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22 febbraio 2019 5 22 /02 /febbraio /2019 16:25
Epistula secunda ad Lucilium - Seneca

SENECA LUCILIO SUO SALUTEM

1. Ex iis quae mihi scribis et ex iis quae audio, bonam spem de te concipio: non discurris nec locorum mutationibus inquietaris. Aegri animi ista iactatio: est primum argumentum compositae mentis existimo posse consistere et secum morari. 2. Illum autem vide, ne ista lectio auctorum multorum et omnis generis voluminum habeat aliquid vagum et instabile. Certis ingeniis inmorari et innutriri oportet, si velis aliquid trahere quod in animo fideliter sedeat. Nusquam est qui ubique est. Vitam in peregrinatione exigentibus hoc evenit, ut multa hospitia habeant, nullas amicitias; idem accidat necesse est iis qui nullius se ingenio familiariter applicant sed omnia cursim et properantes transmittunt. 3. Non prodest cibus nec corpori accedit qui statis sumptus emittitur; nihil aeque sanitatem inpedit quam remediorum crebra mutatio; non venit vulnus ad cicatricem in quo medicamenta tempantur; non convalescit planta quae saepe transfertur; nihil tam utile est ut in transitu prosit. Distringit librorum multitudo; itaque cum legere non possis quantum habueris, satis est habere quantum legas. 4.'Sed modo' inquis 'hunc librum evolvere volo, modo illum' Fastidientis stomachi est multa degustare; quae ubi varia sunt ed diversa, inquinant, non alunt. Probatos itaque semper lege, et si quando ad alios deverti libuerit, ad priores redi. Aliquid cotidie adversu paupertatem, aliquid adversu mortem auxili compara, nec minus adversus ceteras pestes; e cum multa percurreris, unum excerpe quod illo die concoquas. 5. Hoc ipse quoque facio; ex pluribus quae legi aliquid adprehendo.Hodiernum hoc est quod apud Epicurum nanctus sum (soleo enim et in aliena castratransire, non tamquam transfuga, sed tamquam explorator): 'honesta' inquit 'res est laeta paupertas. 6.Illa vero non est paupertas, si laeta est; non qui parum habet,sed qui plus cupit, pauper est. Quid enimrefert quantum illi in arca, quantum in horreis iaceat, quantum pascat aut feneret,si alieno imminet, si non adquisita sedadquirenda conputat? Quis sit divitiarum modus quaeris? Primus habere quod necesse est,proximus quod sat est.Vale

 

SENECA SALUTA IL SUO LUCILIO

 

1.Dalle cose che scrivi e dalle cose che sento, nutri per te buone speranze: non vai correndo qua là né ti inquieti a causa della voglia di cambiare luoghi. Questa agitazione è sintomo di un animo malato: penso che il primo indizio di una mente equilibrata possa consistere nel fermarsi e nel stare in compagnia con se stessi. 2. Bada poi che la lettura di molti autori e di ogni genere di libri ha qualcosa di incostante e di volubile. Occorre che tu ti soffermi e ti nutra di autori di gran talento, se desideri ricavare qualcosa che rimanga ben radicato in te. Chi è dappertutto non è in nessuna parte.Questo accade alle persone che passano la vita in viaggi, sebbene abbiano molte relazioni di ospitalità, non hanno alcuna amicizia; la stessa cosa accade a coloro i quali non si dedicano con intensità ad alcun autore ma sfogliano tutto in modo veloce affrettandosi. 3. Non è di giovamento il cibo che viene ingerito e subito dopo rigettato; allo stesso modo ostacola la buona salute il frequente cambiamento di medicine; non si cicatrizza la ferita nella quale vengono provati diversi medicamenti; una pianta se viene spostata spesso non si irrobustisce; niente è utile da dare giovamento quando è di passaggio. Una gran quantità di libri distrae, e così non potresti leggere tutti i libri che potresti avere, è sufficiente che tu ne abbia quanti puoi leggerne. 4. "Ma" -tu obietti - " io voglio sfogliare ora questo libro ora quell'altro". Mangiare molte cose è tipico di uno stomaco che prova fastidio: i cibi che sono vari e diversi non nutrono intossicano. Leggi sempre autori riconosciuti e si ti piacerà passare ad altri autori, ritorna poi ai primi. Ogni giorno procura un aiuto contro la povertà, contro la morte e, anche, contro le altre sventure; e quando avrai fatto molte letture, estrai una concetto su cui riflettere per quel giorno. 5. Anche io stesso faccio questo; apprendo qualcosa dalla pluralità di cose che ho letto. Questo è quello che oggi ho trovato per caso presso Epicuro ( ho l'abitudine infatti di attraversare gli accampamenti altrui non tanto come  un fuggitivo ma  come un esploratore): "Nobile cosa -dice - è una povertà gradita" 6. Quella invero non è povertà, se è gradita; non è povero chi ha poco ma chi desidera continuamente. Che cosa importa quanto uno abbia in cassaforte, quanto grano sia conservato nel granaio, quanto bestiame sia al pascolo e quanto capitale renda, se invidia le cose altrui, e non apprezza le cose acquisite ma le cose da acquisire? Mi domandi  quale sia  il modo giusto di porsi dinanzi alle ricchezze? Primo avere ciò che è necessario, poi ciò che basta. Sta bene.  

Traduzione di Caiomario

 

Commento 

La seconda lettera a Lucilio si articola riflettendo su tre concetti: il primo riguarda l'importanza di starsene tranquilli e in compagnia di se stessi evitando di correre qua e la e di agitarsi continuamente; il secondo, sviluppando il primo argomento,  sulla necessità di non sprecare tempo ed energie affrontando la lettura di un gran numero di autori ma di concentrarsi solo su quelli di riconosciuto valore; il terzo sull'importanza della povertà quando è gradita e quanto valore abbia per la salute dell'animo non desiderare più di quello che serve. Seneca dice "primus habere quod necesse est, proximus quod sat est" " la prima cosa è possedere ciò che è necessario, poi ciò che basta" . Quest'ultimo concetto è una costante nel pensiero senecano che deriva dal disprezzo per i beni materiali sostenuto da quell'Attalo che fu il maestro di Seneca e verso il quale  egli nutriva una grande ammirazione e un debito di riconoscenza. Come è sua abitudine Seneca conclude la lettera con un "munusculum" "un piccolo dono" citando una sentenza di Epicuro, sentenza che egli cita con un certo pudore con la consapevolezza che grande era la distanza esistente tra lui che viveva lo stoicismo in libertà e l'epicureismo ma  nello stesso tempo proprio il suo senso di libertà consentiva a Seneca di transitare nei campi altrui non come un disertore ma come un esploratore pronto a cogliere i frutti migliori di questa o quella dottrina filosofica.

Caiomario

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Published by Caiomario - in Letteratura latina e greca
18 ottobre 2014 6 18 /10 /ottobre /2014 08:13

Molti storici hanno parlato degli altri ma su di loro hanno scritto poco o niente, leggere le loro opere permette  però di conoscere la loro anima e  il loro stile ma spesso si apprende poco sulla loro vita. Gli storiografi romani tendevano all'impersonalità ma non erano esenti dalla passionalità  e Tacito che scrisse su Roma opere importantissime non faceva  certo eccezione. Pierre Grimal con il suo "Tacito" ci fornisce la  biografia  più completa finora pubblicata sullo storiografo romano.

L'AUTORE

Pierre Grimal è uno degli studiosi più attenti della romanità, ha scritto numerose biografie di personaggi celebri dell'antica Roma, il taglio dei suoi libri pur essendo discorsivo è improntato secondo i canoni del metodo scientifico; tra i suoi numerosi libri va annoverato un prezioso dizionario di mitologia e uno studio originale sui giardini delle ville romane. I suoi studi, inoltre, hanno contribuito ad arricchire la conoscenza di Roma antica fornendo molti elementi per apprendere lo spirito di un'epoca.  Tra le sue opere più significative si ricordano:

  • Città romane (1981)
  • Il secolo degli Scipioni: Roma e l'ellenismo al tempo delle guerre puniche (1981)
  • L'arte dei giardini, una breve storia (1996
  • L'anima romana: valori e stili di vita della civiltà latina (1998)
  • Mitologia (1999)
  • Tacito (2001)
  • Marco Aurelio (2004)
  • Cicerone (2011)
  • Seneca (2011)



IL LIBRO

Autore: Pierre Grimal
Titolo: Tacito
Editore: Garzanti
Anno di pubblicazione: 2001
Pagine: 357
Prezzo: 11, 10
Codice EAN:     9788811676805
Codice ISBN: 8811676800


Pierre Grimal ricostruisce la vita di una delle più grandi personalità dell'età di Nerone: Cornelio Tacito; Tacito insieme a Tito Livio è stato il più grande storico dell'antica Roma. Lo storiografo dell'impero è ancora oggi uno dei personaggi più misteriosi della romanità, se di Livio conosciamo le origini, la data di nascita e di morte, di Tacito ignoriamo persino il praenomen.
Di dove era orginario Tacito? Fino ad ora tutti gli storici hanno brancolato nel buio e si sono rifatti ad un famoso passo degli Annali (IV, 3) in cui le sue origini sembrerebbero romane, ma è anche accreditata la tesi in base alla quale Tacito fosse orginario di Interamna in provincia di Terni.

Grimal riporta anche il famoso episodio degli onori che vennero tributati  a Terni tra il 275 e il 276 d.C all'imperatore Tacito che portava lo stesso nome dello storico e che si vantava di essere suo discendente.
Oltre a queste due ipotesi che fanno riferimento ai documenti a noi pervenuti, vi sono anche altre ipotesi come quelli di Fabia-Wuilleumier, Ettore Paratore e Syme secondo i quali Tacito era orginario della Gallia, in quanto il cognomen Tacitus si ritrova in molte iscrizioni della Gallia di cui era originario il generale Cneo Giulio Agricola. Ovviamente Grimal sotto questo punto di vista non può inventare nulla, ma cuce e mette insieme le diverse tesi.
Grimal non inventa niente e non potrebbe del resto fare cosa diversa essendo egli stesso uno storico che fa riferimento  sempre ai documenti esistenti, del resto anche per le ipotesi circa la presunta data di nascita di Tacito, Grimal deve per forza rifarsi ai documenti che ci sono pervenuti come quello di Plinio il Giovane, il quale nei suoi scritti affermò di essere poco più anziano di Cornelio Tacito. Se Plinio il Giovane è nato ne 61 o nel 62 d.C. la data di nascita di Tacito è collocabile in un periodo immediatamente antecedente, anche se la vaghezza dell'affermazione di Plinio il Giovane impedisce di dare un'indicazione precisa.

Che lavoro faceva Tacito? Tacito iniziò a lavorare come avvocato e sotto Vesapasiano divenne questore per poi diventare propretore in una lontana provincia di Roma, aveva una cultura giuridica ma come spesso accadeva nella Roma antica, il confine tra politica, cose giuridiche e pubbliche era talmente labile che era facile avere una giusta entratura politica per fare carriera nello Stato (sotto questo punto di vista, noi italiani siamo degni eredi di Roma).
Morì nei primi anni in cui Adriano era imperatore, è sconosciuta la data della morte.

L'ANGOLO PERSONALE

Il libro di Grimal ha il pregio di mettere insieme notizie spesso frammentarie circa la vita del grande storiografo romano dandole unità ed organicità; il racconto unitario che ne esce fuori consente di leggere la vita di Tacito senza quel carattere composito che hanno talune ricostruzioni della sua biografia.
Dal ritratto fatto da Grimal ne esce fuori un uomo passionale che aveva sempre visto la storia come un succcedersi di eventi in cui il bene è contrapposto al male; sotto questo punto di vista Tacito non appare diverso da Tito Livio e da Sallustio, è perfettamente aderente all'idea del racconto della storia come esaltazione della virtù contrapposta al vizio che nell'impero prevaleva ad ogni livello.
Il taglio dato da Grimal all figura di Tacito è sicuramente quella più vicino alla realtà, Tacito fu infatti un fustigatore dell'Impero e non un suo difensore, il ritratto che lui fece degli imperatori romani fu quello di uomini ignominosi e pur assolvendo alcuni imperatori come Nerva e Traiano, Tacito condannò senza mezzi termini la società romana ritendola viziosa e oziosa.
Lo stile espositivo di Pierre Grimal è in un certo senso "tacitiano", Grimal raccontando Tacito si appassiona, porta molti particolari, collega molti aspetti della  sua vita  a quella della società romana.
Ridà vita a una vita togliendole in parte l'aura di mistero che da sempre ha circondato la figura di Tacito.

***Tacito fu un "breviloquente", il suo scrivere era essenziale e complesso specchio di un'anima altrattanto complessa e grande.


Libro consigliato, la migliore biografia su Tacito...al di là di ogni retorica.

 

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9 ottobre 2014 4 09 /10 /ottobre /2014 06:09

Ci sono due modi per approcciarsi alla lettura delle opere di Tito Livio: la prima perché si è costretti a farlo, la seconda per libera adesione. Ho avuto entrambe le esperienze: nel primo caso le incombenze scolastiche mi hanno portato a tradurre numerose versioni di latino tratte dalla storia di Tito LIvio, nel secondo caso, invece, la libera adesione è avvenuta in un periodo successivo a quello scolastico per libero convincimento.
Ho sempre trovato Tito Livio un autore non eccessivamente difficile da tradurre, un autore che riserva una miniera di informazioni e di curiosità che permettono di conoscere quelle che, in un certo senso, sono anche le nostre origini.

L'AUTORE

Tito Livio nacque a Padova nel 59 a.C. (la data è certa), uomo austero e conservatore, era famoso per la severità della condotta di vita. Da giovanissimo andò a Roma dove condusse una vita appartata dedicandosi alla stesura della storia di Roma, una storia che va dalle origini fino all'età repubblicana.
Per 40 anni Tito Livio scrisse un'opera monumentale che comprende 142 libri, nessuno storico o gruppo di studiosi ha mai scritto un'opera talmente vasta come quella di Livio. I libri erano talmente numerosi che gli stessi Romani trovavano difficoltà a conservarli in una biblioteca.

Marziale vissuto all'epoca di Domiziano scrisse a tal proposito:

"Livio enorme, che la mia biblioteca, non può accogliere (tutta la sua opera), (Tito Livio) è ristretto in piccole pergamene".

Per i Romani il libro era la pergamena, ossia un rotolo di carta di pecora che per essere letta doveva srotolata e appoggiata su un tavolo, occupava spazio e ne occupava moltissimo quando doveva essere conservata all'interno di una biblioteca. Si comprende il motivo per cui l'opera di Tito Livio venne arbitrariamente ridotta in piccole pergamene al punto che oggi dei 107 libri mancanti ci rimane una riduzione, le "Periochae" scritte da un autore ignoto.

Fu amico di Augusto e il primo Cesare ricambiò l'amicizia e la stima tanto da definirlo scherzosamente il "pompeiano" per lo spazio che diede alle gesta di Pompeo nella sua storia.
Morì a settantasei anni nel 17 d.C. senza riuscire a concludere la sua monumentale opera, la morte lo colse all'improvviso mentre stava scrivendo.


IL LIBRO

Titolo:    c
Autore:    Livio Tito
Editore    BUR Biblioteca Univ. Rizzoli  (collana Classici greci e latini)
Pagine:    416
Prezzo:    euro 10,42


IL CONTENUTO DEL LIBRO

Il libro contiene la storia di Roma dalle sue orgini (ab urbe condita), l'origine di Roma è fissato convenzionalmente nel 753 o 752 a.C; Livio racconta le origini di Roma partendo dalla fondazione mitica di Roma che avvenne per opera di Romolo: Roma per "DECRETO DIVINO" venne nominata "caput mundi".
Racconta Livio un episodio che vale la pena ricordare: Romolo un giorno si trova davanti alla presenza divina, il dio gli dice "Va' annunzia ai Romani che i Celesti vogliono così, che la mia Roma sia capo del mondo: coltivino perciò, e sappiano e ai posteri tramandino che nessuna forza, umana potrà resistere alle armi romane".
E' interessante conoscere la cronologia storica riferita da Livio, la maggior parte degli episodi da lui  narrati sul periodo della monarchia sono ancora oggi quelli che si ritrovano nei  manuali di storia.
La fondazione di Roma si intreccia cone quella del Ratto delle Sabine, il periodo della fondazione si conclude con la morte (supposta) di Romolo per opera di un fulmine nel 37 a.C.

Dobbiamo credere ad ogni cosa che Livio narra?  Ovviamente no, anche se a suo modo Livio con gli strumenti che aveva a sua disposizione cercò di ricostruire la storia di Roma rifacendosi agli storici precedenti come: Fabio Pittore, Cincio Alimento, Catone il Censore, Celio Antipatro e a Polibio.
In ogni caso la sua perfezione oratoria è esemplare e nessuno storico moderno può prescindere dall'opera di Livio.

Nella parte inziale si trova il proemio che è in primo luogo una confessione nella quale Livio esprime tutta la sua trepidazione per l'opera che si accinge a scrivere e la sua venerazione per Roma e per i suoi valori.
Livio inoltre spiega l'intento moralistico e pedagogico della sua storia, per noi non è concepibile pensare alla storiografia in questo senso ma per Livio e per gli antichi la funzione dello storiografo era proprio questa.


L'ANGOLO PERSONALE

Leggere la storia di Roma e conoscere le sue origini secondo la versione raccontata da Tito Livio è immergersi in una storia romanzata; la storia è quella di un'epopea di un popolo e leggere Livio è come continuare a leggere l'Eneide. Livio non è uno storico in senso moderno, nella sua narrazione non vi è un riferimento a dei documenti, tutto è improntato sul "Si narra", una storia "de relato" che ha molti contenuti di realtà ma anche molti elementi inventati che devono suscitare grandi ideali e grandi sentimenti.
Una delle fonti a cui Livio si rifà quando raccolta le guerre puniche  è Polibio che aveva il pregio di raccontare un fatto, Livio invece dà anima a quel fatto. Questo è il motivo per cui Livio è stato definito il grande "innamorato di Roma".

Può piacere oppure no ma leggere Livio significa conoscere l'epopea di un popolo e il concetto di cosa pubblica. Nessun uomo poteva creare la storia di Roma se Roma non fosse stata popolata da eroi, quando scompariva un grande personaggio ne compariva subito un altro che portava avanti la res pubblica. Ecco Livio non fa altro che mettere per iscritto quello che era l'animo di un popolo che viveva la virtù nei fatti.


UN EPISODIO CURIOSO

Livio racconta che  nel 260 a.C. il Senato -la massima istituzione di Roma nel periodo consolare-  negò l'abolizione dei debiti nonostante  lo avesse promesso, il popolo romano per tutta risposta si sollevò e si ritirò sul Monte Sacro. Come si dice oggi: senza se e senza ma.
L'episodio (storico) raccontato da Livio dà l'idea di cosa significava "res pubblica" e come i valori condivisi e convissuti fossero vissuti da tutto il popolo romano. La politica era al servizio del popolo e non il contrario. È un episodio che fa pensare se raffrontato al nostro modo di accettare qualsiasi decisione anche ingiusta da parte di uno Stato come quello moderno che tratta i suoi cittadini come sudditi.


CONSIGLIARNE LA LETTURA

Consiglio la lettura del libro e di quelli seguenti editi dalla B.U.R., la lettura è suggerita anche a coloro che non conoscono il latino, la versione a fronte permette un'agevole lettura di una parte di questa immensa opera scritta da Livio, l'autore che meglio interpretò e impersonò la virtù di Roma.

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Published by Caiomario - in Letteratura latina e greca
27 settembre 2014 6 27 /09 /settembre /2014 19:18

Marco Tullio Cicerone è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi autori della letteratura di ogni tempo e nella prosa latina è la figura che più seppe distinguersi per lo stile chiaro e puro. La sua opera è la più vasta e la più rilevante di tutta la letteratura latina e si divide in : orazioni, opere filosofiche e retoriche e in epistole.
Dell'epistolario ciceroniano ci sono pervenute 931 lettere attraverso le quali possiamo conoscerne il carattere, la personalità e gli aspetti più intimi tant'è che Leopardi ebbe a dire che le lettere di Cicerone sono "la più recondita ed intima sorgente della storia di quei tempi".
In questo libro (faccio riferimento a quello edito dalla Utet)  sono presenti tutte le lettere che Cicerone scrisse a Pomponio Attico, suo grande amico e ritenuto un altro sé; a differenza delle grandi opere politiche dove Cicerone dispiega tutta la sua straordinaria capacità oratoria, in queste lettere possiamo conoscere come l'uomo intendesse l'amicizia e incontriamo personaggi reali, coevi all'epoca in cui visse.

Le 396 lettere inviate ad Attico sono talmente numerose ed importanti che la loro presentazione anche sommaria necessiterebbe di troppo spazio, non potendo riportarle tutte può essere utile commentare una lettera di Cicerone in cui egli scrive ad Attico di aver cambiato idea circa il suo progetto iniziale di andare nell'Epiro, zona corrispondente alla parte settentrionale della Grecia attuale e all'Albania meridionale.  All'epoca di Cicerone chi doveva raggiungere l'Epiro da Roma doveva intraprendere un viaggio lungo e infido  che iniziava percorrendo la via consolare Salaria che permetteva di raggiungere la costa Adriatica. Uno dei porti da cui i romani salpavano per raggiungere la Grecia era quello di Ancona. La lettera che Cicerone invia ad Attico è però scritta da Tessalonica, l'attuale Salonicco, si trovava quindi non molto distante da Attico.
Scrive Cicerone ad Attico: "Ti ho scritto che sarei stato nell'Epiro", leggendo molte altre epistole si trovano numerosi riferimenti a quelle zone in quanto Attico si rifugiò in Grecia per sfuggire alle lotte intestine che vedevano contrapposti i seguaci di Cesare (i populares) a quelli che sostenevano l'oligarchia senatoria. Cicerone si opponeva a Cesare che sosteneva la riforma agraria e difendeva la proprietà privata,  ci restano numerose orazioni che attestano l'appassionata difesa che Cicerone faceva degli interesse dei possidenti.
Cicerone prosegue specificando di aver visto attenuarsi e svanire la speranza di andare nell'Epiro e di non essersi mosso dalla Tessalonica e di essere in attesa di notizie circa le notizie del senato dove si sarebbe dovuto parlare di lui. Nella lettera non c'è il Cicerone magniloquente, ma l'uomo che pensa di essere in disgrazia e che chiede all'amico di sopportarlo e a cui chiede perdono, scrive infatti "Mi devi poi perdonare se m vedi sopportare tanto a malincuore questa mia disgrazia".

Sarebbe anche opportuno riportare il testo latino per fare alcune considerazioni sullo stile di scrittura di Cicerone, è sufficiente sapere che in tutte le lettere scritte da Cicerone si trovano tutti i modi dei verbi, notevole è poi la sua capacità di sintesi favorita dalla lingua latina anche se il ricorso alla coniugazione perifrastica e alla circonlocuzione è frequente quando deve esprimere in modo efficace l'intenzione di compiere un 'azione.


Indicazioni bibliografiche utili per approfondire il rapporto di Cicerone con i suoi amici:

* G.BOISSIER, Cicéron et ses amis, 1^ ed. Parigi 1865. L'opera, seppur datata, è sempre valida e di grande interesse, il libro non è tradotto in lingua italiana.

* E. CIACERI, Cicerone e i suoi tempi, 2^ ed, Roma 1939. Il libro è uno studio che consente di conoscere l'epoca in cui l'uomo Cicerone visse, si può ottenere tramite il prestito interbiblotecario.

Per conoscere il concetto di amicizia quale lo intendeva Cicerone consiglio la lettura dell'opera "Laelius de amicitia", un breve scritto di cui si trovano pregevoli traduzioni in cui l'illustre uomo romano argomenta come l'amicizia sia il dono più bello fattoci dagli dei; a differenza della salute e delle ricchezze, l'amicizia quando è vera e sincera non è ma fallace, non è mai caduca in qualunque parte ci si trovi e dà conforto nei momenti di difficoltà perché allevia il dolore nel condividerla.

QUALI EDIZIONI SCEGLIERE

La migliore traduzione di sempre delle "Lettere ad Attico" con testo a fronte è quella fatta dall'insigne latinista Carlo Vitali; l'opera, divisa in tre volumi, contiene tutte le 396 lettere divise in 16 libri come era abitudine dell'epoca romana ed è edita da Zanichelli; si segnala, inoltre, quella delle edizioni Mondadori  intitolata "Lettere ad Attico (I-V)" contiene però solo i primi cinque libri delle lettere.
Merita invece senz'altro di essere segnalata la pregevole edizione della Utet (quella in mio possesso) intitolata "Lettere ad Attico.Testo latino a fronte", l'opera fa parte della collana "I classici latini"ed è stata curata da Carlo Di Spigno, il libro si compone di 1575 pagine e costa attualmente euro 25,80.




"La paura fece M.Tullio padre della patria la paura lo fece fecondo"

Niccolò Tommaseo

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Published by Caiomario - in Letteratura latina e greca
27 marzo 2014 4 27 /03 /marzo /2014 08:15

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Fonte immagine: http://www.flickr.com/photos/16099840@N05/2719671868

 

 

 

Decimo Giulio Giovenale, poeta romano vissuto nell'età dei Flavi scrisse un impietoso ritratto di Messalina, moglie dell'imperatore Claudio (10 a.C - 54 d.C.), descritta come una ninfomane avvezza a frequentare bordelli solo per passione del sesso.

Giovenale, come è noto, scrisse una satira (la sesta) che è un campionario di misoginia che, quanto ai toni crudi e violenti, ritroviamo  in tempi più recenti  in un'opera di  Arthur Schopenahuer intitolata "Discorso sulle donne".

 

"Ancora ardente del prurito del sesso, stanca eppure ancora

insoddisfatta, rincasava con occhi pesti, sudicia del fumo della

lucerna, e portava nel letto imperiale il fetore del bordello".

 

 

 

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Fonte: http://www.flickr.com/photos/41523983@N08/12990755044

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23 marzo 2014 7 23 /03 /marzo /2014 04:20

 

 

 

 

 

 

 

 

7326053414_43c08e1b3a.jpg"Qualunque anfora di vino stipata nelle infami celle affumicate di Marsiglia, qualunque orcio che il fuoco ha fatto invecchiare ci arriva da parte tua, Munna: tu invii per mare e per terra terribili veleni agli sventurati amici. E non costano neanche poco, ma il loro prezzo andrebbe bene per un'anfora di Falerno o di vino di Sezze tenute ben care nelle cantine. Penso che tu abbia questo motivo per non venire a Roma, non bere i tuoi vini".

 

(Marziale)

 

A che pro, Tucca, mescoli al vecchio Falerno il vino degli orci vaticani? Ti han fatto del gran bene i vini pessimi e del gran male quegli ottimi? Non riguarda noi, ma è un delitto assassinare il Falerno, avvelenare crudelmente il vino Campano. Forse i tuoi commensali hanno meritato di morire: certamente non l'ha meritato.

 

(Marziale)

 

Testo latino tradotto dalla Prof. Giuliana Boirivant

 

IL COMMENTO DI CAIOMARIO

 

In questi due epigrammi esemplari di Marziale viene affrontata la tematica del vino adulterato, pratica a quanto pare molto diffusa nell'antica Roma che  non si limitava alla mescita  del vino con l'acqua ma prevedeva l'utilizzo di "terribili veleni" a cui Marziale allude nel primo epigramma in cui viene citato un commerciante di nome Munna, nel secondo tale Tucca,  usi all'imbroglio e alla sofisticazione.

Di contro  veniamo a conoscere alcuni vini di eccellenza diffusi all'epoca: il Falerno e il vino di Sezze; il  Falerno in particolare era un vino campano pregiatissimo i cui vigneti erano coltivati nell'ager Falernicus, un territorio che si estendeva in quella parte della Campania che si trova ubicata nell'attuale provincia di Caserta..

 

Nella Roma antica la viticoltura era molto diffusa, tant'è che ci rimangono numerosi studi e trattati che affrontano la materia sotto diverse angolature che comprendono: la scelta del terreno e dei vitigni, i lavori stagionali, le tecniche di potatura.

 

Se CatoneVarronePlinio il Vecchio, Lucio Moderato Columella si prodigarono per trattare in maniera organica la viticoltura e per migliorare la qualità dei vigneti e dei vini, altri, invece  di cui Munna e Tucca sono l'esempio, avevano un solo obiettivo: quello di guadagnare sesterzi "assassinando" i vini migliori tra i quali spiccava per bontà il Falerno.

 

 

Sull'argomento può interessarti anche:

 

http://www.vinicaserta.it/Sch_Falerno.htm    ( link)

 

http://www.vinicaserta.it/Sch_Falerno.htm  (link)

 

 

 

Fonte immagine: http://www.flickr.com/photos/92249242@N00/7326053414; dall'album di

Álvaro Pérez Vilariño

 

 

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10 marzo 2014 1 10 /03 /marzo /2014 18:09

LA FERMEZZA DEL SAGGIO 

Diceva Lucio Anneo Seneca che nessuno di noi è senza colpa e che il massimo risentimento degli uomini per le colpe commesse dagli altri deriva dal falso convincimento di non aver mai commesso del male. 
Già da questa affermazione si può comprendere come Seneca avesse un concetto di saggezza che potrebbe essere preso a modello ancora oggi per avere quello che lui definiva "constantissimis" termine latino che significa di animo fermissimo. 

Per Seneca se lo Stato è corrotto ed è pieno di gente miserabile e non vi è alcuna speranza che le cose possano cambiare, è inutile consumarsi (che saggezza!!!). 

La strada indicata da Seneca (ecco in cosa consiste la fermezza del saggio): non serve prendersela ma bisogna tenersi in disparte in un luogo tranquillo, abbandonarsi alle buone arti, riposarsi e dedicarsi al culto delle virtù. 
La morale di Seneca è questa: devi essere utile agli uomini, se puoi a molti, se non puoi a pochi se no occupati solo di te stesso e ritirati in solitudine lontano dai clamori del mondo. E' il concetto dello stoicismo che Seneca seguì tutta la vita e che affascina ancora oggi per la sua straordinaria capacità di indicare una strada, una norma di comportamento davanti alle emozioni e ai clamori del mondo. 

Vivere quindi nel mondo significa vivere, nonostante il mondo, al di sopra delle occupazioni, degli affanni, esercitando non solo un animo fermo ma anche praticando l'apatia. 



Credo che il pensiero di Seneca e in particolare ciò che è contenuto in questo prezioso dialogo, possa essere espunto da quelle posizioni estreme che nella vita pratica di tutti i giorni non sono sempre applicabili. Però se ci pensate bene a molti è sempre balenata in mente l'idea di lasciare perdere tutto ciò che crea affanno e preoccupazione. E' quindi il disprezzo nei confronti di tutto ciò che turba la serenità dell'animo è il vero motivo che spinge molti a reagire in questo modo, ma diventare insensibili e cinici verso ogni cosa che può turbare la nostra serenità non è facile, insomma non è una dote nativa dell'uomo; al contrario le indicazioni di Seneca per raggiungere la serenità implicano un percorso di "pulizia" dell'animo che non tutti sono in grado di praticare. 
Nella nostra cultura si riconosce il valore positivo delle emozioni, ma l'apatia così come la intende Seneca non significa vivere nella insensibilità nei confronti degli affetti più cari, bensì difendere gli stessi sa qualsiasi attacco che proviene dall'esterno e che non è essenziale alla nostra esistenza. 
Ecco allora che possiamo fare nostra questa idea espressa da Seneca: "la virtù deve procedere egualmente felice anche in mezzo ai piaceri e ai dolori". 
Possiamo quindi allontanarci dai pregiudizi volgari e formare l'idea più conveniente per onorare questa virtù anche se questo può comportare sudore e sangue. 
Credere che Seneca predicasse l'insensibilità verso gli affetti più cari è un errore, lui stesso aveva detto a tal proposito per chiarire il concetto che "la mancanza di ogni eccitamento che ci rianimi, che metta alla prova il nostro coraggio, non è tranquillità, è bonaccia di scirocco". 


Questi ed altri concetti trovate in questo libretto che è prima di tutto una lezione di vita impartita da uno dei maestri che ha più influito sul pensiero occidentale. 

Per concludere cito due aforismi di Seneca tratti dal celebre dialogo: 

  • Una speranza difficile per gli uomini, quella dell'innocenza. 

 

  •  Chi si mette a discutere, scende al livello dell'avversario e, anche se vince, è sempre rimasto alla pari di quello. 


......se non è saggezza questa!!!! 


Il libro consta di 72 pagine, è edito da Sellerio e ha un prezzo di 6,00 euro. 


Libro consigliato a tutti e ....agli studenti dei licei classico e scientifico, molti dei brani presenti in "De constantia sapientis " sono spesso oggetto di traduzione e....Seneca non è un autore facile da tradurre!!!!

 

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Published by Caiomario - in Letteratura latina e greca
14 febbraio 2014 5 14 /02 /febbraio /2014 07:30

 

 

 

 

 

La tranquillità dell'anima

"Nessuno di noi è senza colpa; il massimo risentimento degli uomini per le colpe altrui nasce dalla falsa persuasione di non aver mai fatto nulla di male", così scriveva Lucio Anneo Seneca, l'unico vero filosofo che la Roma antica poté annoverare nella sua storia centenaria ed autore di bellissimi scritti che a distanza di quasi 2000 anni rimangono tra i capolavori più straordinari del pensiero. 
Per parlare di Seneca e in particolare di questo libro che è la traduzione italiana di un suo celeberrimo dialogo " Ad Serenum de tranquillitate animi", bisognerebbe far parlare Seneca. 
Ed ecco allora che si scopre il vero significato della saggezza che lo stesso Seneca da seguace dello stoicismo interpretò con coerenza sino alla fine quando conforme al dettato della filosofia stoica, decise di uscire dalla vita (exire vitam), un modo molto elegante per indicare il suicidio. 
Seneca era un medico, un medico dell'anima che si propose per tutta la vita di praticare la virtù sia in mezzo ai piaceri che alle virtù. 
A tal proposito mi ha sempre colpito questa frase che riassume il suo pensiero più di tante parole: 

"Se la virtù è desiderabile e non può esservi bene senza virtù, ogni bene è desiderabile: anche la coraggiosa sopportazione dei tormenti". 

E da buon medico, sapiente e saggio, Lucio Anneo Seneca dispensò ricette e soluzioni per perseguire la virtù ossia la tranquillità e la serenità dell'anima. Alcuni studiosi hanno accostato il pensiero di Seneca ai dettami del cristianesimo, è vero che alcuni aspetti delle filosofia stoica hanno molti elementi di contiguità, ma Seneca non era cristiano, era uno stoico. 

Seneca sosteneva che l'unico modo per vivere con serenità è quello di lasciarsi vivere e non opporre resistenza anche davanti al dolore perché alla fine l'uomo entra a far parte dell'intero universo. 

Mi piace pensare a quanto sosteneva Seneca in merito alla sapienza, ponete attenzione a queste bellissime parole: 

"Tutti corrono verso la gioia: ma ignorano donde si possa ricavare la stabile e grande gioia. Uno la cerca nei conviti e nella lussuria, uno nell'ambizione e in vasto corteo di clienti, uno tra le braccia di un'amante, uno nella vana ostentazione degli studi letterari che non apportano alcune salute". 

Non è cambiato niente, molti anche oggi interpretano la gioia solo come un piacere senza coscienza, Seneca ricorreva ad una espressione figurata e paragonava costoro ai leoni che provano gioia solo quando catturano una preda. Invece la vera gioia che dà tranquillità all'anima è quella che non altra fonte se non nel coraggio, nella giustizia e nella temperanza. Bellissimo questo concetto di gioia. 

Quella di Seneca è un ode alla semplicità che si deve manifestare in ogni aspetto della vita: dai cibi all'abbigliamento all'arredamento della casa. Oggi che si parla tanto di sobrietà, le parole di Seneca sembrano quelle pronunciate da un contemporaneo. Forse manca la cultura letteraria per trovare queste corrispondenze, ma il compito dei "maestri" dovrebbe essere proprio quello di ricordare anche questi aspetti della storia del pensiero. 

A PROPOSITO DELLA SCRITTURA 

Seneca scriveva: "....scrivi qualcosa in maniera semplice, per occupare il tempo, scrivi per te stesso, non per glorificare il tuo nome: meno fatica devono fare coloro i quali si impegnano culturalmente per l'oggi". 

...E A PROPOSITO DEI LIBRI 

"Si leggano sempre gli autori più stimati: e se qualche volta vorrai distrarti con altri, ritorna ai primi


Come potete constatare, Seneca è un autore che letteralmente conquista e il lettore di oggi può trovare in un bel dialogo come "Ad Serenum de tranquillitate animi" (A Sereno sulla tranquillità dell'anima) un compagno di strada piacevole che può aiutare nella vita di tutti i giorni....e credetemi ne abbiamo proprio bisogno.

Povero non è chi ha poco; ma chi vuole di più (Lucio Anneo Seneca)

 

Scritto da me pubblicato anche altrove


 

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Published by Caiomario - in Letteratura latina e greca
15 agosto 2012 3 15 /08 /agosto /2012 18:30

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Ci sono due modi per approcciarsi alla lettura delle opere di Tito Livio: la prima perché si è costretti a farlo, la seconda per libera adesione. Abbiamo avuto entrambe le esperienze: nel primo caso le incombenze scolastiche ci hanno portato a tradurre numerose versioni di latino tratte dalla storia di Tito LIvio, nel secondo caso, invece, la libera adesione è avvenuta in un periodo successivo a quello scolastico per libero convincimento.
Abbiamo sempre trovato Livio un autore non eccessivamente difficile da tradurre, un autore che riserva una miniera di informazioni e di curiosità che permettono di conoscere quelle che, in un certo senso, sono anche le nostre origini.

 

 

 

 

 

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Fonte immagine:  http://www.flickr.com/photos/73416633@N00/675571085 

Album di Colros

 



L'AUTORE

Tito Livio nacque a Padova nel 59 a.C. (la data è certa), uomo austero e conservatore, era famoso per la severità della condotta di vita. Da giovanissimo andò a Roma dove condusse una vita appartata dedicandosi alla stesura della storia di Roma, una storia che va dalle origini fino all'età repubblicana.
Per 40 anni Tito Livio scrisse un'opera monumentale che comprende 142 libri, nessuno storico o gruppo di studiosi ha mai scritto un'opera talmente vasta come quella di Livio. I libri erano talmente numerosi che gli stessi Romani trovavano difficoltà a conservarli in una biblioteca.

Marziale vissuto all'epoca di Domiziano scrisse a tal proposito:

"Livio enorme, che la mia biblioteca, non può accogliere (tutta la sua opera), (Tito Livio) è ristretto in piccole pergamene".

Per i Romani il libro era la pergamena, ossia un rotolo di carta di pecora che per essere letta doveva srotolata e appoggiata su un tavolo, occupava spazio e ne occupava moltissimo quando doveva essere conservata all'interno di una biblioteca. Si comprende il motivo per cui l'opera di Tito Livio venne arbitrariamente ridotta in piccole pergamene al punto che oggi dei 107 libri mancanti ci rimane una riduzione, le "Periochae" scritte da un autore ignoto.

Fu amico di Augusto e il primo Cesare ricambiò l'amicizia e la stima tanto da definirlo scherzosamente il "pompeiano" per lo spazio che diede alle gesta di Pompeo nella sua storia.
Morì a settantasei anni nel 17 d.C. senza riuscire a concludere la sua monumentale opera, la morte lo colse all'improvviso mentre stava scrivendo.


IL LIBRO 

  • Titolo: Storia di Roma dalla sua fondazione. Testo latino a fronte. Vol. 1: Libri 1-2.
  • Autore: Livio Tito
  • Editore BUR Biblioteca Univ. Rizzoli (collana Classici greci e latini)
  • Pagine: 416
  • Prezzo: euro 10,42



IL CONTENUTO DEL LIBRO 

Il libro contiene la storia di Roma dalle sue orgini (ab urbe condita), l'origine di Roma è fissato convenzionalmente nel 753 o 752 a.C; Livio racconta le origini di Roma partendo dalla fondazione mitica di Roma che avvenne per opera di Romolo: Roma per "DECRETO DIVINO" venne nominata "caput mundi".
Racconta Livio un episodio che vale la pena ricordare: Romolo un giorno si trova davanti alla presenza divina, il dio gli dice "Va' annunzia ai Romani che i Celesti vogliono così, che la mia Roma sia capo del mondo: coltivino perciò, e sappiano e ai posteri tramandino che nessuna forza, umana potrà resistere alle armi romane".
E' interessante conoscere la cronologia storica riferita da Livio, la maggior parte degli episodi da lui narrati sul periodo della monarchia sono ancora oggi quelli che si ritrovano nei manuali di storia.
La fondazione di Roma si intreccia cone quella del Ratto delle Sabine, il periodo della fondazione si conclude con la morte (supposta) di Romolo per opera di un fulmine nel 37 a.C.

Dobbiamo credere ad ogni cosa che Livio narra? Ovviamente no, anche se a suo modo Livio con gli strumenti che aveva a sua disposizione cercò di ricostruire la storia di Roma rifacendosi agli storici precedenti come: Fabio Pittore, Cincio Alimento, Catone il Censore, Celio Antipatro e a Polibio.
In ogni caso la sua perfezione oratoria è esemplare e nessuno storico moderno può prescindere dall'opera di Livio.

Nella parte inziale si trova il proemio che è in primo luogo una confessione nella quale Livio esprime tutta la sua trepidazione per l'opera che si accinge a scrivere e la sua venerazione per Roma e per i suoi valori.
Livio inoltre spiega l'intento moralistico e pedagogico della sua storia, per noi non è concepibile pensare alla storiografia in questo senso ma per Livio e per gli antichi la funzione dello storiografo era proprio questa.


L'ANGOLO PERSONALE

Leggere la storia di Roma e conoscere le sue origini secondo la versione raccontata da Tito Livio è immergersi in una storia romanzata; la storia è quella di un'epopea di un popolo e leggere Livio è come continuare a leggere l'Eneide. Livio non è uno storico in senso moderno, nella sua narrazione non vi è un riferimento a dei documenti, tutto è improntato sul "Si narra", una storia "de relato" che ha molti contenuti di realtà ma anche molti elementi inventati che devono suscitare grandi ideali e grandi sentimenti.
Una delle fonti a cui Livio si rifà quando raccolta le guerre puniche è Polibio che aveva il pregio di raccontare un fatto, Livio invece dà anima a quel fatto. Questo è il motivo per cui Livio è stato definito il grande "innamorato di Roma".

Può piacere oppure no ma leggere Livio significa conoscere l'epopea di un popolo e il concetto di cosa pubblica. Nessun uomo poteva creare la storia di Roma se Roma non fosse stata popolata da eroi, quando scompariva un grande personaggio ne compariva subito un altro che portava avanti la res pubblica. Ecco Livio non fa altro che mettere per iscritto quello che era l'animo di un popolo che viveva la virtù nei fatti.


UN EPISODIO CURIOSO 

Livio racconta che nel 260 a.C. il Senato -la massima istituzione di Roma nel periodo consolare- negò l'abolizione dei debiti nonostante lo avesse promesso, il popolo romano per tutta risposta si sollevò e si ritirò sul Monte Sacro. Come si dice oggi: senza se e senza ma.
L'episodio (storico) raccontato da Livio dà l'idea di cosa significava "res pubblica" e come i valori condivisi e convissuti fossero vissuti da tutto il popolo romano. La politica era al servizio del popolo e non il contrario. E' un episodio che fa pensare se raffrontato al nostro modo di accettare qualsiasi decisione anche ingiusta da parte di uno Stato come quello moderno che tratta i suoi cittadini come sudditi.




Consigliamo la lettura del libro e di quelli seguenti editi dalla B.U.R., la lettura è suggerita anche a coloro che non conoscono il latino, la versione a fronte permette un'agevole lettura di una parte di questa immensa opera scritta da Livio, l'autore che meglio interpretò e impersonò la virtù di Roma.

 

 

 


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Published by Caiomario - in Letteratura latina e greca
14 agosto 2012 2 14 /08 /agosto /2012 05:38

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Edipo re è un'opera che dovrebbe essere letta da tutti, è una tragedia classica ma è la base di tutta la drammaturgia moderna. Il nostro approccio con Sofocle non è stato indolore in quanto diversi "estratti" li abbiamo dovuti tradurre dalla lingua originale aiutandomi con il dizionario di greco-italiano Lorenzo Rocci, poi abbiamo preferito leggere in italiano la tragedia nella insuperabile traduzione di Manara Valgimigli, il miglior traduttore di sempre del tragico ateniese. 

La tragedia di Sofocle può essere definita una sorta di"giallo" con la differenza che si sa fin dall'inizio come andrà a finire, l'autore e il lettore/spettatore si trovano coinvolti in un gioco di rimandi molto coinvolgente che porterà Edipo a conoscere la sconvolgente verità: la moglie Giocasta è sua madre. 
Si tratta di un delitto terribile quello dell'incesto e sicuramente tra i più ripugnanti. 
Edipo è un personaggio tragico in ogni situazione anche quando vuole conoscere la verità e anche quando è la luce della ragione a condurlo alla conoscenza della verità, ne rimane inesorabilmente accecato. 
La storia in sintesi è tutta qui, ma il contenuto della tragedia è molto complesso e per di più ciascun personaggio contribuisce a creare uno stato di incertezza e di suspence in quanto ognuno di loro conosce solo una parte di verità. Nella tragedia troviamo quindi la contrapposizione tra la luce della verità che rischiara le coscienze e l'oscurità che nasconde i fatti più terribili e che nessuno vorrebbe fare emergere. 

 

 

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Fonte immagine:http://farm6.static.flickr.com/5095/5539581498_7d4cd7dc83.jpg

La foto appartiene album di IES-MGB

 

EDIPO


Edipo è colpevole degli orrendi delitti di cui è accusato? E' difficile rispondere, lui uccide Laio suo padre senza sapere che fosse tale e la stessa cosa dicasi di Giocasta, la sposa senza sapere che in realtà è sua madre. L'inconsapevolezza però non assolve Edipo che fin dall'inizio della sua esistenza è un vero e proprio "maledetto" che nonostante cerchi di trovare una via d'uscita, sprofonda sempre di più nella disperazione a causa di una sorte che le è sempre contro. 
Edipo è un personaggio della fantasia? Sicuramente si, ma la sua storia dolorosa e sinistra è anche quella di chi rema per tutta la vita contro e non riesce a risalire la china. 
L'uomo può davvero sfuggire al suo destino evitando il disastro? Per Edipo non è possibile, ma è il modo in cui Edipo affronta la cattiva sorte, pur essendo un disgraziato riesce a riscattarsi, dà una dignità alla sua vita, cerca di andare incontro al suo destino senza prostrarsi. 

 
INCESTO E PARRICIDIO


I dialoghi tra Edipo, il nunzio e Giocasta sono un capolavoro della drammaturgia di ogni tempo: Edipo quando fa delle domande per conoscere la verità, ha delle intuizioni e la condanna che si autoinfligge alla fine (la cecità e l'esilio) non possono fargli recuperare nessuna verginità ma, paradossalmente è proprio Giocasta che lo vorrebbe proteggere con istinto materno dalla conoscenza dell'ignobile verità, ma sarà la stessa madre e moglie a procurargli l'ultimo dolore quando si impicca. 
Alla fine è inevitabile assolvere Edipo, non ha colpa, quello che ha fatto non era voluto, non c'era intenzionalità, ma se Edipo è innocente ciò non risolve il problema del conflitto. Sarà Sigmund Freud che spiegherà cosa significa il complesso di Edipo e attraverso la chiave di lettura freudiana possiamo comprendere come il livello individuale della rottura con le leggi non scritte, possa essere devastante per un'intera comunità. 
L'incesto e il parricidio rappresentano quindi il punto di non ritorno, il punto di rottura con i valori condivisi e convissuti di una comunità, di qualsiasi comunità, ma nello stesso tempo l'azione di Edipo contiene in sé il rischio che può avere qualsiasi conoscenza che quando viene perseguita con ostinazione può avere degli esiti tragici e devastanti per l'individuo. 

 

Articolo di proprietà dell'autore modificato per questo spazio

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