendendo con questo termine un genere letterario che comprende testi o rappresentazioni destinati alla recitazione, si tratta di un genere quindi che per essere apprezzato ha bisogno di due parti: quella scritta e quella recitata, la parte scritta senza la recitazione è per così dire mancante di due soggetti, il recitante e il destinatario che è il pubblico, il genere teatrale quindi si completa in due livelli di comunicazione e la recita in scena è fondamentale per comunicare un messaggio. 

  • Molière non sfugge a questa regola che è intrinseca alla natura stessa del teatro, 


Aristotele scriveva nella sua "Poetica" che "sono gli attori che rappresentano direttamente tutta intera l'azione, come se ne fossero essi medesimi i personaggi viventi o operanti", 

quindi per apprezzare Molière bisognerebbe vederlo in teatro, meglio ancora se le sue commedie venissero rappresentate da bravi attori si potrebbe gustare la genialità del commediografo francese che è stato tra i più grandi autori teatrali di tutti i tempi. 

Il teatro se vogliamo è un cinema fatto dal vivo e in un piccolo spazio, la sua forza è il movimento, le espressioni degli attori sono fondamentali e ogni scena è differente ad ogni nuovo spettacolo per quanto il copione sia fisso, sarebbe interessante vedere come all'epoca in cui è vissuto Molière è stata rappresentata questa commedia e confrontarla con le rappresentazioni più recenti; questo consentirebbe di vedere come il gusto dell'epoca lo rappresentava e come oggi con i costumi mutati viene rappresentato sulla scena. 

Possiamo quindi soffermarci sul copione, il testo scritto che comunque è di grande interesse anche per gli spettatori contemporanei. 
Il tema di fondo è semplice: un uomo celibe di nome Arnolfi, avvezzo alle più grandi dissolutezze con donne maritate , giudica tutte le donne come infedeli e ritiene che questa infedeltà sia dovuta alla cultura, pertanto per prendere moglie decide di "educare" una bambina di quattro anni (Agnese) nella più completa ignoranza. 

  • Astolfi dimentica però una cosa importante, quando la bambina sarà diventata donna, lui sarà vecchio quando ad un certo punto si presenta Orazio, un giovane che si innamora di Agnese e Arnolfi, dopo alterne vicende in cui cerca di resistere, viene messo fuori gioco. 

La trama può sembrare banale ma non dimentichiamo che molte novelle del Boccaccio sono storie dalla trama semplice attrorno a cui il divin Giovanni costruiva storielle più o meno piccanti e lo stesso "Barbiere di Siviglia" musicato dal Donizetti, si sviluppa sulla storia (scritta dal Beaumarchais) di Rosina e del conte d'Almaviva, la storia del vegliardo che vuole sposare una bella fanciulla e con l'intervento successivo di un giovane che la sottrae alle attenzioni del vecchio, non è nuova ma è nuovo il modo in cui Molière decide di metterla sulla scena. 
La prima rappresetnazione teatrale la si ebbe nel 1662 a Parigi, ancora oggi sono numerosi le compagnie tatrali che la portano sulle scene, prima di tutto perchè il gioco degli equivoci è sempre un tema intrigante per il pubblico ma anche perchè nella scena viene portata: 

  • La paura nei confronti dell'emancipazione della donna 


e la paura della donna può diventare una vera e propria ossessione come quella di Arnolfi, ma quanti Arnolfi esistono? Arnolfi padre, Arnolfi marito e persino Arnolfi fratello. 

Quante scuole per mogli esistono? Ne esistono tante anche se non si chiamano così, basti pensare che Molière scrive nella seconda metà del 1600 ma in Italia sino agli anni '50 e '60 la condizione della donna non era dissimile da quella descritta da Molière, la donna era relegata a ruoli esclusivamente domestici e l'educazione verteva su quelli che si chiamavano "lavori donneschi", i cosiddetti lavori donneschi costituivano materia d'insegnamento nelle scuole elementari negli anni'30 e '40, successivamente con il mutato clima culturale la materia è stata abolita e sono state introdotte le cosiddette "applicazioni tecniche" le cui discipline insegnate alle ragazze erano principalmente quelle del lavoro a maglia e dell'uncinetto. 

  • Molière però non avvalla questa tesi, anzi ridicolizza Arnolfi che prima di tutto pretende troppo alla sua età, dedicarsi anche all'amore fisico con una giovane che non può che respingerlo, oltre a ridicolizzare questa ossessione, questa mania di voler creare la moglie perfetta, Molière libera Agnese dalla figura dell'insano vegliardo. 

E' scontato osservare che questa liberazione avviene sempre grazie ad un uomo ma per lo meno è l'uomo che Agnese ama ed è giovane come lei. 

Molière ripercorre, nel finale, lo schema presente nella tragedia greca, Astolfi esce di scena vittima della sua stessa ossessione, vittima delle sua paura di essere tradito, Agnese fa esattamente il contrario di quello per la quale è stata educata in questa assurda scuola delle mogli e...un'altra figura maschile aiuterà Agnese, suo padre! 

Nel 2004 ho assistito alla rappresentazione teatrale della commedia, Arnolfo era interpretato dal compianto e bravissimo Giulio Bosetti,una rappresentazione che meriterebbe una recensione a parte, il testo l'ho letto successivamente ma la bellezza di Molière è che può essere letto come Corneille, Racine e Shakespeare o Pirandello, quando un copione va oltre la scena della rappresentazione teatrale è prima di tutto un'opera letteraria. 

L'altra commedia "Le femmine saccenti" ripercorre una volta ancora una delle tematiche care a Molière quella del rapporto degli uomini vecchi con le donne che in questo caso sono una metafora dell'erudizione che a volte può essere più superficiale nel contenuto rispetto alla forma. 
E' un Molière ambiguo quello che rappresenta una commedia dove comunque è presente una certa vena polemica e misogina nei confronti non tanto della donna, quanto delle abitudini salottiere, molto diffuse nella Francia del XVII sec. , a cui certe madame erano dedite. 
Spesso questi circoli presieduti da presunte intellettuali avevano la spocchia di chi liberatosi dal giogo del potere, si dimostra alla fine succube del potere stesso e funzionale ad esso, è probabile che Molière volesse colpire qualche rappresentante femminile di questi salotti allora tanto in voga, ma è da escludere che la sua commedia sia un manifesto contro le donne intellettuali. 


Conclusione: Non esiste una scuola delle mogli e neppure quella dei mariti............


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Published by Caiomario - in Libri
11 luglio 2012 3 11 /07 /luglio /2012 04:02

Tutte-le-poesie---Salvatore-Quasimodo.jpg

 

 

"Tutte le poesie di Salvatore Quasimodo" è un'opera ponderosa di 656 pagine pubblicata dalla Casa Editrice Mondadori nel 2003; nel volume troviamo l'opera omnia di Quasimodo, a partire dalle prime poesie pubblicate, nel 1930, sulla rivista "Solaria", a seguire la raccolta "Acqua e terre"  pubblicata nel 1930 e la raccolta "Oboe sommerso" pubblicata per la prima volta nel 1932 e poi tutte le altre.


La poesia di Salvatore Quasimodo può essere divisa schematicamente nelle segueti due fasi:

  • Fase ermetica 
  • Fase dell'impegno neorealistico 


Se la prima fase è caratterizzata da un impegno squisitamente poetico, a partire dal 1943 e dalla raccolta "Giorno dopo giorno", la poesia di Quasimodo diventa impegnata ideologicamente e politicamente ma questo non snatura la linea tenuta fin dal periodo giovanile :resta, infatti, intatta la caratteristica principale di tutte le liriche del poeta siciliano: l'uso di una forma espressiva classica consacrata alla tradizione. 

Leggendo le poesie di Quasimodo non si trovano mai forme espressive estreme, piuttosto il tono delle liriche rivela un carattere leggero quasi musicale ma nello stesso tempo molto intenso e atto ad evocare e commerorare sensazioni ed emozioni. 
Tuttavia ogni poesia sembra sfuggire ad ogni riferimento storico andando a caratterizzare una sorta di distacco dalla realtà circostante e da ogni coinvolgimento emotivo. 
E' come se Quasimodo volesse intenzionalmente creare un solco tra realtà del mondo esterno ed espressione poetica, è quasi un disallineamento dalla realtà che il poeta persegue a favore della contemplazione e della descrizione. 
Questa poetica descrittiva evita accuratamente un riferimento puntuale alle cose, prediligendo la forma astratta e perseguendo così uno dei tratti più caratteristici dell'ermetismo. 
Quasimodo appare, nello stile,quasi surreale, calato in una dimensione esistenziale fin dalle prime liriche giovanili in cui veniva descritto il paesaggio della Sicilia con toni favolistici e lontani dalla realtà quotidiana. 

Analizzare l'intera produzione poetica di Quasimodo richiederebbe altri spazi ma è indicativo rilevare alcuni caratteri prendendo ad esempio una poesia molto bella che ho scelto tra le tante: 

"Davanti al simulacro d'Ilaria Carretto

è una poesia rappresentativa ed emblematica che sembra contraddire quanto esposto nelle righe precedenti (riferimento puntuale alle cose) , tuttavia tale contraddizione è solo apparente in quanto si rivela quello che è uno dei temi più trattati da Quasimodo: la solitudine esistenziale. 
In realtà il monumento funebre è solo un pretesto per parlare della distanza esistente tra il mondo dei vivi e quello dei morti: 

" ............................e tu 
tenuta dalla terra, che lamenti? 
Sei qui rimasta sola. Il mio sussulto 
forse è il tuo, uguale d'ira e di spavento 
Remoti i morti e più ancora i vivi, 
i miei compagni vili e taciturni" 

Bellissimo questo frammento in cui Quasimodo con quel "non hanno pietà" denuncia l'illusione dei vivi, un'illusione che offende ed oltraggia in modo crudele chi un tempo l'aveva approvata e condivisa. 
Il grido finale presente nel frammento è una costante dell'intera produzione poetica di Quasimodo quando dice " Remoti i morti e ancora più i vivi": i morti sono lontani (remoti) ma i vivi lo sono ancora di più, è presente un'identificazione tra i morti e l'atteggiamento dei vivi che nel loro cinico egoismo, tacciono e che vengono definiti "i mei compagni vili e taciturni". 

E come non citare la notissima "Alle fronde dei salici" che trae spunto dal biblico Salmo 136 che esprime il dolore degli ebrei per l'allontamento di Israele e il loro esilio in Babilonia. 

Molto si potrebbe dire sul primo verso: 

"E come potevamo noi cantare/con il piede straniero sopra il cuore..." 

in cui l'interrogativo iniziale sembra la conclusione di un ragionamento precedente ma questa lirica è emblematica anche di un nuovo modo di porre la poesia da parte di Quasimodo che dall'io passa al noi quasi a voler essere il portavoce degli altri che la pensano come lui; è una lirica in cui si avverte l'influenza e la forte eredità dell'ermetismo con l'uso di metafore e analogie che rendono il testo intenso ed emotivamente coinvolgente. 

L'ultima poesia che ho scelto è "Un uomo del mio tempo" in cui Quasimodo si rivolge all'uomo del suo tempo ritenendolo solo portatore di morte e di violenza : 

"...T'ho visto:eri tu,/con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,/senza amore, senza Cristo.Hai ucciso ancora,/come sempre/come uccisero i padri, come uccisero/gli animali che ti videro la prima volta." 

Un quadro di desolazione e morte a cui segue un appello: 

"Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue/salite dalla terra, dimenticate i padri:/le loro tombe affondano nella cenere,/gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore" 

Un grido di speranza che il poeta lancia ai giovani, infondendo speranza e invitandoli a recidere qualsiasi contatto con il passato e con quegli uomini crudeli che hanno torturato,sterminato, giustiziato. 


 

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Published by Caiomario - in Letteratura latina e greca
11 luglio 2012 3 11 /07 /luglio /2012 03:40

 

 

Morte-a-credito---Louis-Ferdinand-Celine.jpg

"Morte a credito" è uno dei romanzi del Novecento letterario più discussi ma anche tra i più affascinanti e tra i più apprezzati. Potremo definire il romanzo un'illustrazione cruda e amara sui rapporti familiari che spesso non sono così idilliaci come la novella della sacra famiglia vorrebbe farci credere. 
Proprio andando al di là della visione di maniera della famiglia tradizionale, ci si può predisporre a leggere questo romanzo con animo completamente sgombro da pregiudizi che finirebbero col precludere  la serenità di giudizio del lettore. 

TRAMA

Il medico Ferdinand, già in avanti con gli anni, ricorda i momenti salienti della sua vita. Nato nel 1892 in una casa vicina alla Senna (Louis-Ferdinand Céline nasce nel 1894), Ferdinand vi passa il periodo dell'infanzia insieme ai genitori e alla nonna materna. 
La madre, per quanto abbia condizioni di salute molte precarie, manda avanti un negozio di merceria i cui guadagni servono per integrare il salario insufficente del padre che è impiegato delle poste. 
La morte della nonna materna acuisce questa situazione di precarietà economica in quanto la vegliarda era proprietaria di uno stabile che garantiva un certa rendita e concorreva al reddito familiare. 
Ferdinand è un un ragazzino ribelle e irresponsabile che crea diversi problemi ai genitori, ma nonostante ciò, la precaria situazione economica lo spinge a cercarsi un lavoro. 

Dopo tutta una serie di improvvisi cambiamenti in negativo delle circostanze e dopo tutta una serie di vicende fortunose, Ferdinand perde due lavori in breve tempo e sarà solo l'intervento dello zio Edouard a salvare il giovane dalle ire paterne. 
Grazie al suggerimento dello zio, Ferdinad viene mandato in un collegio a Rochester con la speranza, non troppo recondita, che la permanenza nell'istituto possa abituare il ragazzo a una condotta più disciplinata. 
Anche questa esperienza si rivela fallimentare, il ragazzo rientra a Parigi ma i contrasti con i genitori lo allontanano ancora dalla famiglia, è sempre lo zio Edouard che interviene amorevolmente nei confronti del nipote che, dopo una violenta lite con il padre, lo raccomanda a uno scienziato che lo prende in simpatia, assumendolo come assistente e facendolo partecipe di stravaganti per quanto improbabili invenzioni tra cui un "Familisterio per una razza nuova" che, secondo le intenzioni dell'eccentrico scienziato, doveva essere una specie di centro educativo per i giovani strutturato come una comunità che con il tempo tradisce la sua vocazione iniziale diventando un centro in cui crescono dei delinquenti. 
Il finale è amaro, lo scienziato afflitto per la sconfitta si suicida e Ferdinand decide, dopo essere andato dallo zio, di entrare volontariamente nell'esercito. 

I PUNTI SALIENTI

  • Il romanzo è in gran parte autobiografico, anche le date di nascita di Ferdinand (protagonista del romanzo) e di Louis Ferdinand ( Céline, autore del libro), quasi coincidono, il primo (il presonaggio di fantasia) è nato nel maggio 1892, l'altro ( l'autore) nel maggio del 1894. 
  • Il romanzo è il racconto delle difficoltà esistenti in un nucleo familiare tradizionale, il ruolo del pater familias è sostanzialmente quello di un padre incapace di educare il proprio figlio che vive un'adolescenza tormentata e border line. 
  • Il lettore si trova sommerso dalla verbosità descrittiva di Cèline che sembra non avere pietà per chi legge e che, suo malgrado, deve partecipare alle peggiori oscenità. 
  • I rapporti familiari si spostano dalla famiglia alla parte relazionale della socialità individuale in cui anche i rapporti delle donne sono caratterizzati dalla violenza e dalla depravazione, per quanto deprecabile il pervertimento dei sensi, il lettore non può fare a meno di partecipare, seppur disapprovando. 
  • Il male è il male assoluto, il male del mondo quasi dostoevskijanamente parlando è inevitabile ma nello stesso tempo come le " L'Idiota" l'uomo è positivamente buono, nonostante tutto. 
  • Céline rivela tutto il disprezzo verso un'umanità persa che non si può redimere e verso cui riversa il disprezzo e la derisione attraverso un linguaggio di una tale violenza che non può lasciare insensibili. 


Sono pochi i romanzi che possono essere definiti capolavori, Morte a credito lo è. 


 

 

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10 luglio 2012 2 10 /07 /luglio /2012 17:55

Dei-delitti-e-delle-pene---Cesare-Beccaria.jpg

 

 

BECCARIA E LA LEGISLAZIONE PENALE 

Nel 1764 uscì in Italia il trattato "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria, un libro che viene spesso citato per una sua presunta attualità ( ed in parte è vero) ma che venne concepito dall'autore avendo davanti il modo in cui erano amministrate le leggi penali nel Settecento. 

LA CONFUSIONE 

Beccaria aveva ben compreso ciò che era sbagliato nelle leggi penali dell'epoca, prima di tutto regnava una confusione dovuta al fatto che in quella che era la fonte principale, il diritto romano, si era avuta l'influenza di nuove leggi che avevano profondamente alterato lo spirito originario del codice penale; proprio questa confusione aveva ingenerato un'arbitrarietà tale che in sede di giudizio i magistrati sceglievano una pena che era prevista per altri delitti, in altri casi era presente una previsione di legge per quanto riguarda alcuni delitti ma il giudice poteva aumentare o diminuire la pena a sua discrezione. 

LA CRUDELTA' 

Quello che ispirava la legislazione civile era essenzialmente un criterio che si rifaceva al principio biblico della legge del taglione, una legge che provenendo direttamente dal Dio di Abramo, di Isacco etc. non poteva essere modificata; non era possibile quindi alcuna revisione. 
Aggiungiamo il fatto che tutta la società era dominata da una superstizione che faceva si che imbastissero numerosi processi per essersi dedicati alle arti magiche e alla stregoneria. 
Oggi riteniamo che il suicidio sia una forma di autolesione che l'individuo infligge a se stesso per i più svariati motivi, nel diciottesimo secolo non c'era differenza tra reato e peccato: il suicidio era una colpa condannata dalla religione cattolica e quindi la giustizia si rivolgeva addirittura agli eredi confiscando i beni del suicida e infliggendo al cadavere i più gravi oltraggi. 

IL DIRITTO D'ASILO 

E' arcinoto l'episodio di Fra Cristoforo, narrato da Alessandro Manzoni nei "Promessi Sposi" dove viene raccontato che in seguito alla uccisione in un duello di un nobile, Lodovico (poi Fra Cristoforo) trovò rifugio in un convento di frati Cappuccini; il riferimento letterario è utile per sapere che nel diciottesimo secolo era una pratica accettata dal diritto dell'epoca il cosiddetto "diritto d'asilo", chiunque avesse varcato la soglia di un edificio sacro non poteva essere perseguito dalla giustizia ordinaria. 
Questa sorta di privilegio ecclesiastico portava a delle conseguenze che sarebbero inaccettabili dalla cultura e dalla sensibilità moderna: un assassino e un ladro potevano trovare rifugio all'interno di un edificio ecclesiastico e con loro la refurtiva. 
Nel caso descritto i religiosi che accoglievano l'assassino o il ladro non potevano essere perseguiti dalla giustizia civile, addirittura non era infrequente il caso che un malvivente che avesse commesso un furto, per non essere imprigionato, uccidesse qualcuno nelle vicinanze di una chiesa per poi precipitarsi all'interno dell'edificio e ricevere il diritto d'asilo. 

IL CARCERE 

Oggi sentiamo parlare delle condizioni dei detenuti nelle carceri a causa del sovraffollamento, all'epoca in cui Beccaria scriveva la sua opera, il carcere era la migliore delle ipotesi (qualunque fossero le condizioni) in quanto quasi tutti i reati venivano puniti o con la pena di morte o con la mutilazione. 
La fustigazione era praticata regolarmente così come il taglio della lingua, la mutilazione del naso o di altre parti del corpo che dovevano essere immediatamente visibili da tutti. 

ARONNE PIPERNO E LA BERLINA 

Ne "Il Marchese del Grillo" vi è un ampio spazio dedicato alla storia dell'ebreo Aronne Piperno, l'ebanista accusato e condannato ingiustamente alla berlina, questa pena era riservata a coloro i quali si macchiavano del reato di falso giuramento o di corruzione altro che gogna mediatica!); nella piazza principale di un paese o di una città veniva eretto una sorta di marchingegno dove il condannato doveva in appositi buchi infilare le braccia e il collo, dopodichè chiunque passava davanti poteva schernirlo, riempirlo di ortaggi e uova marce, insultarlo. 
Addirittura a Roma le berline venivano erette sulle scale del Campidoglio e ai malcapitati veniva riservato un trattamento particolare: il volto veniva ricoperto di miele per attirare le mosche e provocare ancora più sofferenze. 

LA PENA DI MORTE: TANTI MODI DI APPLICARLA 

I colpevoli di gravi reati venivano condannati alla pena di morte e le modalità erano in relazione al tipo di reato: 

  • I colpevoli di eresia (si poteva venire accusati di questo reato facilmente anche per una semplice opposizione al potere ecclesiastico) venivano condannati al rogo ( famoso è l'episodio di Giordano Bruno di qualche secolo prima del '700 che venne condannato al rogo nella piazza di Campo dei Fiori a Roma). 
  • Lo squartamento era praticato con diverse modalità: si utilizzavano dei cavalli (da tiro) che tiravano il malcapitato uno dalle braccia l'altro dalle gambe, oppure delle leve che smembravano letteralmente il reo che dopo essere svenuto per le lussazioni, veniva tagliato in due pezzi. 
  • La ruota: altro strumento mortale finalizzato allo smembramento degli arti. 
  • Pena di morte speciale: in casi particolarmente gravi si ricorreva all'impalamento, al malcapitato veniva infilato un palo nel retto e lentamente questo veniva fatto scorrere fino a farlo uscire dalla bocca.
  • Stivaletti: Voltaire ci racconta questa terribile tortura applicata a un certo Damiens reo di aver ferito con un coltello il re di Francia. Il malcapitato venne preso e torturato con lo scopo di estorcergli il nome di eventuali complici, poi venne portato nei sotterranei della prigione e gli vennero applicati degli "stivaletti" che venivano resi sempre più stretti con delle inserzioni di cunei. Dopo questa tortura, il povero Damiens venne portato nella piazza pubblica principale e gli venne bruciata con dello zolfo incandescente la palma della mano con la quale aveva tenuto il coltello che aveva ferito il re. Nel frattempo il carnefice, aprendo delle ferite vi buttò dell'olio bollente mentre la folla gridava e alla fine le estremità degli arti vennero legate a quattro cavalli che opportunamente frustati smembrarono il povero Damiens. 

L'agonia durò circa un'ora e mezza. 
Non contenti di ciò la GIUSTIZIA del re inflisse l'oltraggio al corpo, le braccia, le gambe e il torso vennero gettate tra le fiamme. 

Ma in tutta Europa (compreso lo Stato della Chiesa) pena di morte e tortura erano praticate ed in uso, queste condanne erano poi ancora più libere, per esempio i colpevoli di alto tradimento venivano trascinati nel luogo in cui si doveva eseguire la condanna a morte, legandoli alla coda di un cavallo, dopo aver eseguito l'impiccaggione i boia di Sua Maestà strappavano le viscere le gettavano nel fuoco e facevano letteralmente a pezzi il corpo del colpevole. 

TORTURA 

*Tortura ordinaria:faceva malissimo ma manteneva in vita il colpevole che rimaneva il più delle volte mutilato. 

*Tortura complessa: era praticata per portare alla morte il colpevole dopo indicibili atrocità. 

*Tortura preliminare: era preparatoria ad una confessione che si riteneva facile da estorcere. 

*Tortura definitiva: venivano applicati i metodi più raffinati e più dolorosi. 

NEL DIRITTO(?) INGLESE NON ESISTEVA LA FORMA SCRITTA: 

Le leggi scritte erano poche e pochi erano coloro i quali vi potevano accedere, il diritto alla difesa non esisteva e il giudice coondannava nel più assoluto arbitrio. 
In più il torturato doveva sottoscrivere un documento in cui ammetteva le sue colpe e solo in seguito a questa sottoscrizione, potevano essere confiscati i beni della famiglia, molti, stoicamente accettavano la torura in silenzio preferendo la morte alla confessione per evitare che i beni di famiglia venissero confiscati. 

QUESTO ERA IL MODO IN CUI VENIVA AMMINISTRATA LA GIUSTIZIA PENALE QUANDO CESARE BECCARIA SCRISSE "DEI DELITTI E DELLE PENE" 

Cesare Beccaria economista, filosofo, letterato 

Nel diciottesimo secolo non esisteva la figura del giurista così come la intendiamo noi, la legge come tecnica era un concetto del tutto estraneo alla cultura dell'epoca, per cui non era affatto insolito che un filosofo o un letterato scrivessero di legge. 
Beccaria è ricordato soprattutto per l'opera "Dei delitti e delle pene" nella quale egli prende in considerazione la corretta amministrazione della giustizia (penale). 

UN PRINCIPIO SEMPRE VALIDO (ora più che mai) 

Per Beccaria un sistema penale che possa definirsi giusto ed efficace richiede un legislatore che definisca nella maniera più precisa la relazione tra condanna e reato per evitare qualsiasi arbitrio e dall'altra parte che la giustizia sia rapida e certa (certezza della pena) 
La condanna dei malvitosi non deve essere una vendetta che come abbiamo visto era applicata dai sistemi giudiziari dell'epoca, ma doveva servire per scoraggiare i reati prevenendoli. 

*Il potere dello stato nei confronti di un reo non deve essere visto solo dal punto di vista della capacità di infliggere una pena ma anche dal punto di vista dell'utilità sociale: più una condanna è inflitta prointamente, più è utile alla società. 
Una giustizia rapida è una giustizia utile anche al colpevole perchè si limita il periodo di privazione della libertà. 

In un paese civile per Beccaria bisogna distinguere il carcere preventivo da quello definitivo che si infligge in seguito ad una condanna definitiva. 

La pena come il delitto è un male pertanto il diritto penale non deve accrescere questo male a danno della società. 

Il ritardo tra pena inflitta e reato commesso è da inquadrare in quella mentalità tipicamente illuminista che vedeva l'utilità sociale come il fattore più importante per la coesione sociale, una condanna che arriva in ritardo, secondo Beccaria ha un duplice aspetto negativo: da una parte diminuisce l'effetto del rapporto con la colpa da parte del colpevole e dall'altra l'opinione pubblica stessa può essere portata ad essere più indulgente nei confronti di un reato commesso molto tempo prima e di cui non si percepiscono emotivamente i sentimenti di riprovazione. 
Una tardiva esecuzione, quindi, ingenera un altro pericoloso effetto nei confronti dell'opinione pubblica che è portata a creare un senso di errore generico invece di porlo in relazione a quello specifico delitto. 

In ultimo vi parlo di una parte che di solito non è affrontata da nessun commentatore ed è quella che riguarda: 

*I DELITTI DI PROVA DIFFICILE 

Cosa sono i delitti di prova difficile? Sono quei delitti "che sono nel medesimo tempo frequenti nella società. e difficli a provarsi:Tali sono l'adulterio, l'attica venere, l'infanticidio." 

  • L'adulterio è un delitto che deriva da due ragioni: le leggi variabili degli uomini e l'attrazione sessuale. 

Per Beccaria questo tipo di delitto (attenzione che nella legislazione penale italiana fino a pochissimo tempo fa l'adulterio era considerato un reato, si ricordi il noto caso di cronaca che vide coinvolto Fausto Coppi e Giulia Occhini, la cosiddetta "dama bianca" che venne addirittura condannata e messa in carcere per adulterio) è un elemento fondatore dell'umanità ed è rintracciabile in un bisogno costante e universale di tutta l'umanità. 
E' ineliminabile ma è contenibile. 

  • L' attica venere: cos'è l'attica venere? E' l'amore omosessuale che secondo Beccaria si diffonde soprattutto "in quelle case" (si riferisce a conventi e seminari) dove gli impulsi dell'ardente gioventù sono repressi per cui trovano sfogo in quello che c'è più vicno.(?) 

 

  • L'infanticidio: "è parimenti l'efffetto d'una inevitabile contraddizione in cui è posta una persona che per debolezza o per violenza abbia ceduto", qual'è il modo migliore per prevenire questa infamia? Quello di prevenire con leggi efficaci la debolezza contro la tirannia che favorisce il vizio invece di prevenirlo. 


UN CONSIGLIO AL LETTORE 

Chi voglia leggere l'opera di Beccaria sappia che non è facile leggere l'italiano del Settecento, è simile al nostro ma è anche molto diverso in quanto è frequente l'utilizzo di termini obsoleti e caduti in disuso. 
Ci sono in commercio diverse edizioni che offrono un buon apparato critico utile dal punto di vista didattico e che aiutano a comprendere concetti non sempre di facile comprensione. 
Oggi è comunque possibile reperire edizioni meno datate e collegate alla sensibilità culturale dei giorni nostri. 


Conclusione: A misura che le pene divengono più dolci, la clemenza e il perdono diventano meno necessari

 

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Published by Caiomario - in Filosofia
10 luglio 2012 2 10 /07 /luglio /2012 17:19

 

I piccoli maestri - Daniele Lucchetti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I-piccoli-maestri-di-Daniele-Lucchetti.jpg

 

 

 

 

Quando nel 1998 uscì "Piccoli maestri", le polemiche si scatenarono, spesso in maniera del tutto ingenerosa nei confronti del regista Daniele Lucchetti che ebbe la malaugurata idea di fare la trasposizione cinematografica del romanzo scritto da Luigi Meneghello
Invece di giudicare il film, si preferì giudicare il contenuto ma il bersaglio non era quello giusto perchè Lucchetti non fece altro che portare in pellicola quello che era un romanzo scritto nel lontano 1963. 

Eppure anche il romanzo ebbe alcune modifiche perchè suscitò in tempi non sospetti numerose critiche dovute soprattutto ad un clima che tendeva a celebrare il mito della Resistenza in maniera del tutto retorica non considerando che la narrativa della Resistenza comprende romanzi spesso di variegata provenienza la cui chiave di lettura è da rintracciarsi anche nei diversi modi in cui venne attuata e vissuta dai protagonisti, questo è molto importante da tenere presente per non cadere in una facile iconografia che non corrisponde alla realtà storica. 

La rappresentazione in chiave antieroica fu sicuramente una novità prima nel panorama letterario e poi anche in quello cinematografico ma non si trattava di una lettura che proveniva dal campo avverso bensì di una rievocazione che utilizzò prima di tutto l'arma dell'ironia per raccontare una vicenda personale di chi visse da partigiano quelle vicende. 

L'8 settembre 1943, quando giunse la notizia dell'armistizio, l'esercito italiano "va a casa", gli ordini furono contradditori, centinaia di migliaia di militari italiani si trovarono improvvisamente sbandati mentre la catena di comando si era rotta a causa delle decisioni molto discutibili che tennero gli alti vertici dello stato maggiore italiano e lo stesso sovrano; in questo clima un gruppo di studenti vicentini decide di non deporre le armi e di salire sul monte Ortigara a fare la "guerra per bande", proprio su quelle che erano le linee della grande guerra, tra ossa di soldati morti e residui bellici arruginiti, incomincia la "guerra civile". 

Proprio su quelle montagne nasce un idea: il giovane Enrico decide di scendere nel paese di Enego e di rapire un medico fascista con l'approvazione e l'ammirazione della cittadinanza; questa impresa è la prima di una lunga serie di operazioni che saranno condotte con l'appoggio della popolazione che non solo riforniva di cibo e vestiario i partigiani ma li nascondeva anche quando avvenivano i rastrellamenti. 
Anch questo fatto ha suscitato delle polemiche perchè si è visto in questo aiuto dato dalla popolazioe ai partigiani, la causa dei rastrellamenti da parte dei militari tedeschi, eppure storicamente fu così, dimenticarlo, significa scrivere un'altra storia! 

Quando la banda si disgrega in tanti "piccoli maestri itineranti" il protagonista del film si sposta a Padova provando un senso di grande disorientamento ma nello stesso tempo progettando il futuro di un'altra Italia e arrivando a fare delle liste di proscrizione per giustiziarne i componenti con l'inchiostro. 

Il film si conclude con l'ingresso in città dei carri armati inglesi. 

La trama del racconto poco dice se non si apprezzano alcuni punti che secondo me meritano una cerata attenzione: 

  • Prima di tutto i racconti della Resistenza erano racconti che già giravano da anni tra coloro che ne erano stati i protagonisit e spess oquesti racconti non avevano nulla di letterario ma spesso erano una narrazione inframmezzata da linguaggi differenti, forme dialettali, episodi contradditori di eroismo e anche di violenza sommaria, ma erano racconti veri che non avevano subito alcuna mediazione letteraria e che consentivano di vedere la Resistenza per quello che realmente fu eppure questo è facilmente rilevabile anche in altri racconti come "Il partigiano Johnny" di Beppe Fenoglio edito da Einaudi fin dal 1968, venti anni prima dell'uscita del film di Lucchetti. 

La non-verità del mito porta a distruggere il mito, ogni mito e non bisogna dimenticare che se è vero che ci fu il sostegno da parte dei contadini delle Alpi e dell'Apennino, ci fu anche quella tradizione contadina che è da sempre sospettosa nei confronti degli estranei, a prescindere dal colore politico; la diffidenza dei contadini nei confronti dei partigiani vi fu come nel caso delle valli valdesi nell'estate del'44, quando le popolazioni locali chiesero addirittura l'intervento dei nazifascisti 

Come spesso accade il romanzo è meglio del film, in questo caso l'errore (se così vogliamo definirlo) nella ricostruzione sta, per esempio nella rappresentazione dei personaggi che appaiono poco partigiani ma molto attori nell'aspetto: non è possibile pensare che delle persone che vivevano in montagna, in condizioni molto precarie, potessero essere perfetti al punto da avere uno sguardo che, sicuramente nella realtà non era quello! E questo lo possiamo constatare nelle numerose fotografie d'epoca in bianco e nero dove erano ripresi i veri partigiani che spesso avevano un abbigliamento precario, sguardi di chi è abituato a vegliare, facce smagrite con la barba spesso lunga e i capelli di chi li lascia incolti! 

E' invece da lodare la scelta del regista per quanto riguarda Stefano Accorsi (nel 1998 ancora poco conosciuto) che ha dimostrato una straordinaria capacità di calarsi nella parte, se possiamo criticare la ricostruzione dell'aspetto dei personaggi, è giusto sottolineare la veridicità del personaggio interpretato da Accorsi, spontaneo e vero e perchè forse gli uomini, quegli uomini non sapevano essere anche idealisti e antieroici con le loro paure e le loro speranze? 

Lo furono come lo furono i loro fratelli che stavano dalla parte sbagliata. 

Il mio giudizio sul film è positivo, peccato che Piccoli Maestri sia stato sottovalutato, non è un capolavoro ma è un buon film.

 


 

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Published by Caiomario - in Z. Cinema
10 luglio 2012 2 10 /07 /luglio /2012 16:20

L-invenzione-della-solitudine---Paul-Auster.jpg

 

 

 

"L'invenzione della solitudine" di Paul Auster è uno di quei libri che segnano profondamente il lettore perchè uscendo fuori dalla logica del racconto di fantasia si addentra nell'esame dell'aspetto sensibile delle cose, di quelle cose che sono appartenute a qualcuno che faceva parte della nostra vita. 
Proprio per questo motivo il libro è toccante perchè ci fa scoprire il lato nascosto che si trova dietro ad ogni persona che ha condiviso con noi una parte dell'esistenza o degli affetti importanti. 

Il racconto prende spunto dalla morte del padre del narratore e dalla successiva visita nella casa di famiglia dove ogni cosa sembra parlare e ricordare un'assenza che si è fatta pesante al punto da provocare un viaggio nella memoria che ripercorre a ritroso i momenti più importanti del rapporto genitore-figlio, un viaggio che avviene nella dimensione della solitudine che è il vero tema di fondo dell'intero racconto-riflessione. 

Trovarsi dinanzi ad oggetti appartenuti ad una persona scomparsa rappresenta un'esperienza che provoca disagio non solo per quanto riguarda il sentimento di aver perso qualcosa, ma anche e soprattutto di non aver conosciuto abbastanza quella persona e di non aver abbastanza vissuto con intensità un rapporto che inevitabilmente è sempre parziale e mai completamente pieno. 

E' come se dietro ad ogni rapporto vi sia qualcosa che non solo non può essere conosciuto ma che rimane insondabile, un lato oscuro e segreto che ciascuno di noi si porta dietro e che non si può trasmettere, lo stesso rapporto con i genitori è fatto di momenti e di parole che rivelano solo una parte della personalità, quella che emerge mentre quella invisibile rimane nascosta nella solitudine di ciascuno. 

Il libro è diviso in due parti: nella prima parte Auster ricostruisce, attraverso la tecnica del flash back letterario la personalità del padre e il suo rapporto con lui; nella seconda parte, la riflessione si incentra sul suo essere padre, del rapporto del figlio e della solitudine che dovrà sopportare nel momento in cui avverrà il distacco con il figlio stesso. 

Nella prima parte, oltre ad una rievocazione della figura del padre, fatta con un affetto che il lettore percepisce fino a farla suo, ci sono numerose riflessioni tra cui quello sul significato delle cose e degli oggetti che di per sè non hanno valore, non parlano se non in relazione alla persona a cui sono appartenuti e in relazione a chi conosce la relazione tra quella cosa e chi la possedeva: prendiamo ad esempio un semplice arnese di lavoro, una zappa che è appartenuta ad un contadino che era anche padre, quella zappa non ha alcun significato per un estraneo, è solo un utensile, un arnese di lavoro, ma se quella zappa, appoggiata ad un angolo di un muro viene presa dal figlio del contadino assume un significato completamente diverso, da strumento inanimato diventa uno strumento capace di evocare momenti, istanti, quotidianità, pezzi di vita, di dolore e di amore.. 

E' particolarmente toccante, l'episodio che Auster racconta quando rinviene nell'armadio della camera da letto del padre centinaia di foto conservate all'interno di buste e accanto a queste, un album inutilizzato che avrebbe dovuto raccoglierle: perchè si chiede Auster quel disordine, perchè la presenza di quell'album mai riempito, chi lo aveva acquistato, forse la madre? 
Ed una volta giunto a casa quelle foto vengono trattate come delle reliquie, gli rivelano particolari mai notati, verità nascoste al punto che la visione diventa un'attività febbrile dove non il protagonista narrante non vuole perdere niente, cercando di farle proprie al punto da esclamare: 
"Volevo che nulla andasse perduto". 


Altrettanto interessante è la riflessione che viene fatta sul significato del corpo di una persona, fino a che una persona è in vita noi identifichiamo il corpo con al personalità di un individuo, quella persona è il suo corpo, ma quando quell'individuo cessa di vivere il cadavere è separato completamente dall'idea che noi abbiamo di quella persona; Auster con grande acutezza osserva che noi non diciamo più "questo è tizio", ma "questo è il corpo di tizio". 

E' una prospettiva tragica quella che emerge nella solitudine della riflessione di una memoria che riscopre pezzi di vita persi per sempre e illusorio appare il tentativo di recuperare brandelli di un'esistenza che non può ritornare se non nel ricordo della solitudine. 

Vi invito a riflettere su questa frase: 

"La vita si fa morte, ed è se come quella morte avesse posseduto questa vita da sempre. Morire senza preavviso. Come dire: la vita si interrompe. E può interrompersi in qualunque momento" (Paul Auster) 

e vi invito anche a riflettere su questo mio pensiero: 

dei grandi artisti rimane un'opera che sopravvive, imperitura alla loro esistenza, ma dei più che rimane? Niente...e questo è desolante. 


Conclusione: Restare soli è il nostro destino

 

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Published by Caiomario - in Libri
10 luglio 2012 2 10 /07 /luglio /2012 16:13

 

perec-georges-la-vita-istruzioni-per-luso.jpg

 

 

"La vita istruzioni per l'uso" è uno di quei romanzi che tra la data di ideazione e quella di composizione ha avuto un lungo periodo di gestazione: ben nove anni, la pubblicazione avvenuta nel 1978 non può lasciare a dubbi ad alcun sospetto circa l'originalità dell'ambientazione. situato in rue Simon 
Il racconto, infatti, si sviluppa nella pianta di un condominio ubicato in rue Simon-Crubellier di cui l'autore descrive con minuzia di particolari, come se i muri fossero trasparenti ( la casa del "Grande Fratello"?), tutti gli interni di ogni singolo appartamento compresi gli occupanti che vi abitano. 
L'autore descrive in maniera particolareggiata tutta la vita dei singoli inquilini, compresi gli abitanti che hanno preceduto quelli che vi abitano e comprese addirittura le cose che hanno popolato negli anni lo stabile. 
Una descrizione talmente certosina che sembra di essere nella posizione privilegiata di un osservatore che guarda dall'alto. 

La figura su cui ruota tutto il racconto è uno strano personaggio, il ricchissimo Percival Bartlebooth che è animato da una sola e stramba ambizione: quella di girare il mondo e di dipingere cinquecento acquerelli. 
Ed è curioso anche che cosa Bartlebooth farà di questi cinquecento acquerelli, li taglierà con la forma delle tessere di un puzzle e dopo avere trascorso quattro lustri per ricomporli, li scioglierà in un acido. 

Perec, con una sapienza non comune, utilizza come mezzo il racconto del puzzle per creare un'inclusione tra le regole del rompicapo e quelle della vita, il puzzle rappresenta una sorta di iperonomia e i fatti dell'esiistenza un sottoinsieme in cui avvengono i giochi e gli incastri della vita. 

E' la metafora, la figura retorica a cui ricorre Perec per attuare quel meccanismo di spostamento semantico per cui il significato originario della descrizione narrata non è più quello originario. 
Per il lettore il gioco della composizione diventa il punto di intersezione tra due campi semantici: quello del gioco e quello del gioco della vita. 

Come la ricostruzione del rompicapo appare vana per quanto con meticolosità uno ci si applichi, così l'esistenza, nel suo gioco continuo di giochi e intersezioni appare altrettanto difficile e inutile: una sorta di fatica di Sisifo nella quale quando si tenta di mettere in ordine le assonanze si deve nuovamente rincominciare. 

E' elaborata questa costruzione del racconto che Perec fa del romanzo che sembra essere costituito da tutta una serie di racconti dove l'autore stesso, tende paradossalmente a dare delle regole: la stessa successione dei capitoli appare sapiente, accattivante e originale. 

Lo stesso Perec ha rivelato che l'idea che ha presieduto la costruzione del romanzo è stata quella di una partita di scacchi dove il giocatore muove le pedine, una dietro l'altra, senza fermarsi più di una volta in una casella, questa sapiente elaborazione riesce a produrre una costruzione narrativa assai elaborata quasi sofisticata dove anche il linguaggio risulta particolarmente accurato. 

Il racconto si sviluppa quindi creando quell'effetto di controdeterminazione per cui il significato di un racconto viene traslato da un referente ad un altro senza che vengano deluse le aspettative del lettore che si trova improvvisamente su due piani quello del gioco del rompicapo e quello del dispiegarsi della vita. 

Siamo noi stessi che leggendo il romanzo di Perec, ricreiamo la realtà, la nostra esistenza e dal piano narrativo ci troviamo spostati nel piano emotivo, Perec in questo si dimostra sapiente e sembra sviluppare il racconto secondo un principio di economcità per cui parlando del gioco, parla dell'esistenza, il gioco è usato in senso denotativo ma nello stesso tempo connotativo è come se invece di dire "prendere in giro" qualcuno dicesse "prendere per il naso", in questo modo l'artificio letterario riesce a rendere agevole la lettura che non risulterebbe tale se si facesse un discordo filosofico. 

Proprio per non lanciarsi nell'iperbole filosofica sull'esistenza, Perec privilegiando il piano letterario, riesce a trasmetterci il concetto che la vita è un meccanismo complesso e a volta anche complicato dove sono necessarie delle istruzioni per l'uso. 
Le persone e le cose vengono catalogate, le situazioni enumerate, i fatti più diversi vengono accostati attraverso una combinazione che sembra essere una sorta di codice che ci permette di comprendere meglio lo scorrere dell'esistenza. 

Un libro bellissimo e affascinante che vale la pena leggere, certamente originale e impegnativo ma che si differenzia dai soliti racconti lasciando una traccia indelebile nel lettore.

 

La vita è un gioco combinatorio, bisogna conoscerne le regole

 

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