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20 febbraio 2012 1 20 /02 /febbraio /2012 22:08

 

C'è stato un periodo della mia vita in cui, quando si acquistava un giornale, significava schierarsi con questa o quella parte politica; in parte è ancora così anche se quando leggo oggi la rassegna stampa non mi interessa più questo aspetto. Con il tempo si muta anche l'atteggiamento nei confronti delle ideologie e dagli anni '80 sono cambiate molte cose ma non "Il Manifesto". Negli anni '70 l'altro giornale che era un appuntamento quotidiano dei giovani dell'ultrasinistra era "Lotta Continua", era il classico giornale politico che acquistavano quelli che portavano l'eskimo e che rappresentava una sorta di bollettino militante più che un giornale di inchiesta come si intende oggi la stampa non allineata. Oggi fa una certa impressione pensare che sono stati direttori di Lotta Continua personaggi come Giampiero Mughini o Pier Paolo Pasolini, ma all'epoca la radicalizzazione delle posizioni portava a schierasi nelle ali estreme, mentre i democristiani governavano e ci preparavano questa Italia che sprofonda nel debito pubblico. 

"Lotta Continua" non esiste più da vent'anni ,"Il Manifesto" invece è rimasto anche se non naviga in buone acque dopo che c'è stata una stretta dei finanziamenti alla carta stampata. 
Della generazione dei vecchi giornalisti non è rimasto quasi più nessuno, ricordo tra i tanti Vittorio Foa e Luigi Pintor, ogni tanto si sente la voce critica di Valentino Parlato che ancora oggi conserva la consueta verve polemica dei tempi della lotta, ma i "nuovi" sono altrettanto bravi nel portare avanti (dal loro punto di vista) una linea editoriale sempre molto chiara (e anche prevedibile). 

Personalmente quello che mi piace de "Il Manifesto" sono i titoli, la prima pagina è dal punto di vista giornalistico una delle migliori, per trovare la stessa capacità di sintetizzare in poche parole un argomento bisogna andare all'estremo dalle parti di Feltri che è sempre riuscito a fare delle prime pagine capolavoro. E' una virtù giornalistica quella di costruire gli eventi e "Il Manifesto" tra gli old media è l'unico che riesce a narrare la realtà trasformando gli eventi in notizia. 
Non è un caso che molte delle migliori prime pagine siano state corredate dalle vignette di Vauro che, quanto a capacità di saper trasformare gli eventi in notizia non è secondo a nessuno. 
Anche l'impaginazione attuale e le dimensioni della notizia sono tutte ideologiche, all'antica (lo dico in senso positivo), rispetto a qualche anno fa quando si trovavano pezzi di quattro o cinque colonne la lunghezza degli articoli è diminuita. Il giornale di oggi è più snello, esteticamente più accattivante rispetto al foglio del passato. 
La parte più corposa del giornale è quella destinata agli avvenimenti politici o di cronaca (secondo una chiave di lettura politica di sinistra). 

Se in Italia ci spaventiamo perché ci sono delle voci critiche c'è da preoccuparsi, ben vengano quindi anche le voci contro, ma bisogna sempre (sottolineo sempre) tenere presente che un quotidiano di opinione è quello che dichiara la propria tendenza e che i suoi lettori si attendono di leggere le notizie esattamente in quella "prospettiva". Questo vale per tutti i periodici e le riviste. 
In ultimo credo che prima di parlare di qualche cosa, bisogna conoscerla, non si può essere in via pregiudiziale contro un giornale senza aver letto mai un articolo. 
Nella biblioteca della mia città arrivano i principali quotidiani nazionali che si possono consultare gratuitamente, leggere le prime pagine mi fa venire in mente quello che un vecchio manuale americano di giornalismo diceva a proposito della struttura della notizia: "Good writing for bad readers", "Scrivere bene per cattivi lettori". Naturalmente mi metto tra i cattivi lettori nel senso che per mancanza di tempo non riesco a leggere ogni cosa, ma quando riesco a ritagliarmi uno spazio, il divertimento più bello è quello di incominciare a leggere le "ali estreme", Il Manifesto c'è, manca l'altra parte visto che l'anima de "Il Secolo d'Italia" è ormai moderata. 

In ultimo vorrei esprimere il mio dissenso sul cosiddetto "Fondo per l'editoria", credo che qualsiasi giornale dovrebbe autofinanziarsi ma il problema di chi può permettersi di finanziare il proprio giornale apre degli scenari inquietanti sulla "libertà di stampa". 

Leggo qualsiasi giornale, libro etc e ascolto chiunque poi esprimo la mia opinione, le tonnellate di carta scritta che ho letto mi permettono di capire qualche cosa del mondo. 

 


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Published by Caiomario - in Libri
17 febbraio 2012 5 17 /02 /febbraio /2012 07:06

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Fonte immagine: https://www.flickr.com/photos/58558794@N07/8710299037

 

 

 

 

 

 

IL DECAMERON ESPRESSIONE DEL TARDO MEDIOEVO 

Per comprendere lo spirito del Decamerone bisogna fare riferimento a due momenti della vita di Boccaccio che riguardano la formazione e l'educazione, questi due momenti sono quelli dell' infanzia fiorentina e della giovinezza napoletana. 
Nel Decameron confluiscono due aspetti fondamentali della vita dello scrittore fiorentino: quello borghese, vissuto nella casa paterna e quello della giovinezza napoletana in cui frequentò ambienti dell'aristocrazia angioina strettamente legati alla cultura cavalleresca francese. 

Dal punto di vista culturale Boccaccio vive due momenti, quello delle istanze mercantili della borghesia commerciale sempre più proiettata a fare affari e dall'altra parte quella del mondo cortese che è stata definita tardogotica nel senso di espressione del secolo precedente. 

L'influenza di Boccaccio nella letteratura italiana è stata enorme e non solo in campo letterario ma anche per ciò che concerne la mentalità comune, l'utilizzo dell'aggettivo "boccacesco" allude a quegli aspetti di costume, narrati nel Decameron, che più hanno suggestionato la mentalità popolare, c'è da rilevare, tuttavia che questa lettura popolare che fa riferimento alle beffe scostumate e alla sensualità, coglie un aspetto, quello più evidente, tralsciando completamente la parte più interessante e che riguarda l'ideologia ispiratrice del Decameron. 

IL DECAMERON, RACCONTO SOCIALE 

Dal punto di vista letterario, il Decameron è l'opera fondamentale della narrativa italiana: con il Decameron, infatti nasce la narrativa moderna e per quanto nell'opera vengano recuperati molti aspetti presenti nel romanzo cortese, la struttura narrativa impiegata da Boccaccio è completamente nuova: il racconto diventa una narrazione articolata, stratificata dove la rappresentazione ha lo scopo di divertire escludendo l'aspento didattico e moralistico della poetica precedente. 
Eppure pur escludendo ogni esplicito riferimento moralistico e religioso, Boccaccio affronta la morale dell'epoca, la morale di una società ma soprattutto quella individuale che di volta in volta si presenta come la capacità di saper risolvere le situazioni più ingarbugliate. 
La morale quale si presenta nel Decameron è quindi una morale attenta non solo alle esigenze del singolo ma anche a quella dei bisogni della società a lui contemporanea. 
La tematica erotica presente nell'opera è quella che più ha sollecitato la fantasia popolare ma è anche quella che più si riallaccia alla mentalità umanistica ma nello stesso tempo è finalizzata ad evidenziare gli aspetti comportamentali di una società sempre letta attraverso una chiave satirica che affonda le sue radici negli autori latini, Giovenale su tutti. 

UN'OPERA DEDICATA ALLE DONNE 

Il titolo deriva dal greco e significa "dieci giornate", nel proemio troviamo una dedica alle donne e un riferimento a Galeotto: 

"Comincia il libro chiamato Decameron cognominato principe Galeotto, nel quale si contengono cento novelle in diece dì dette da sette donne e da tre giovani uomini" 

Come Galeotto aiutò Lancillotto a convincere Ginevra, conquistandone le grazie e i favori, così il libro dovrà aiutare le donne a trovare delle soluzioni positive alle pene d'amore. 

LE RUBRICHE, LE NOVELLE, LE GIORNATE 

Ogni novella è introdotta da una rubrica, cos'è la rubrica? La rubrica è un piccolo riassunto che introduce al tema della novella, troviamo quindi dieci rubriche a fronte di dieci giornate, ogni giornata contiene dieci novelle, la Prima giornata è narrata dall'autore mentre le dieci novelle sono raccontarte da dieci novellatori. 
Boccaccio si riserva il ruolo di commentatore in tre occasione. all'inizio dell'opera, al centro e alla fine, oltre a ritagliarsi lo spazio per il racconto della centounesima novella. 

SETTE DONNE E TRE NOVELLATORI 

Il Decameron narra la storia di dieci giovani che decidono di andare fuori città per qualche giorno, i dieci , sette donne tra i 18 e i 28 anni e tre giovani si ncontrano nella chiesa di Santa Maria Novella a Firenze mentre la città è flagellata dalla peste. 
Boccaccio ricorre al simbolismo e alla numerologia, probabilmente il fatto che le novellatrici siano proprio sette fa riferimento alle Muse, così come i nomi delle fanciulle e dei giovani si riferiscono a dei precisi significati, ad esempio una delle ragazze si chiama "Pampinea" che significa rigolgiosa mentre uno dei giovani si chiama Dioneo che deriva da Dione madre di Venere dea dell'amore. 

**i dieci giovani si incontrano e vanno in un palazzo circondato da un magnifico giardino che si trova a qualche chilometro dalla città, arrivano di mercoledì mattina e stanno fuori dalla città per quattordici giorni 
Ogni giorno viene eletto un re e una regina, spetta a loro scegliere sia l'organizzazione della giornata che l'argomento da trattare, alla fine della giornata uno dei novellieri si esibirà cantando una canzone. 

"UMANA COSA E' AVER COMPASSIONE DEGLI AFFLITTI" 

Così inizia il proemio e Boccaccio si propone di consolare le donne tromentate dalle pene d'amore, ricordando di avere anche lui sofferto per le pene d'amore e di avere avuto sollievo solo grazie ai piacevoli ragionamenti di un suo amico, si propone di fare la stessa cosa suggerendo che cosa bisogna seguire e che cosa bisogna fuggire. 

MAI PASSARE IL SEGNO DELLA RAGIONE 

Il Decameron inizia con la descrizione della peste, un "orrido cominciamento" che permette all'autore di collegarsi alle ragioni della fuga dell'allegra brigata dalla città: non c'è motivo di restare in una città dove regnano morte e disperazione, è meglio dedicarsi a se stessi senza però "trapassare mai in alcun atto il segno della ragione", chi si aspetta quindi un ardire che va oltre i limiti della ragione stessa, rimarrà deluso, i giovani fuggono dalla desolazione ma con l'intendimento di rimanere onesti a un certo decoro facendosi condurre dalla ragionevolezza. 


UN RACCONTO ESEMPLARE 

****Nella impossibilità di commentare tutte le centouno novelle contenute nell'opera, esaminiamo uno dei racconti presenti nel Decameron che consente di vedere come Boccaccio rispose a quei critici che lo accusavano di parlare troppo di donne e d'amore. 
Ne "La novella delle papere" che si trova inserita nell'introduzione della Quarta giornata, troviamo un capolavoro di incompiutezza ma anche l'idea che le forze della natura vanno rispettate, disciplinate e non ignorate. 

**Si apre a questo punto un tema che ci induce ad una riflessione : la natura deve prevalere sull'ingegno come intendeva Boccaccio? 
Quando Boccaccio parlava di concupiscibile appetito, cioè il desiderio di soddisfare il bisogno dei sensi, voleva criticare le pratiche di ritiro in un convento o in un eremo che non toglievano affatto il desiderio sessuale. 
E' un problema questo che è stato dibattuto anche in relazione ai recenti fatti di pedofilia avvenuti all'interno di ambienti religiosi e per quanto non sia eliminabile completamento l'inclinazione al male dell'uomo, si possono mitigare o stemperare le situazioni che creano le condizioni di sviluppo del male non comprimendo il desiderio naturale, disciplinandolo entro canoni socialmente accettabili. 
Se questo aspetto è ormai superato nell'ambito del protestantesimo, rimane ancora irrisolto in quello del cattolicesimo dove il tema del celibato sacerdotale continua a sollevare non poche perplessità anche in ambienti cattolici. 

IL DECAMERON: UNA CRITICA CONTRO L'IPOCRISIA 

Boccacio attraverso il Decameron non solo rivendica una diversa chiave di lettura delle spinte pulsionali presenti nella natura umana ma anche conduce una critica contro ogni forma di ipocrisia e di censura rivendicando il ruolo della natura quale componente essenziale della natura umana ma questa rivendicazione non è mai staccata dall'ingegno che ha il compito di disciplinare le forze pulsionali riconducendole entro i limiti della ragionevolezza, dell'onestà e della gentilezza. 
Considerare la natura significa quindi rispettarla prima di tutto, non abbandonarsi ad essa, è un richiamo quello che fa Boccaccio ai valori individuali che sono comunque sempre riconducibili nell'ambito della natura in quanto l'ingegno stesso è una componente della natura che si pone al servizio della natura stessa impedendo qualsiasi deriva che faccia scivolare l'uomo verso gli istinti più bestiali. 

***** Quanta saggezza emerge nel pensiero di Boccaccio ! Dopo i recenti e terribili fatti di cronaca che hanno visto un mostro accanirsi contro una giovane vita diventa chiaro il messaggio di Boccaccio, troppa ipocrisia e retorica c'è dietro a un'idea di famiglia in cui si celano troppo spesso terribili forze naturali che solo l'ingegno ( come inteso da Boccaccio) può stemperare e condurre entro regole accettabili e condivise...se questo non accade l'uomo ritorna al suo stato bestiale. 


"Io non so, piacevoli donne, se egli mi si verrà fatto di farvi con una mia novelletta non men vera che piacevole tanto ridere quanto ha fatto Panfilo con la sua: ma io me ne ingegnerò"....

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Published by Caiomario - in Libri
15 febbraio 2012 3 15 /02 /febbraio /2012 20:07

LE VERITA' SCOMODE CHE IL LETTORE PERCEPISCE 

Pansa ha la capacità di saper leggere la realtà e non semplicemente di interpretarla, la sua "narrazione" suscita stupore ed è sempre spiazzante e al di là del fatto che i suoi libri riescano a raggiungere i primi posti delle classifiche dei libri più venduti, anche i detrattori sono costretti perciò ad ammettere che le sue opere riescono ad attraversare la storia con gli occhi di chi vive e conosce la contemporaneità svelando al lettore eventi, fatti e circostanze non sempre "facili" da digerire. Purtroppo delle verità non possiamo sbarazzarci soprattutto quando le nostre vicende individuali si intrecciano con il contesto storico del passato. E' bene ricordarlo. 

Il primo libro di Pansa che ho letto è stato "Borghese mi ha detto" molto prima del successo editoriale che è seguito al "Sangue dei vinti", poi dopo averne apprezzato le verità scomode in esso contenute, non ho voluto perdere l'appuntamento con "Sconosciuto 1945" e "Il Revisionista", per anni l'ho seguito in quella straordinaria rubrica che è stata "Il Bestiario". Non mi stupisce pertanto la sua capacità di concentrare l'attenzione sulle pieghe nascoste della storia recentissima. 
Non potevo mancare all'appuntamento di "Poco o niente. Eravamo poveri. Torneremo poveri" che può essere definito un libro di memoria e testimonianza ma nel contempo una strarodinaria occasione per riflettere sulla situazione individuale e collettiva di un popolo che spesso dimentica da dove viene. 

QUELLA STORIA COSI' PERSONALE E COSI' COMUNE 

Attingendo ancora una volta dal passato e avvalendosi dei ricordi familiari di un passato che in parte ha determinato il nostro temperamento, Pansa provoca degli interrogativi a cui probabilmente tutti gli "indignati" dovrebbero cercare di dare risposta e in primis le "mamme e i papà" di adolescenti cresciuti tra playstation, tv satellitare e telefono cellulare. 
Ed è inevitabile arrivare a determinate conclusioni quando Pansa narra le vicende familiari di sua nonna Caterina Zaffiro e del padre Ernesto, non si può leggere questo "racconto" pensando che venga narrata una storia, perchè le vicende narrate sono quelle della nostra storia. 

Un italiano non più giovanissimo come Pansa ha avuto il tempo di conoscere almeno cinque generazioni:quella dei nonni e dei genitori, la sua, quella dei figli e quella dei nipoti, cinque generazioni che coprono almeno un secolo di storia, cento anni durante i quali si sono succeduti fatti ed eventi che costituiscono anche un incontro esistenziale e personalissimo con l'epopea di un popolo passato da un'economia di sussistenza (nel vero senso della parola) ad un'economia che è sempre più in stallo dopo avere attraversato le illusioni del miracolo economico. 

ERAVAMO CONTADINI ED ANALFABETI E LA PAROLA "FAME" SIGNIFICAVA DAVVERO FAME...... 

Mentre l'Italia arretra, i bilanci sono disastrosi e la produttività registra un rallentamento preoccupante, è inevitabile confrontarci con il nostro passato, Pansa da parte sua lo fa partendo dal suo; riconoscersi nella storia da lui raccontata è altrettanto inevitabile quando si attinge a quelllo straordinario giacimento di memorie che sono i racconti familiari ascoltati innumerevoli volte da chi li ha vissuti e che fanno parte della vita di molti italiani. 
L'incapacità di fare i conti con il proprio passato è un grande furto che ci siamo autoinflitti e che sta facendo molto male alle nuove generazioni, a mio parere la gravità della situazione mondiale e, nello specifico di quella italiana, sconta proprio questa incapacità di riflettere sul proprio passato. 
Le vite dei nonni di Pansa erano le medesime dei nostri nonni costretti davvero a faticare come bestie per sopravvivere, basti solamente pensare alla parola "fame" che significava penuria, incapacità di mettere a tavola qualcosa da mangiare e quando si riusciva a farlo, l'alimentazione era costituita da pochi piatti che causavano delle forti carenze alimentari. 
Polenta e fagioli, niente carne ed economia da baratto, questa era l'Italia degli inizi del Novecento. 

LE DONNE FATTRICI 

Molti ignorano e hanno rimosso le proprie origini, la parola "pezzente" ha perso il suo significato originario bisognerebbe davvero riscoprire il suo significato perchè quelle generazioni erano costituite da autentici "pezzenti" che non sapevano neanche cosa fossero le scarpe. 
Quelle generazioni erano costituite da donne "fattrici" che per tutta la vita facevano solo due cose: mettevano al mondo figli e li crescevano (quando era possibile). Le famiglie contadine avevano bisogno di braccia e le "femmine" erano una iattura, era molto meglio avere un figlio maschio che poteva aiutare nei campi che una "femmina" da allevare, tutta quella economia dipendeva dai raccolti e la figura del mezzadro era quella più diffusa, quella generazione non era padrona di niente, non era padrona del suo tempo, dei prodotti coltivati (che doveva dividere con il "padrone") e non conosceva l'espressione "tempo libero" (lusso piccolo borghese). 
Il tempo era un tempo di lavoro, sempre! 

NOI GENERAZIONE DELLE TELEVISIONI AL PLASMA....... 

Ho cercato in tutti i modi di pensare al termine "fame" e non riesco ad immaginare la sensazione che si possa provare ad avere fame, non posso pensare che le bucce di patata possano essere riciclate, non riesco a pensare ad una casa senza bagno e senza frigorifero e, anche se ci penso, sono incapace di coglierne l'autentico significato della parola povertà..eppure non sono ricco, devo lavorare per vivere. 
Ma so cosa significa lottare e inventarsi sempre nuove soluzioni ed adattarsi. 
Ed è proprio la capacità di sapersi adattare quella che manca alla nostra generazione che vive di paure, paura di perdere lo stipendio fisso, paura di perdere le certezze (le proprie), i diritti acquisiti ( a scapito degli altri e anche dei propri figli che non hanno niente). 

....TORNEREMO POVERI 

E' una paura isterica, generazionale che possiamo definire "antropologica", occidentale, ma non è la paura di chi non ha niente ed è abituato a combattere, giorno dopo giorno, perché non ha niente da perdere ( Marx avrebbe detto: "se non le proprie catene), è la paura "bambocciona" del "tutto compreso", è la paura di perdere grandi e piccoli privilegi acquisiti. E' la paura che nasce da una totale incapacità di vedere il futuro, è il timore orribile di chi non ha un piano B per sopravvivere. 
Per questo torneremo poveri! 

La nonna di Pansa come la mia nonna era abituata a combattere, faceva una vita da bestia da soma, ma sapeva sopravvivere, non aveva sovrastrutture mentali, era abituata alla praticità, in quelle comunità c'era sicuramente la cooperazione e la solidarietà, nella nostra no. 

NON CREDO 

Non credo alla fame degli immigrati con il telefonino in mano, non credo alla fame di chi reclama il proprio pezzo di ricchezza, non credo nella fame dei bamboccioni che non vanno via di casa perchè c'è mammà che gli fa trovare il letto pronto e la biancheria pulita, non credo nella fame di coloro che possono permettersi di rifiutare un lavoro perchè non è adatto alle proprie aspettative.....per questo torneremo poveri. 

NON C'E' IL RIMPIANTO DEL PASSATO 

Non c'è alcun rimpianto dei bei tempi andati, Pansa racconta le strazianti condizioni di quelle miserevole masse umane che erano già da oltre 40 anni sotto i Savoia e poi la storia di molti giovani contadini analfabeti che furono mandati a morire in quello che fu lo "scannatoio" più sanguinoso della storia, la Grande Guerra fino al Fascismo che seppe intercettare le delusioni scaturenti dalla Vittoria mutilata. 
Ecco l'Italia proletaria, povera, poverissima ma che aveva la forza di affrontare la realtà anche con rabbia senza acquatarsi nelle elucubrazioni mentali del "come faremo". 
Provo davvero un senso di insofferenza verso questa falsa fragilità che ha paura solo di perdere le comodità e mi riviene in mente Pasolini che come Pansa non era indulgente e sapeva provocare quelli che "stanno dalla parte della ragione" ma lo fanno con la tranquillità di avere sempre la minestra pronta. 
Poco o niente scrive Pansa, troppo e tutto viene da dire per generazioni per le quali tutto è scontato e che non sanno mettere in discussione prima di tutto il proprio stile di vita. 

Forse diventeremo poveri se non avremo la capacità di liberarci dai lacci e lacciuoli dell'indebitamento collettivo, delle macchine prese a rate (per dirla alla Guccini), dell'incapacità di sapersi adattare facendo anche il lavoro che non sognavamo. 
Da sempre l'uomo ha aspirato a migliorare la propria condizione di vita, ma solo nella società postindustriale l'uomo fa le file per acquistare l'ultimo tablet. 
E' pericoloso questo percorso ed è lo stesso che ha portato alla rovina la Grecia responsabile collettivamente delle proprie sorti, è vero il periodo raccontato da Pansa era popolato da poverissimi, ovunque era così, ma erano poveri che non avevano niente, oggi molti rischiano di diventare poveri perché hanno incominciato ad indebitarsi per acquistare ciò che non era necessario. 

Ci hanno convinto che lo sviluppo è produrre beni e tutti (salvo qualche rarissima eccezione) sono stati contenti di produrre e consumare ciò che non serviva ed è anche per questo che diventeremo poveri. 
Le domeniche pomeriggio le famiglie vanno nei centri commerciali ad acquistare i prodotti di terza e quarta gamma perchè durante la settimana mamma e papà non hanno tempo per cucinare per questo diventeremo poveri. 
Riempiamo i cassonetti della Caritas di vestiti che non sono più di moda, per questo diventeremo poveri. 
Viviamo una perenne infanzia per questo diventeremo poveri. 




I popoli vecchi sono destinati a morire, gli individui che non sanno lottare sono destinati a soccombere, il futuro è sempre degli individui che lottano per conquistare nuove posizioni. E' sempre stato così, la storia ci suggerisce quello che è accaduto, una civiltà pingue perde la sua aggressività originaria e muore, così è accaduto a Roma, ormai incapace di resistere ai barbari..... 


E' uno dei più bei libri che ho letto e mi ha fatto pensare  a quando, qualche generazione, fa i nostri avi erano sterratori, minatori, carrettieri e salariati giornalieri. Lo erano in Lombardia e in Calabria, in Sicilia e nel Veneto, vivevano in tristi tuguri e mangiavano un pò di granturco, si vestivano di cenci ed erano falcidiati dalla malaria......lottavano però e non erano indignati....perchè non avevano il posto fisso. 


C'è poco da esultare, il libro di Pansa è spietato nel presentare l'innocenza dei poverissimi

 

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Published by Caiomario - in Libri
13 febbraio 2012 1 13 /02 /febbraio /2012 17:36

 

L'Europa dei ragionieri non può funzionare, il caso Grecia apre degli interrogativi a cui  la classe politica deve dare risposta, pensando solo ai bilanci e ai mercati si finiscono per  umiliare le persone e si provocano  delle rivolte sociali che rischiano di creare dei mostri.

 

 

Dinanzi a quello che è accaduto ad Atene in piazza Syntagma e a quello che probabilmente accadrà dopo gli scellerati diktat imposti dalla Troika, non si può rimanere indifferenti perché la situazione greca potrebbe essere quella di altri paesi europei, compresa l'Italia che non è "così grande da non poter fallire". Anche gli Stati Uniti non sono falliti nel 1929, ma un'intera generazione di americani visse nell'indigenza e quella crisi venne pagata anche da altri che si ritenevano immuni da qualsiasi contagio.

Il problema della Grecia è il problema di questa Europa dove prima si è fatta la moneta e mai si è pensato ad una sua unità politica e alla conseguente armonizzazione legislativa. La Grecia aveva un pubblico impiego di 750.000 dipendenti supergarantiti e un debito pubblico mostruoso, è vero, i conti sono stati truccati, è stato accertato, ma la Germania brava e virtuosa non può tirare la corda oltre ogni ragionevolezza. Strangolare la crescita, riducendo i salari e favorendo la deflazione finirà per ritorcersi contro i ragionieri di Bruxelles, se uno speculatore incallito come George Soros ha affermato che «la Merkel sta portando l’Europa nella direzione sbagliata», bisogna ripensare all'Europa così come è concepita e come è governata di fatto da una Germania sempre più dipendente dall'export e che sta impostando la vita delle persone secondo criteri ragionieristici che vanno contro lo spirito di quegli europeisti come Adenauer e Spinelli che sognavano un'altra Europa.

Se si voleva combattere la corrutela greca che ha radici lontane e che ha determinato un altissimo costo della vita, bisognava pensarci prima,  Bruxelles lo sapeva che i bilanci erano truccati, perché allora si è arrivati a tanto? Perché le banche francesi e tedesche hanno acquistato titoli che non offrivano nessuna garanzia? Perchè la Germania ha acquistato 25 miliardi di titoli di stato greci spazzatura? Uno dei problemi del bilancio greco è senza dubbio il numero altissimo di dipendenti pubblici assunti (come purtroppo accade anche in Italia) per motivi elettorali e di clientela, ma le misure draconiane volute dall'Europa rischiano solo di fare dei danni irreversibili, licenziare migliaia di persone significa condannarle con certezza alla miseria. L'Europa, questa Europa, piace sempre meno ai cittadini, sottovalutarlo significa creare le premesse per un disastro economico e politico. Chi ha orecchie per intendere, intenda.

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Published by Caiomario - in Società
12 febbraio 2012 7 12 /02 /febbraio /2012 09:29

Prima dell'approvazione della cosiddetta Riforma Gelmini le cronache di stampa hanno riportato che alla Sapienza di Roma insegna, in qualità di professore ordinario, Giacomo Frati il figlio del Rettore Luigi Frati, il giovane ha vinto un concorso dove c'erano 25 candidati tutti più anziani di lui, sicuramente deve essere un giovane di talento. E una famiglia di talentuosi quella del Rettore dell'Università La Sapienza perchè come riferito da quell'impareggiabile segugio che risponde al nome di Gian Antonio Stella, nella stessa facoltà insegnano anche la figlia ( Medicina legale con laurea in giurisprudenza) e la moglie (Storia della medicina con laurea in lettere). In merito alla veridicità di quanto è stato scritto e denunciato  non ci sono state mai smentite, il che significa che Stella ha ancora una volta colpito nel segno. Forse quei professori al governo che criticano i giovani che vorrebbero -a parere loro- lavorare vicino a casa dovrebbero pensare anche a questa vicenda considerando che un giovane a cui viene proposto di lavorare lontano da casa, in cambio di 800,00 euro al mese non può permettersi di affrontare il costo di un affitto.

Che speranza  quindi hanno i giovani di talento di inserirsi nelle università dove parenti e figli di eccellenti e magnifici personaggi hanno occupato ogni spazio possibile?  Se questa è la condizione delle università italiane le proteste dei giovani indignados non si sarebbero dovute rivolgere prima di tutto contro le baronie? Sarebbe auspicabile che Monti liberalizzasse l'accesso alle università introducendo una norma in base alla quale l'assunzione  in qualità di docente venisse effettuata con criteri assolutamente oggettivi, le commissioni d'esame dovrebbero poi essere costituite da membri di chiara fama a livello internazionale esterni alle stesse università. I concorsi dovrebbero essere decisi dallo Stato e non dalla singola università, infine, come  già accade in molti paesi dove le università contano e sfornano menti, l'incarico di docente universitario dovrebbe essere a tempo in base ai contributi reali dati alla comunita scientifica. Insomma non servono impiegati nè tanto meno insegnanti che fanno didattica, ma docenti che professano.

Nella maggior parte delle università italiane i ricercatori insegnino al posto dei professori, ma non dovrebbe essere i professori ad insegnare? Non ci dovrebbe essere un controllo anche su questo esercizio abusivo della professione di docente svolta da chi non ne ha titolo? Forse si parlerà ancora di scuola e di università ed è probabile che riprendano le cicliche proteste degli indignados. Ma dobbiamo indignarci prima di tutto contro la pratica tutta italiana dei baroni che spesso non portano nessun contributo in  termini di conoscenza, ma pensano solo a sistemare gli amici. Abbiamo bisogno di professori preparati che qulifichino le nostre Università, se non si percorre questa strada tutto diventerà inutile.

La Sapienza è al 430° posto nel mondo, pochino visto il nome. Chi ha buone orecchie per intendere, intenda.

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-barone-frati/1477028

http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/12_febbraio_10/parentopoli-declino-sapienza-stella-1903219662600.shtml?fr=box_primopiano

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Published by Caiomario - in Società
11 febbraio 2012 6 11 /02 /febbraio /2012 20:21

C'è differenza tra essere assolti per non aver commesso il fatto ed essere assolti per prescrizione. Il Giudice può emettere una sentenza di "assoluzione piena" solo ed esclusivamente quando "l'imputato è assolto per non aver commesso il fatto", emette invece una sentenza di "assoluzione con formula dubitativa" quando non è stato possibile accertare la colpevolezza dell'imputato.
Quando il Giudice dichiara che il reato è stato commesso ma che non può emettere una sentenza di condanna perché "sono decorsi i termini della prescrizione", il reato non viene cancellato, ma viene prescritto. Un reato commesso ma prescritto quindi è cosa ben diversa da essere assolti per non aver commesso il fatto, in termini semplici una cosa è essere innocenti e una cosa è essere colpevoli ma non perseguibili....ecco la partita che si gioca a Milano nel processo a Silvio Berlusconi per corruzione in atti giudiziari in riferimento al caso Mills.

 

Il pubblico ministero Fabio De Pasquale nella sua requisitoria ha rammentato la sentenza della Corte di Cassazione che, nei confronti di Mills, non ha emesso una sentenza di condanna per l'avvenuto decorso dei termini di prescrizione. Ha affermato De Pasquale che nelle motivazioni della sentenza  vi sono "passaggi di fatto accertati definitivamente e legati alla colpevolezza di Silvio Berlusconi di cui parliamo in questo processo". ''Bisogna prendere atto di questa sentenza''. ha aggiunto lo stesso pubblico ministero. L'esito dell'intera vicenda si sa già come andrà a finire, rimarrà comunque a futura memoria il merito che sarà raccontato nei libri di storia....dove non esiste prescrizione.


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Published by Caiomario - in Società
11 febbraio 2012 6 11 /02 /febbraio /2012 10:57

 
Chissà se Fabio Volo con il suo "Esco a fare due passi" ha solo voluto fotografare la realtà personalissima di un trentenne come tanti oppure abbia voluto indicare una via per combattere le contraddizioni della vita moderna oppure abbia voluto fare una sorta di confessione. Certo leggendo oggi questo libropubblicato per la prima volta nel 2004, è  fin troppo facile arrivare a delle conclusioni forse diametralmente opposte a quelle che il lettore "medio" avrebbe fatto 8 anni fa. Supposizioni a parte, "Esco a fare due passi"è un bel libro intanto perché fa riscoprire il gusto della lettura per la lettura, ma anche perché, nonostante, il presunto disimpegno, l'autore ha il buon gusto di fare raccontare al protagonista (Francesco) quello che lui stesso pensa. Francesco ha ogni spazio della sua vita riempito da un lavoro invadente che gli dà poche possibilità di vivere una vita sociale normale e soddisfacente, forse l'unico ambiente in cui ha delle relazioni è quello lavorativo, un ambiente di cui, se non fosse per ragioni di necessità, farebbe sicuramente a meno. L'acquisto compulsivo è la terapia che Francesco adotta per combattere lo stress da lavoro, ma presto si rende conto che più compra, più deve spendere e più è costretto a spendere, più deve lavorare e più lavora più cresce il livello di stress.

Fabio Volo non è un teorico della decrescita nè un filosofo (e probabilmente non lo vorrebbe essere) ma attraverso il suo racconto scritto con uno stile coinvolgente arriva al nocciolo della questione evidenziando la vera contraddizione di questa nostra società occidentale. Abbiamo visto che se la filiera si ferma tutto il mondo dell'economia crolla come un castello di carte, eppure continuano ad invitarci a spendere per comprare cose di cui non abbiamo bisogno. Ormai molti sono condannati a lavorare per pagare i debiti contratti acquistando la spazzatura che ci propongono. Il livello di stress così sale mentre il portafoglio si svuota.

Allora? Ognuno arrivi alla sua conclusione compresa quella di essere ostaggi delle finanziarie che ti legano a vita. Del resto Francesco non vuole altro che un lavoro tranquillo, fare una vita più sana e...smettere di fumare. Aspirazioni legittime e non un desiderio da condannare come sostiene qualche "professore" con la vocazione del posto fisso (per lui e per i figli) e della precarietà (degli altri).

Secondo un sondaggio di IPR Marketing, un italiano su due fatica ad arrivare alla fine mese e sono pochissimi coloro che riescono a destinare una parte del loro reddito al risparmio. E' vero ci sono salari sempre più bassi, molte persone sono in cassa integrazione e prendono il 50 per cento di quello che prendevano quando lavoravano a tempo pieno, altri sono in un perenne stato di precarietà, ma è anche vero che molti pagano ogni mese delle "mini rate" che falcidiano le loro entrate e che spesso si aggiungono alla rata del mutuo.

I love shopping? No grazie.....

 

"....nelle auto prese a rate dio è morto, 
nei miti dell' estate dio è morto... " Francesco Guccini

http://www.youtube.com/watch?v=u5XY42Y4m8A




 

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11 febbraio 2012 6 11 /02 /febbraio /2012 10:09

Il tema del lavoro è stato sempre di attualità ed è sicuramente quello più lacerante perché colpisce in pieno la vita delle persone. E' innegabile negarlo ma in nome del lavoro si è pronti a fare qualsiasi cosa ed è altrettanto amaro constatare che per avere uno stipendio anche gli stessi lavoratori sono pronti a produrre qualsiasi cosa, comprese le mine antiuomo. Non credo pertanto nelle ragioni di chi antepone il proprio "tengo famiglia" a ragioni che stanno alla base della coesione sociale e sono l'essenza stessa di uno Stato e di una società. Se così non fosse verrebbe meno il patto sociale che spinge gli uomini a stare insieme per ragioni egoistiche ma sempre funzionali alla loro stessa sopravvivenza. 

Oggi che si parla di "Riforma del mercato del lavoro" diventa illuminante fare riferimento alle opere di Jeremy Rifkin, il più dissacrante e lucido pensatore di economia da almeno vent'anni a questa parte. Definire Rifkin un economista è alquanto riduttivo, a mio parere le sue riflessioni fanno già parte di quel filone del pensiero che fa tutt'uno con la riflessione filosofica. Basti pensare all'economia politica inglese, e sopratutto a Smith che ebbero un ruolo fondamentale nella formazione culturale del giovane Hegel. Esiste quindi un'influenza dell'economia politica sulla filosofia e viceversa. 

"La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l'avvento dell'era post mercato" si inscrive pertanto nel filone delle opere classiche di economia politica. In un certo qual modo il dissacrante Rifkin nella sua lucidità riprende alcuni motivi smithiani come quello del lavoro come punto centrale e fondamentale dello sviluppo umano. 
L'idea del carattere contraddittorio del lavoro è stato un tema tipicamente hegeliano e oggi più che mai anche in quella che Rifkin definisce l'era post mercato assume un rilievo caratterizzante ed essenziale per le economie globalizzate. 
Hegel fu un profeta che aveva intravisto la possibilità della sostituibilità del lavoro da parte della macchina, Rifkin analizza il problema della disoccupazione proprio partendo dalla rivoluzione tecnologica ed informatica diffusasi a partire dagli anni '80. 
Nel libro quindi emerge una prospettiva radicalmente diversa della condizione umana, ma che presenta delle analogie con quanto è accaduto ai tempi della prima rivoluzione industriale quando l'introduzione delle macchine, ridusse in modo sensibile l'impiego della forza lavoro. 
Dinanzi a questa situazione è quindi pensabile dialetticamente una diversa condizione umana? E' un interrogativo che Rifkin si pose sin dal 1995 quando profetizzò la precarietà del lavoro come condizione permanente delle nuove generazioni. La critica del concetto di lavoro post moderno si incentra pertanto su quello che è il più grande cambiamento epocale che riguarda l'attività lavorativa; se rispetto al passato avevamo bisogno di molte braccia e di poche menti, oggi al contrario abbiamo necessità di molte menti e poche braccia. 

La situazione delineata da Rifkin è quindi solo l'estrema conseguenza della razionalizzazione della società mercantile che oggi non parla più di macchine e vapore, ma di nanotecnologie ed elettronica miniaturizzata. Anche quelli che sono i cosiddetti paesi emergenti dove il costo del lavoro è basso, si stanno spostando verso questa direzione, il lavoro è diventato quindi un oggetto, una sorta di meccanismo impersonale dentro il quale la maggior parte degli individui vengono schiacciati. 
Rifkin in questo bellissimo saggio delinea un'analisi della società attuale che non si limita a "fotografare" la situazione di fatto, ma a proporre delle soluzioni che vanno in netta controtendenza rispetto alle "magnifiche" idee dei geni dell'economia che ci stanno portando letteralmente alla rovina. 

Una delle soluzioni proposte da Rifkin è quella della riduzione dell'orario del lavoro; un'idea che sembra un'utopia ma che è l'unica strada percorribile nel momento in cui vi è la necessità di non escludere la maggior parte delle persone dal processo produttivo. Basti pensare che l'idea stessa dei contratti di solidarietà si basa sul concetto che per guadagnare tutti, bisogna che ognuno rinunci a una piccola parte del proprio salario per salvaguardare quanti più posti di lavoro possibili.

 
I nemici del lavoro nell'era post mercato non sono quindi le tecnologie, ma le politiche dei governi, abbiamo visto come in Germania la situazione occupazionale sia in netta controtendenza rispetto al resto dei paesi europei, anche se molti dubbi sorgono sulle soluzioni adottate come quella dei cosiddetti "minijob". C'è  comunqueda fare molto anche nel settore delle energie alternative e del no profit, si potrebbero creare milioni di posti di lavoro, in tutto il mondo. Rifkin indica questa strada, è un peccato che chi ci governa si muova esattamente nella direzione contraria. 

Libro consigliato. 

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Published by Caiomario - in Libri
9 febbraio 2012 4 09 /02 /febbraio /2012 06:40

Quando Enzo Biagi e Loris Mazzetti stavano "buttando giù" le prime pagine di "Quello che non si doveva dire" era la fine di febbraio 2006, si era in piena campagna elettorale. E' proprio Biagi a raccontarlo, vale la pena riportare il passo: 

"Berlusconi ha imperversato giorno e notte in quasi tutti i programmi TV, denunciando che gli impediscono di andare in televisione. Prodi ha accettato il confronto televisivo, il ministro Roberto Calderoli ha già fatto vedere la maglietta con le vignette satiriche su Maometto da Mimun e dopo ci sono stati quattordici morti a Bengasi". 

Sembra la cronaca di un secolo fa, da allora molte cose sono cambiate: Biagi è passato a miglior vita, Berlusconi non è più Presidente del Consiglio, Clemente Mimun non è più alla Rai e, a Bengasi, del regime di Gheddafi rimangono solo le tragiche ferite. 
Gli italiani oggi hanno imparato nuovi termini: spread, BCE, crisi, disoccupazione, ma i modelli culturali anche di coloro che si trovano in una momentanea ibernazione economica e politica, non sono cambiati. I nostalgici del berlusconismo sono lì e attendono la rivincita. Molti di loro condivisero la scelta (vigliacca) di vietare a Enzo Biagi di andare in onda con il suo programma di successo "Il Fatto" e c'è da giurarci che nella RAI politicizzata le trame per fare fuori eventuali emuli del giornalista bolognese non mancano, solo che tutto questo oggi avviene con i cavilli legali e non con scomuniche lanciate ad personam e "ad listam". 

Silvio Berlusconi ha annunciato in un intervista rilasciata al Financial Times che non si ricandiderà per Palazzo Chigi, Bossi sembra contento delle decisione. Anche se le cose sembrano essere cambiate, rimane irrisolto il problema della libertà di informazione. 
Oggi come allora ci sono molte che non si devono dire: Santoro ha dovuto creare un suo programma "Servizio Pubblico" perché "Anno zero" era diventato il motivo principale di discordia tra gli opposti schieramenti, i seguaci di Silvio lo accusavano (e lo accusano) di faziosità, ma ora non possono fare niente perché con una mossa da grande giocatore di scacchi, Santoro gli ha spiazzati tutti decidendo di trasmettere su canali alternativi, compreso anche il web. 

Eppure c'è da riflettere anche oggi, leggendo quanto Biagi scrive: 

"Non voglio fare del moralismo in questo mondo c'è spazio per tutto e per tutti, ma quando accendi la televisione e guardi che, oltre al Grande Fratello. vanno in onda anche L'isola dei famosi, La fattoria e Music Farm, mi pare eccessivo". 

Biagi aveva ancora una volta colpito nel segno, la televisione era diventata lo spazio per narcotizzare la mandria dove l'unica cosa che conta è esserci. Le nuove generazioni sono cresciute con i pacchi, le isterie di giovani "pompati" e di signore e signorine "sboccacciate" che erompono in improvvise crisi di nervi. Abbiamo bisogno dell'avanspettacolo ma questo che viene trasmesso non ha niente di quella bellezza semplice e anche le signorine sono meno belle delle soubrette di quei tempi. 

"Quello che non si doveva dire" è quello che Biagi non ha potuto dire in televisione in seguito al famigerato "editto bulgaro" di Silvio Berlusconi che ne volle l'estromissione dalla Rai. Ancora oggi Berlusconi è convinto di avere largo consenso, forse è vero, ma in base ai "suoi" sondaggi dalla sua parte non c'è più del 36 per cento degli italiani, siamo comunque lontani dalle percentuali bulgare sbandierate ai tempi dei sorrisi stampati. Ha comunque ancora timore della stampa non collaborazionista, prima c'era Biagi oggi ci sono ancora Santoro e Travaglio ma sono imprendibili, non può lanciare più alcun editto, parlano dall'etere. Nuzzi, poi, non ha alcun timore reverenziale nei confronti di nessuno, Vaticano compreso.

Vale la pena conoscere i retroscena di questa vicenda, i fatti non sono ancora noti a tutti, almeno per quanto riguarda i risvolti e i particolari. Biagi li racconta con tutta l'amarezza di chi certe cose le aveva già viste.. Nel primo capitolo Biagi annota la presa di posizione di diversi personaggi non schierati del mondo cattolico, come ad esempio, quella di due monache comboniane che, dinanzi alla situazione dell'Italia berlusconiana, osservarono che "solo nei paesi sotto dittatura avevano sperimentato simili mezzi di propaganda". Forse è eccessivo, ma è pur vero che i provvedimenti che la maggioranza stava per prendere in materia di informazione, avrebbero anche colpito la rete e quindi la possibilità di esprimersi liberamente. 

Il racconto di Biagi, letto oggi, sembra fare riferimento ad un'epoca trapassata ma gli effetti di una certa politica fatta di "sorrisi, ammiccamenti, occhi sbarrati, mascella contratta" purtroppo li stiamo scontando e pagando oggi. E non si può non ricordare il cosiddetto "metodo Boffo" e la gazzarra, montata ad arte, sul caso della casa di Montecarlo, un caso creato per colpire Fini reo di lesa maestà. 

Nel 1° capitolo del libro, Biagi ricorda monsignor Bettazzi che affermò: 

"Votiamo secondo coscienza, valutando ciò che è più utile alla gente, ma diffidiamo e contestiamo di fronte a chi si atteggia a difensore della Fede, mentre in realtà è al servizio dei propri interessi". Chi ha orecchie per intendere, intenda!!" 

 

 

La TV generalista è vecchia, ma sono molti i programmi che permettono di conoscere quello che sta accadendo. Non tutto però emerge, un caso è emblematico a tal proposito: un giovane analista è stato licenziato da un SIM importante perché scriveva dei report in cui venivano analizzata la reale situazione finanziaria di società quotate in borsa. Non ne ha parlato nessuno, solo Radio24 lo ha denunciato. Biagi lo avrebbe raccontato nel suo "Il Fatto", ma in prima serata TV.
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6 febbraio 2012 1 06 /02 /febbraio /2012 16:07

Secondo alcuni, se venisse approvato anche in Senato l'emendamento del deputato del Carroccio Pini sulla responsabilità civile dei magistrati, gli stessi non sarebbero liberi di decidere qualora si trovassero nella situazione di giudicare degli imputati ricchi ed eccellenti. 

Nel 1987 trionfarono i si nel referendum che introdusse la responsabilità civile dei magistrati, nel 1988  con la legge Vassalli vi fu una correzione proprio per evitare possibili storture e garantire l'indipendendenza dei giudici, nella norma, tutt'ora in vigore si stabilisce che un magistrato per colpa grave o per dolo paga. L'emendamento Pini vuole modificare parte di questa norma prevedendo per il cittadino la possibilità di agire non solo contro lo stato, ma anche contro il soggetto ritenuto colpevole ossia il magistrato chiedendo il risarcimento patrimoniale dei danni per violazione manifesta del diritto.

Secondo il vicepresidente del CSM Michele Vietti non si può assimilare l'azione dei magistrati a quella dei medici, ad esempio, che se sbagliano pagano in quanto il "magistrato è  un unicum"; Giuseppe Cascini il segretario dell'Associazione  Nazionale Magistrati ha corretto il tiro spiegando che "vi è una differenza enorme tra i magistrati e i medici per il semplice fatto che il magistrato deve decidere tra due persone, chi ha torto e chi ha ragione e che quindi tutte le decisioni di un magistrato, a differenza di quello che accade nei medici che insperabilmente non incorrono sempre in errori, danno torto a una delle deu parti, per cui vi sarà sempre una persona insoddisfatta; pensare allora che una persona che ha perso la causa possa agire nei confronti del giudice , chiedendo un risarcimento al giudice per la decisione che viene reputata sbagliata significa da un lato moltiplicare all'infinito le cause, perché la persona che ha torto continuerà a fare causa al giudice che gli da torto all'infinito fino a che non troverà un giudice che gli dà ragione e altro è il meccanismo di funzionamento della giustizia. Ma non è un unicum il magistrato, questo vale per tutti i funzionari pubblici, non si può fare causa al vigile urbano che ci ha fatto una multa, non si può fare causa all'ispettore delle tasse che ci fa un accertamento, non si può fare causa al poliziotto che fa un accertamento su di noi. Si fa causa allo Stato per i comportamenti dei funzionari pubblici, poi lo Stato nei confronti dei propri funzionari ha una serie di strumenti per fare valere la loro responsabilità: l'azione di rivalsa che è prevista per i magistrati e gli altri funzionari dello stato nei casi di dolo e colpa grave, l'azione disciplinare e altri strumenti per censurare comportamenti illeggittimi dei funzionari.

 

La risposta di Cascini è corretta, puntuale e ha sollevato un problema che non può essere affrontato dicendo semplicemente "ti faccio causa per ottenere il risarcimento patrimoniale e se perdi paghi". Anche tra i magistrati vi è una gerarchia di bravi, meno bravi e mediocri, in poche parole anche tra i giudici vi sono quelli preparatissimi che studiano il diritto e continuano ad aggiornarsi ed altri che sono scarsamente preparati e che hanno "impiegatizzato" quello che non è un semplice rapporto di lavoro da pubblico dipendente. Gli errori pacchiani di giudici poco preparati possono causare dei danni patrimoniali gravissimi anche se non c'è dolo e la colpa grave, tra l'altro, è difficilissima da dimostrare.

L'onorevole Enrico Costa ha detto che i casi di rivalsa nei confronti dei magistrati sono limitatissimi, ecco i numeri in base a quanto scritto nella relazione dell'Avvocato generale dello Stato e udito dalla Commissione giustizia della camera: "dalla prima applicazione della legge ad oggi risulta proposte poco più di 400 cause, di queste 400, ben 253 sono state dichiarate inamissibili con provvedimento definitivo, 49 sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70 sono in fase di impugnazione e di decisioni di inamissibilità e 34 sono state dichiarate ammissibili".

 

Il problema esiste, il magistrato deve agire senza che venga effettuata nessuna pressione nei suoi confronti e deve poter decidere in piena libertà nei confronti di tutti tutelando  anche i soggetti più deboli e meno abbienti dalle prepotenze di coloro che violano la legge avendo magari risorse ingenti per ricorrere in giudizio, ma è auspicabile che il legislatore di concerto con i suggerimenti del CSM e dell'Associazione Nazionale Magistrati trovi un meccanismo validoed efficace  per valutare la preparazione di un giudice e questo dovrebbe avvenire nel corso di tutta la carriera dello stesso. Non si può fare carriera nella magistratura semplicemente per anzianità, l'avanzamento dovrebbe avvenire per merito e il merito in questo caso significa preparazione e conoscenza del diritto; per valutare la preparazione dovrebbero quindi esserci dei concorsi e gli esami dovrebbero essere lunghi e difficili. In caso contrario i torti  nei confronti dei cittadini dovuti ad impreparazione si moltiplicheranno e il costo economico  sarà ancora una volta scaricato sulla collettività. Ma è difficile che si scelga questa strada, per ora  nella magistratura si fa carriera solo per "meriti" anagrafici. 

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