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27 luglio 2012 5 27 /07 /luglio /2012 21:56

Lalla Romano è un'autrice che radicata in quel filone della grande narrativa borghese che parla della borghesia e in cui il tema della memoria familiare è dominante; in questo senso è possibile accomunare, almeno per quanto riguarda le tematiche trattate, Lalla Romano a Natalia Ginzburg, ma il retroterra su cui si fonda il genere di letteratura di entrambe è Marcel Proust che privilegiò il racconto fatto di ricordi e di frequenti riferimenti autobiografici. 

"La penombra che abbiamo attraversato" è un romanzo ambizioso che si muove in molteplici direzioni e in cui si sovrappongono più piani di lettura; la Romano rievoca da adulta il mondo della sua infanzia e in particolare della madre, ma riporta le impressioni e le emozioni che provava da bambina. C'è molta nostalgia in questa storia retrospettiva che a tratti sembra diventare misteriosa e perdersi in una memoria che diventa imprecisa e tronca. Vi sono numerosi episodi raccontati nel libro che si sono sovrapposti anche al mio ricordo come quello , ad esempio, della maestra, che si riferisce al periodo in l'autrice andava alle scuole elementari. Ad un certo punto scrive "da quel momento la memoria, prima intensa e precisa, cessa bruscamente". E' frequente ricordare episodi, facce, personaggi che si sono fissati nella nostra memoria poi ad un certo punto il vuoto più totale e il ricordo si fa sempre più labile al punto che quando tentiamo di ricostruire una vicenda lo facciamo servendoci di quegli elementi che abbiamo appreso da adulti e tentiamo allora di rievocare una storia che non è più vera anche se facciamo una lista di tutti i presenti della nostra infanzia, ma nella nostra memoria possono rimanere dei particolari esattamente come fa la Romano che ricorda della maestra la sciarpa appesa nell'appendiabiti scolastico "di legno appena sgrossato, dai tozzi pioli". La riflessione personale sulla propria infanzia ci getta inevitabilmente in una condizione di sconforto perché è anche l'occasione per fare i conti con il proprio presente. 

E così il ricordo dell'uomo che trainava il carretto che di per sé è un episodio insignificante e imperfetto è un'esplorazione delle proprie radici, quasi un esercizio forzoso che riesce a tenere meravigliosamente unito il passato e che riesce a scaldare il cuore assumendo i contorni suggestivi della fiaba. Una fiaba che riguarda solo lei, la scrittrice, la sua infanzia e la figura della madre. E' proprio la madre la figura centrale del romanzo, la Romano ne ricostruisce la mappa interiore cerca di sostituirsi ad essa, ne esplicita la problematicità nascosta e soffocata nelle piccole delusioni familiari. Anche la figura del padre non è marginale anche se è in secondo piano rispetto a quella materna, l'autrice ricorda con molta tenerezza l'episodio in cui il padre era andato a prendere lezione da un pittore e da cui aveva imparato la tecnica della pittura ad olio. 
Un esempio di ricordo del padre che si trova nel libro dà l'idea dello stile letterario dell'autrice: "Arrivava sorridente, con la sua giacca da cacciatore, i gambali di cuoio; si asciugava il sudore. Lo abbracciavamo, ci sedevamo sul prato". Poche parole, essenziali combinate in modo sobrio che danno una caratterizzazione della figura del padre che ho trovato molto efficace 
Attingendo quindi da moltissimi episodi fermi nei propri ricordi, la scrittrice riesce a ricostruire con uno stile elegante la trama della propria vita, il valore letterario del libro è innegabile!!! 


Ancora un bel libro ambientato in quell'aerea feconda e creativa sotto il profilo letterario che è il Piemonte, questa volta siamo nel cuneese e la memoria non familiare non si intreccia con i grandi eventi storici come in Fenoglio, Calvino o Bocca, forse per questo non arriva mai a urtare la sensibilità comune e a non generare polemiche o contrapposizioni ideologiche. 


Il libro è stato pubblicato la prima volta nel 1964 dall'editore Einaudi.

  Il racconto come occasione per mettere insieme pezzi del proprio passato.

 

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27 luglio 2012 5 27 /07 /luglio /2012 21:10

EMOZIONI D'AFRICA 

Questo bellissimo romanzo pubblicato in Italia per la prima volta nel 1991 dalla scrittrice Kuki Gallmann che per quanto il nome possa dire il contrario, è nata e ha compiuto il suo percorso di studi in Italia, è un racconto emotivamente coinvolgente per il lettore. 
Nonostante il paragone possa sembrare azzardato un altro celebre romanzo, intitolato "Verdi colline d'Africa" di Ernest Hemingway è in grado di trasmettere quel mal d'Africa che è più che una nostalgia vissuta sull'onda dei ricordi personali, la Gallmann a differenza di Hemingway non riesce a tradire il richiamo originario alla sua terra adottiva e per quanto la trama sia incentrata apparentmente sul ricordo del figlio e del marito morto in Africa, la Gilmann come anche nell'altro romanzo "Notti Africane", mira a comunicare delle emozioni: ricordo, rimorso e rimpianto si rincorrono in una miscela di sentimenti che colpiscono per le capacità narrative della scrittrice che sembra non finire mai di stupirsi per la bellezza del Continente Nero e per le sue creature misteriose. 

Il racconto autobiografico parte dal periodo di studi in Italia della Galmann e poi dal successivo trasferimento avvenuto in Kenia nel 1972, cosa spinge una donna bianca a rimanere in una terra lontana dopo la morte del marito e del figlio, sola e per di più con una figlia ancora piccola e da crescere?. 
Probabilmente gli stessi motivi per cui spingono delle persone a lasciare i luoghi originari per andare in terre lontane dove vi sono culture e abituidini differenti, il viaggio a cui si accompagna la meraviglia e lo stupore per la bellezza dei luoghi, diventa un cammino interiore dopo il quale non è possibile più tornare indietro, sapori, odori, rumori, volti si mischiano creando una sorte di sindrome che rende impossibile qualsiasi adattamento alla terra originaria e come esiste il "mal d'Africa", esiste il male di tante altre terre, forse visitate per caso da turisti che improvvisamente diventano il luogo eletto nel quale passare il resto della propria esistenza. 
Quando nelle vene incomincia a scorrere l'aroma di una terra non esiste più possibilità di ritorno e al frettoloso turista contemporaneo che vede velocemente paesaggi, musei e luoghi di incomparabile bellezza può sembrare alquanto bizzarro che un occidentale decida di lasciare il suo quotidiano per cambiare radicalmente abitudini, ma non è questa forse la motivazione che ha spinto i viaggiatori di ogni epoca a spingersi verso terre lontane e sconosciute?
Al di là della trama e della bellezza del Continente Nero, il libro è l'occasione anche per misurarsi con la forza interiore di questa donna svizzera che con ostinazione persegue un sogno fino a realizzarlo amando la nuova terra più della sua terra d'origine come una figlia adottata che ama la madre che l'ha cresciuta. 

A tratti stucchevole il romanzo rimane comunque un ottimo esempio di bella narrativa, consigliabile prima di un viaggio in Africa.

 

http://giotto.ibs.it/cop/copt13.asp?f=9788804373629

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27 luglio 2012 5 27 /07 /luglio /2012 17:05

 

 

 

 

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MILIONI DI GIOVANI HANNO LETTO IL LIBRO, AI VECCHI NON INTERESSA 

Quando Klaus Werner-Lobo e Hans Weiss hanno scritto questo libro non avevano intenzione di fare un manifesto politico, il loro scopo era quello di scrivere un libro denuncia sulla realtà delle aziende multinazionali. Eppure hanno fatto politica. 
Quando poi il libro venne pubblicato il clamore e lo scandalo suscitato hanno preso una via inaspettata, milioni di giovani hanno incominciato a leggere il libro e a cambiare il modo di porsi davanti ai consumi. Il fenomeno "no global" da piccolo è diventato grande, internazionale e trasversale, all'origine di molti gruppi di protesta vi è prima di tutto una critica al sistema economico e solo dopo una insofferenza alla politica dei politicanti di professione. 
Ancora una volta il cambiamento può venire solo dai giovani, i vecchi sono tendenzialmente restii al cambiamento salvo qualche rara eccezione, ecco perché questo libro trova consenso soprattutto tra i giovani: vogliono cambiare nonostante le resistenze dei matusa. 


IL LIBRO 

* AUTORI:Klaus Werner-Lobo, Hans Weiss 
* TITOLO: I crimini delle multinazionali 
* EDITORE: Newton & Compton Editori 
* ANNO DI PUBBLICAZIONE: 2010 
* PAGINE: 333 
* PREZZO. Euro 12,90 



"I crimini delle multinazionali" è stato pubblicato da Newton & Compton nel 2010 in edizione economica, letto a distanza di due anni dalla pubblicazione appare fastidiosamente attuale, terribilmente provocatorio, purtroppo realisticamente vero. I due autori ci fanno conoscere da vicino le contraddizioni delle aziende multinazionali che da una parte producono i loro prodotti in condizioni di lavoro disumane e dall'altra, per vendere i loro prodotti si presentano in modo pulito ed eticamente impegnato. Dal quadro delineato nel libro emerge che questo agire nasconde un'ipocrisia e una falsità che sono esattamente il contrario di quanto si voglia fare credere ai consumatori occidentali, gli autori denunciano il doppio volto delle multinazionali insensibili ad ogni diritto umano pronte a fare qualsiasi cosa nell'ombelico del mondo e dall'altra parte capaci di presentarsi nei mercati occidentali con il volto ipocrita di chi sposa le cause della difesa degli animali o dell'ambiente. 

Le aziende più coinvolte nelle pratiche di un neo-colonialismo delle risorse e dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo sono secondo Klaus Werner e Hans Weiss quelle dell'elettronica e quelle farmaceutiche. Entrambe mettono in pratica numerose pratiche -tra cui l'acquisizione di terreni, miniere, accordi con forze politiche corrotte - per riuscire ad accaparrarsi le materie prime necessarie alla fabbricazione dei loro prodotti. Nel secondo capitolo del libro vengono pubblicati tutta una serie di documenti che provano l'esistenza di vere e proprie corruzioni elevate a sistema nei paesi africani, luoghi in cui si possono reperire materie prime rarissime come, ad esempio, la columbite-tantalite un minerale indispensabile per la fabbricazione di cellulari, computer, lettori Dvd e altri prodotti elettronici. 

I ROSSO MALPELO DEL CONGO, LA CORSA AL COLTAN 

I giacimenti più consistenti di columbite-tantalite sono in Congo, una delle zone più dilaniate dai conflitti e dalle guerre civili, gli autori riportano importanti documenti dai quali si evince che importanti multinazionali del settore dell'elettronica hanno intessuto una rete d'affari con le forze contendenti per finanziare i conflitti e come molti di questi conflitti siano strettamente legati ai proventi derivanti dall'estrazione della columbite-tantalite. 
Se in Italia il fenomeno dello sfruttamento del lavoro minorile è in gran parte debellato e persiste in alcune zone marginali del paese, in Congo circa il 30 per cento della forza lavoro adibita nell'estrazione di columbite-tantalite è formata da bambini in età scolare. 

NO TESTATO SUGLI ANIMALI MA TESTATO SUGLI ESSERI UMANI...E POI IL RESTO 

E' terribile venire a sapere che molte case farmaceutiche (nel libro vengono denunciati i nomi) utilizzano cavie umane per sperimentare l'efficacia dei farmaci. Se in molti paesi è vietata detta pratica ecco che diverse aziende multinazionali vanno ad effettuare queste pratiche dove è tollerato come, ad esempio, in Ungheria. 
Se tali pratiche sono sconcertanti e condannabili, lo sono altrettanto quelle che producono danni ambientali dalle proporzioni gigantesche causate da importanti aziend multinazionali nel settore alimentare che hanno sottratto centinaia di migliaia di ettari di terra agli autoctoni per impiantare coltivazioni intensive. 

LEGGERE L'ELENCO 

Nella seconda parte del libro si trova un elenco dettagliato di tutte le aziende coinvolte, in questo elenco si trovano aziende multinazionali che operano nel settore petrolifero, dell'elettronica, dell'abbigliamento, dei farmaci e persino dei giocattoli. I proprietari di queste aziende? Sono gli stessi della grande finanza internazionale. 

IN CONCLUSIONE 

I crimini delle multinazionali di Klaus Werner-Lobo e Hans Weiss non è un libro che deve piacere, come non piace il foglio che riporta i risultati delle analisi del sangue, è un libro-documento di denuncia di fatti reali, di fenomeni che troppi nel mondo occidentale volutamente ignorano per non fare conoscere all'opinione pubblica quello che accade davvero in quelle aree del mondo. Il colonialismo continua sotto altre forme. 

***Libro consigliato per sapere che dietro al "profumo dell'ottimismo" gronda del sangue.**** 

In Italia, a parte la trasmissione "Report" condotta da Milena Gabanelli, nessuno ha mai denunciato questi fatti.

Complimenti alla casa editrice che ha avuto il coraggio di pubblicarlo.

 

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27 luglio 2012 5 27 /07 /luglio /2012 09:26

 

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L'AUTORE 

La singolarità di Anthony De Mello sta nel fatto che è l'unico prete al mondo che parla per metafore utilizzando, in perfetta aderenza con lo spirito del Fondatore, la parabola quale strumento di comunicazione. Come il Fondatore che sapeva moltiplicare pesci e pani anche questo gesuita di Bombay è riuscito a fare un miracolo: il suo "Messaggio per un'aquila che si crede un pollo" in un anno è arrivato a vendere oltre 200 mila copie e il suo "breviario" di successo in soli 12 mesi è andato in stampa per ben 10 volte arrivando a toccare le 10 edizioni. Una performance straordinaria considerando che De Mello, prima della pubblicazione del libro, era un perfetto sconosciuto. 

La caratteristica dello stile di Anthony De Mello è l'umorismo, affronta argomenti interessanti senza farli pesare, non è uno psicologo di professione ma come il Fondatore capisce gli uomini e sa parlare al cuore delle persone e non c'è modo migliore, davanti all'imprevidibilità della vita, che quello di usare un linguaggio semplice e comprensibile a tutti. 
Questo contraddistingue lo scrittore di talento da quello mediocre, il suo "Messaggio per un'aquila che si crede un pollo" come il seguente "Istruzioni di volo per aquile e polli" sono due capolavori di semplicità ma non di banalità. 
De Mello assume le vesti del primatologo e va a scavare nel'intimo dell'uomo, i suoi libri pur non essendo dei testi di religione attingono a piene mani dal "Libro dei libri", il suo è un messaggio di speranza che potrebbe essere sintetizzato in questa frase: 

"( Talvolta mi trovo a dire alle persone): Voi resterete a bocca aperta quando arriverete lassù e scoprirete che non c'è alcun peccato che Dio non possa perdonare". 

"Messaggio per un aquila che si crede un pollo" è quindi un libro di speranza che parte dal concetto di peccato depurandolo di tutto ciò che di negativo questo termine si porta dietro. De Mello ci vuole dimostrare che credendo in noi stessi, ma vivendo intensamente. 

De Mello ama citare il Budda e racconta un episodio, un giorno un anziano si avvicinò a Budda che si trovava circondato dai suoi discepoli e gli chiese quanto tempo avrebbe voluto vivere, precisando che avrebbe potuto chiedere anche di vivere 1 milione di anni, Budda guardando il vecchio gli rispose con decisione: 8 anni. 
Si trattava di una strana risposta, quanto mai paradossale e ciò apparve tale anche ai suoi discepoli; uno di loro chiese al Maestro perché non avesse chiesto un milione di anni, osservando che in tal modo avrebbe potuto fare del bene a centinaia di generazioni. Ma ecco la risposta di Budda: "Se vivo un milione di anni, gli uomini saranno interessati più a prolungare la propria vita che a ottenere la sapienza". 

Ecco l'essenza del pensiero di Budda condiviso da De Mello: gli uomini sono più interessati a prolungare la propria esistenza che a migliorarne la qualità. 

Se prendiamo coscienza del nostro valore -sostiene l'autore- è il momento di spiccare il volo, smettere di essere un pollo e diventare un'aquila; inizia allora un vita totalmente nuova e possiamo trasformare la nostra vita in un'esperienza di gioia e di serenità. Questo non dipende dagli avvenimenti, ma dal modo in cui li affrontiamo e li percepiamo. La chiave della felicità quindi sta dentro di noi, ecco la morale dell'insegnamento di De Mello. 


CI SONO UOMINI CHE PENSANO....... 

.......di essere vivi perché respirano, mangiano, parlano etc, ed è chiaro che non sono morti , ma cosa significa essere vivi. 
La regola fondamentale della vita non è quindi vivere di sensazioni, ma vivere le sensazioni in quanto è l'emozione la regola fondamentale della vita, gli animali hanno bisogno di stimoli sensitivi, ma l'uomo ha bisogno di stimoli emotivi, senza stimoli noi ci deprimiamo, ci blocchiamo e allora abbiamo bisogno di fare sgorgare le emozioni cessando di avere timore e credendo nella ricchezza che abbiamo in noi. 
Se le paure bloccano gli uomini questi vivranno come polli non saranno liberi, non riusciranno a volare. 

Le idee esposte in "Messaggio di un pollo che si crede un'aquila" non costituiscono quindi una sorta di prontuario di formazione ad uso aziendale, ma sono una serie di insegnamenti che aiutano a scegliere l'amore, a desiderare qualcosa e a essere liberi. 
De Mello sviluppa poi questi temi nel libro seguente intitolato "Istruzioni di volo per aquile e polli", ma in "Messaggio per un'aquila che si crede un pollo" se ne trova larga anticipazione 

ATTENZIONE AI COLLEZIONISTI 

Da buon divulgatore De Mello non segue la via facile delle solite e improbabili istruzioni per raggiungere la felicità, se avete letto un romanzo come "Il collezionista" di John Flowes potete comprendere cosa significa non saper volare; il collezionista è un tizio che amava le farfalle al tal punto che le teneva infilzate e le ammirava impedendogli di volare. Un bel giorno si innamora di una ragazza di nome Miranda, la rapisce e le fa fare la fine delle farfalle. Chi era il collezionista? Uno che non aveva un buona opinione di sé stesso e che per ottenere i suoi fini imprigionava tutto ciò che gli piaceva. 

La ricetta di De Mello è esattamente il contrario, per stare meglio non bisogna sacrificare gli altri, ma cercare un proprio equilibrio. 


Concludo con una frase di De Mello che secondo me è una vera e propria perla di saggezza: 

"Esperienze gradite rendono piacevole la vita, esperienze dolorose la fanno crescere"

NOTA FINALE: Fino a qualche anno fa Anthony De Mello era uno dei miei scrittori preferiti e devo ammettere che ho attinto molto dalla sua visione di vita per creare il mio universo di valori. La suggestione che avevano su di me i suoi valori mi ha spinto a mettere in pratica alcuni suoi insegnamenti, spesso ci sono riuscito, altre volte no. Non sempre, infatti, riusciamo a vincere, la parte debole di noi e la vita che è un'esperienza meravigliosa, può dare anche delle cocenti delusioni, ma credo che alla fine non serva ragliare come un asino; e come dice De Mello "se vogliamo essere felici, possiamo esserlo immediatamente, perché la felicità sta nel momento presente". 


"Messaggio per un'aquila che si crede un pollo" di Anthony De Mello è edito da: 


EDIZIONI PIEMME SpA 

15033 Casale Monferrato (AL) - Via del Carmine, 5 
Tel. 0142/3361 Fax 0142/74233 



Ne consigliamo vivamente l'acquisto per smettere di essere polli e diventare AQUILE.

 

 Il breviario di Anthony De Mello...istruzioni per volare.

 

Scritto di proprietà dell'autore pubblicato anche altrove.

 

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Published by Caiomario - in Libri
25 luglio 2012 3 25 /07 /luglio /2012 15:04

Le opere di Luigi Pirandello sono spesso caratterizzate dalla presenza di personaggi commoventi e divertenti, ma anche eccentrici e bizzarri e i sentimenti da loro espressi si possono definire universali perché appartengono agli infiniti modi attraverso i quali si manifesta il comportamento umano. 
Pirandello per tutta la vita ha scritto delle opere non facendo prediche ma illustrando degli esempi, delle patologie, delle sindromi individuali che diventano collettive oppure prendendo il posto del personaggio principale del suo racconto ed esprimendo attraverso di lui la sua verve polemica e provocatoria 

"Quaderni di Serafino Gubbio operatore" è un romanzo che rappresenta la continuazione de "Il fu Mattia Pascal"; chi è Serafino Gubbio? E' Mattia Pascal reincarnato che come lui, svolge un lavoro di operatore del cinema, così si presenta: "Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli altri quello che manca a me per ogni cosa ch'io faccia: la certezza che capiscano ciò che fanno". Pirandello quindi pone Serafino Gubbio in una duplice veste: quella dell'osservatore e quella del narratore, ancora una volta l'autore privilegia uno stile che è un ibrido tra la narrativa e il canovaccio teatrale che permette anche la lettura del testo destrutturata ed episodica senza che ne risenta affatto la comprensione del racconto nella sua totalità. 

NON SAPERE PER PAURA DI SCALFIRE IL PROPRIO SISTEMA DI VITA 

Ecco allora che Serafino nel suo ruolo di indagatore degli altri crea turbamento al punto che solo con lo sguardo induce il prossimo a trasformare la propria certezza in perplessità in questo modo la vita appare come qualcosa di insensato. 
Ritorna quindi il tema dell'oltre, ossia della verità che c'è dietro ad ogni situazione, dice infatti Serafino rivolgendosi a degli interlocutori ideali: "Voi non volete o non sapete vederlo" riferendosi al fatto che la maggior parte delle persone non mette in discussione niente perché ha paura che il proprio sistema di vita venga scardinato (quanta verità c'è in questo!). 

PIRANDELLO CONTRO LA DISUMANIZZAZIONE DEL LAVORO 

Ad un certo punto Serafino/Pirandello affronta il tema delle macchine, profetica è questa frase: 

"....vorrei dir meccanico della vita che fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. Oggi, così e così, questo e quell'altro, correre qua, con l'orologio alla mano, per essere in tempo là"..... 

....la colazione, il giornale, la borsa, l'ufficio, la scuola, la bottega, la fabbrica, il tribunale e se volessimo aggiornare l'elenco: l'ufficio, la fabbrica, le poste, lo spread e alla fine della giornata tanta stanchezza da sentirsi -per dirla alla Serafino/Pirandello- intronati da tanto stordimento. 
Serafino/Pirandello osserva che nessuno si sofferma a pensare se quello che vede fare agli altri sia davvero conveniente farlo, al punto che anche quando dovrebbero svagarsi finiscono collo stancarsi (quanta verità anche in questa osservazione!). 

E' il meccanismo fragoroso della vita che rapportato al nostro tempo costringe la gente a lavorare di più per acquistare cose che la fanno solo indebitare e lavorare di più. 

PIRANDELLO IL SOVVERSIVO ANARCHICO 

Con sarcasmo Serafino parla del suo lavoro definendosi un operatore che non opera, il suo lavoro consiste nel sistemare un treppiedi sotto le indicazioni del direttore ossia del regista, un lavoro se vogliamo inutile dove l'uomo è solo una protesi della macchina, ma che proprio per questo nasconde un'insidia come tutti i lavori che soppiantati dalla tecnologia, rendono l'uomo stesso inutile a svolgerlo. 
Nel libro ricorre spesso l'idea della macchina come una sorta di mostro insaziabile che divora tutto anche l'anima dell'uomo. 
La domanda che Serafino si pone dovrebbe fare riflettere, si chiede infatti come mai dinanzi a tanta insensatezza l'umanità non sia impazzita distruggendo tutto. Quello di Serafino/Pirandello è una osservazione o un auspicio? Si può propendere per la seconda ipotesi, considerando che questa ideologia di stampo piccolo borghese è presente in molti altri autori "pacifici" come ad esempio Italo Svevo, per non parlare poi del cinema e di quel capolavoro de "Un borghese piccolo piccolo" di Mario Monicelli in cui vengono messi alla berlina i vizi degli italiani. 

LA DISTRUZIONE O IL MUTISMO 

Quale può essere allora il modo migliore per difendersi? Serafino sceglie il mutismo che rappresenta una forma di difesa e di salvezza, dice Serafino in questo modo sono diventato "perfetto", un perfetto finto alienato in un modo realmente alienato. Impassibile dinanzi a tutto, insomma un perfetto seguace dello stoicismo. 

E' IL SUPERFLUO LA CAUSA DEI CONFLITTI 

I geni dell'economia dicono che i consumi sono lo sviluppo, lo pensano anche i sindacati e gli operai, più c'è consumo, più c'è lavoro e la giostra in tal modo rincomincia, l'operaio prende lo stipendio, spende e si indebita, ma per Serafino/Pirandello è il superfluo la causa dell'infelicità. Invito il lettore a soffermarsi sulla parte finale del romanzo, è illuminante. 

Tra le diverse edizioni presenti in commercio si consiglia la seguente: 

Quaderni di Serafino Gubbio operatore, a cura di M.A. Grignani, intr. N.Borsellino, Garzanti, Milano, 1993.

 

 

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25 luglio 2012 3 25 /07 /luglio /2012 14:58

 

 

 

 

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Ci sono nomi e date difficili da dimenticare, uno di questi è il sessantotto o se volete semplicemente Il '68, accade soprattutto quando chi parla di quel periodo è stato uno dei protagonisti che l'ha visto nascere e che periodicamente ne riecheggia dei contenuti che oggi sembrano decisamente demodè; se oggi possiamo raccontare il '68 possiamo farlo anche attingendo da quei racconti tramandati oralmente che finiscono con la fatidica frase "io ho fatto il '68" perché non si dice "ho partecipato ai movimenti di piazza che sono avvenuti nel '68" ma proprio "io ho fatto il '68", di contro c'è un'altra tendenza che si sente dire in giro da almeno un ventennio "E' tutta colpa del '68" che assomiglia al famoso "E' tutta colpa di Andreotti". In effetti c'è un tocco un po' lunatico e surreale in queste espressioni, sono entrate nel mito del linguaggio. 
Ma è proprio vero che tutto il cumulo di macerie morali (ormai si sono accumulate al punto di essere diventate una montagna) è colpa del '68? O forse dobbiamo proprio al '68 le conquiste e i diritti civili che i matusa non volevano rilasciare? Purtroppo la verità deve sempre competere con le menzogne che hanno un effetto sempre devastante e allora perché non affrontare il tema in modo più lieve? 

Il libro di Elfo non è quindi un'analisi sul '68 (ce ne sono troppe e alla fine stancano) ma il racconto su di un ragazzo, Rinaldo, che quel periodo lo visse con tutte le ritualità che sono ormai entrate nelle storia. All'epoca ad essere occupate non erano solo le università, ma ogni cosa veniva ridefinita, delegata e infine occupata compresi i viaggi che avevano sempre delle mete alternative e l'India era in cima a tutte le altre destinazioni. Ovviamente per i lettori di oggi quelle metafore sembrano lontane ma lo stile del '68 investiva anche altri aspetti e la militanza doveva essere quella dei "barbudos" e dell'eskimo. 
Elfo ci consegna quindi un'indagine esistenziale attraverso le immagini che è poi una potente metafora, densa e caleidoscopica su quella realtà che fu prima di tutto aggregazione che superò i limiti antropologici dell'uomo teso sempre alle solitudini personali. 
L'ansia di cambiamento covava ovunque e da allora molto costumi subirono una metamorfosi a partire dall'avanguardia sessuale e a quella culturale e in primis musicale. Il rock non era, ad esempio, l'industria commerciale di oggi, il rock era protestatario e il feticcio del vinile nasce all'interno di quel clima. 
Utopia? Forse, ma l'onda lunga del '68 è arrivata fino a noi e nulla è più come prima anche se non c'è stata nessuna rivoluzione e il potere sembra essersi rafforzato, ma si tratta di una conclusione molto superficiale perché è il potere che si è dovuto talvolta adattare. 
Ultimi, ma non meno importanti, vanno segnalati i malfunzionamenti conseguenti alla istituzionalizzazione del movimento; si passò da essere tribali per affinità alla gerarchizzazione della contestazione, ma è pur vero che i leader avevano il compito di "legare" le varie anime del movimento che prima della sua definitiva politicizzazione era l'epicentro della creatività. Ma poteva esistere un '68 senza cortei? No era impossibile. 
Dopo 42 anni possiamo dire che era fin troppo facile che tutto fosse andato bene, il pregio del libro di Elfo sta poi anche nel fatto che attraverso le immagini e i fumetti possiamo vedere il '68 e lo guardiamo senza patemi ma il lungo viaggio dei giovani di allora non è ancora concluso anche i cambiamenti possono sembrare minimali. Gran libro illustrato, insomma.

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25 luglio 2012 3 25 /07 /luglio /2012 14:47

Chi desidera documentarsi sulle opere di Italo Svevo può trovare in giro una gran mole di materiale, ma il modo migliore per conoscere Svevo è -a mio parere- quello di leggere il suo epistolario e il "Profilo autobiografico", in entrambi gli scritti si comprendono fino in fondo le ragioni e il retroterra culturale che stanno alla base della sua attività letteraria. 
Ho letto la "Lettera sulla psicanalisi a Valerio Jahier", un uomo di lettere che abitava a Parigi, dove Svevo esprime tutto il suo scetticismo nei confronti del metodo psicoanalitico di Freud utilizzato come terapia medica. 
L'equazione psicanalisi=Svevo è perciò un luogo comune perlomeno quando si tratta di vedere nella psicanalisi un metodo di cura di cui lo stesso Svevo ne rigetta le pretese terapeutiche. Si tratta di una presa di posizione importante per capire la "Coscienza di Zeno", "Senilità" e "Una vita". 
Non c'è dubbio che Svevo utilizza il sistema psicoanalitico per elaborare i suoi tre romanzi dove l'investigazione su se stessi serve per scoprire le proprie pulsioni inconsce, ma nello stesso tempo Svevo ritiene che la psicanalisi sia di per sé insufficiente per curare le nevrosi. 
Ritenendo che le nevrosi svolgano un ruolo importante nella vita di un individuo quale meccansimi di difesa contro tutte le forme di alienazione della civiltà moderna, Svevo rivaluta il ruolo dell'ammalato come diverso che non vuole rinunciare alla forza vitale del desiderio. Il desiderio di resistere alla morte, il desiderio di rivendicare la propria dversità e singolarità, il desiderio di vivere. 


L'ANGOLO PERSONALE 

"Una vita" è un romanzo che venne pubblicato nel 1892, nonostante sia un racconto scritto in un clima culturale profondamente diverso da quello contemporaneo, conserva tutta la sua carica di suggestione e di attualità perché è una storia incentrata sull'uomo, sulle sue autosuggestioni e sui suoi autoinganni. Temi questi che non hanno tempo e si ripresentano in tutte le generazioni, in tutte le esistenze. 
Ciò che rende "Una vita" un romanzo senza tempo è lo spirito che sta alla base del racconto stesso: la necessità di confessarsi agli altri. La confessione diventa perciò un momento liberatorio e terapeutico per liberarsi delle proprie ansie e dei propri fallimenti, un momento che lenisce parzialmente il proprio dolore e la propria incapacità di vivere il mondo. 

Il protagonista del romanzo è Alfonso Nitti, un impiegato che vive una profonda scissione interiore tra le sue aspirazioni e la vita che lo circonda. Nitti conosce il latino, ama la poesia, ha una sensibilità culturale non comune e dall'altra parte si trova costretto a fare un lavoro ripetitivo e automatico. Il lavoro di copista in una banca diventa una sorta di gabbia nella quale tutti i giorni si trova costretto a convivere e che accentua il suo sentirsi diverso. 
Il suo sogno è quello di riscattarsi da questa condizione di "estraneità" e il mezzo che utilizza per perseguire il suo fine è la letteratura e la filosofia dalla quale trae una concezione idealistica della vita fortemente influenzata dal pensiero di Schopenhauer. 
La volontà di potenza di Schopenhauer diventa megalomania e vana aspirazione, Alfonso Nitti tenta il salto sociale cercando di sedurre, Annetta, la figlia del proprietario della banca, anch'essa amante di cose letterarie. Annetta però diventa solo un mezzo per Alfonso e questo suo disprezzo lo pagherà molto caro. 

Se il desiderio di ascesa sociale non rappresenta una novità rispetto al passato, la descrizione di Alfonso Nitti fatta da Svevo è esemplare; Nitti rappresenta l'uomo incapace di trovare delle soluzioni. Dapprima si fa prendere dalla paura, poi scappa dalla madre morente, si ammala lui stesso, torna in banca, viene demansionato e quando viene a sapere che Annetta si è fidanzata con il suo rivale, tale Macario, un giovane brillante e atletico, decide di farla finita e si suicida. 

La lettura del romanzo è tutto incentrata sul tema dell'inettitudine ossia dell'incapacità di realizzare qualunque cosa, c'è un passo del romanzo in cui viene raccontato l'episodio di una gita in barca a cui partecipano Annetta, la figlia del proprietario della banca, Alfonso e Macario; la contrapposizione tra le due personalità non può che suscitare una grande pena nel lettore perché Alfonso appare in tutta la sua disarmante incapacità mentre Macario è colui che è adatto perfettamente alla vita e che sa trovare in modo brillante una soluzione in tutte le circostanze. 
In quelle gite in barca con il rivale Macario, Afonso da una parte riusciva a mitigare il suo senso di sofferenza provocato dalla sua triste vita, ma nello stesso tempo quei momenti di apparente spensieratezza acuivano il lui la percezione di essere misero, inutile ed inetto. 

Come Svevo non posso che esprimere un giudizio negativo su Alfonso, ma nello stesso tempo il senso di sdradicamento descritto è una condizione che noto ancora più accentuata nei tempi attuali. Pensiamo ad esempio alla svalutazione della funzione dell'intellettuale nella nostra epoca contemporanea, alla sua incapacità di adattarsi alla praticità di una vita dove il fare è l'unica capacità richiesta da una società sempre più complessa e selettiva. Per quanto possano esserci delle differenze tra la condizione di Alfonso e quella del giovane intellettuale contemporaneo che magari ha studiato per poi ritrovarsi a non sapere fare nulla, esistono anche numerose corrispondenze. 
Esiste allora un modello positivo che permette di uscire da questa contrapposizione frustrante che può avere esiti devastanti per la salute della persona? A mio parere esiste e questo metodo consiste nella capacità di sapersi adattare darwinisticamente alle circostanze, in questo modo il cervello può diventare davvero lo strumento che fa mettere le ali per non soccombere. 
E' l'unica strada per non perire da vittime e per combattere fino in fondo senza arrendersi alle prime difficoltà. 

Romanzo amaro ma stimolante di cui si consiglia la lettura.

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24 luglio 2012 2 24 /07 /luglio /2012 16:18

Carlo Emilio Gadda per il fatto che non ha mai aderito a nessuna corrente specifica può sembrare un isolato nel panorama letterario italiano del Novecento, in realtà se c'è qualcuno che più ha inciso dal punto di vista letterario nel periodo del dopoguerra, questi è stato proprio Gadda tanto da venir considerato dalla critica come uno spartiacque tra la narrativa neorealistica e le nuove forme di letteratura che verranno ad imporsi con un linguaggio completamente differente sia dal punto di vista della prosa che da quello dei contenuti. 

Nella sua opera, infatti, quello che colpisce di più è la straordinaria carica grottesca e disinvolta del testo scritto che modifica completamente, scombinandolo lo stile, i termini , la lingua del neorealismo. 

Piuttosto che calarsi nella realtà cercando di raccontarla fedelmente, Gadda fa emergere da questa realtà le contraddizioni, le assurdità, i paradossi cogliendone il fluire che sovente appare senza senso, tragico misterioso. 

Uno dei testi migliori di Gadda è senza dubbio "L'Adalgisa", un libro scritto con ironia graffiante dove la parola diventa il mezzo attraverso cui Gadda dimostra in tutta la sua perizia di acrobata del lessico. 

In questo romanzo che potremmo definire una raccolta di racconti, Gadda prende di mira alcuni settori della società lombarda da cui lui proveniva per nascita e per estrazione sociale. 

Ed è curiosa in questa serie di racconti la figura di Claudio Valeri, uno dei protagonisti delle storie narrate che invece di entrare a far parte della società che conta preferisce scontrarsi senza condividere rituali e convenevoli. 
Era infatti uso in quella società regolare l'ingresso tra la gente che contava attraverso l'osservanza di un rigoroso rituale. 
Forse il personaggio del libro potrebbe essere lo stesso Gadda, sta di fatto che l'autore finisce col deridere certi comportamenti di altezzosità propri della società lombarda e attraverso il personaggio di Claudio dice tutto quello che probabilmente lui stesso pensava. 
Proprio il rifiuto di entrare nella società lombarda farà si che Gadda concepisca una nuova locuzione verbale: "disimparare" a vivere e su questa locuzione bisogna porre l'attenzione per comprendere lo spirito del libro che è anche un rifiuto dell'ipocrisia e dell'adulazione. 

Ogni racconto de "L'Adalgisa" è corredato da note molto divertenti e ironiche che costituiscono la chiave di lettura di ogni singola storia che spesso è dissacrante verso uno o verso l'altro, come nel caso, per esempio, dei frequentatori del politecnico, la celebre università milanese di ingegneria dove secondo Gadda, studenti e professori si davano ( e si danno) delle arie ridicole camminando due metri sopra il pavimento. 

Altra figura centrale della raccolta è Adalgisa, una ex cantante lirica un pò avanti con gli anni che cerca in tutti i modi di sistemarsi con un matrimonio ma che nello stesso tempo è una contestatrice di quella classe borghese da cui lei stessa proviene. 

La galleria di personaggi descritti è molto varia ma tutti sono uniti da una vena di contestazione nei confronti della società borghese e milanese e questo costituisce il singolare impegno di Gadda per cui il racconto diventa una scusa, un'espediente per raggiungere questo scopo. 

Un'opera forse snobbata  rispetto al più noto "Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana", che ha avuto la fortuna di essere stato pubblicato in un periodo editorialmente più propizio rispetto a quello in cui "L'Adalgisa" è stato dato alle stampe. 


 

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24 luglio 2012 2 24 /07 /luglio /2012 15:14

Diamanti

Giorgio Bassani, bolognese di nascita ma ferrarese di adozione, mise, sempre al centro della sua ispirazione la città di Ferrara. 
Una Ferrara che con il suo mondo piccolo borghese è un microcosmo compiuto dove si riverberano tutte le tensioni e i fatti degli anni in cui Bassani visse. 
E proprio partendo da questa ambientazione le sue opere sono state da lui stesso raggruppate sotto il titolo comune "Il romanzo di Ferrara", quasi si trattasse di un ciclo dove ogni libro sembra rimandare ad un altro e dove ogni storia è compiuta solo se si conosce quella raccontata in un altro libro. 

La storia di quella Ferrara a cavallo degli anni Trenta e Quaranta è la Ferrara della comunità ebraica a cui Bassani appartiene e di cui, con sapienza letteraria, Bassani traspone in forma scritta, emozioni e pensieri, comunicando al lettore una narrativa fatta di sfumature e di intima sofferenza. 
Gl stessi personaggi dei suoi libri assurgono a simbolo di ogni famiglia ebrea presente in qualunque altra parte d'Europa, ogni personaggio è il simbolo di quella condizione fatta di solitudine e di emarginazione. 
Ma ridurre la narrativa di Bassani a una questione semplicemente ferrarese e in particolare della Ferrara della comunità ebraica di quegli anni sarebbe rendergli un torto perchè possiamo collocare le opere di Bassani in una più larga tradizione novecentesca fatta di scrittori borghesi che scrivono sulla borghesia, come Natalia Ginzburg o Lalla Romano. 

Ne "Gli Occhiali d'oro", opera pubblicata la prima volta nel 1958, Bassani affronta due tematiche che in parte lo discostano da quelle affrontate in altre opere: quelle della emarginazione dovuta non solo all'appartenenza alla comunità ebraica, ma anche quella derivante dall'omosessualità. 
Quest'ultimo tema, delicatissimo in quegli anni, non era stato mai affrontato in questi termini, come non era stata mai trattato il tema della diversità. 

Si tratta quindi non più della condizione di chi si trova ad essere travolto dalla persecuzione razziale ma di colui che vive la sua condizione di diversità e di emarginazione all'interno di una cittadina piccolo borghese dove tutti si conoscono e dove il pettegolezzo è l'unico svago che vede coinvolti i personaggi della piazza cittadina. 

Chi è occhiali d'oro? Già il soprannome rivela due aspetti: da un lato l'abitudine tutta provinciale di connotare qualcuno con un nome che evidenzia alcune particolarità e dall'altra parte il vezzo del protagonista di portare degli occhiali d'oro che danno al personaggio una caratterizzazione dalla forte valenza simbolica. 
L'indossare degli occhiali d' oro da una parte è un vezzo ma è anche un segno rivelatore della condizione sociale del dottor Fadigati (questo è il nome del protagonista) noto medico della città. 
Proprio questi occhiali d'oro rivelano un'eccessiva attenzione verso se stessi che in quegli anni non era ben accetta quando si trattava di uomini, ma nel contempo una forte disponibilità economica che finisce con fare identificare ricchezza ed essere ebreo. 
Se alla condizione sociale e a quella di appartenenza alla comunità ebraica aggiungiamo quella di omosessualità, la miscela esplosiva che condurrà Fadigati all'emarginazione più totale sarà così potente che non potrà avere che un esito tragico e drammatico. 

Bassani che amò Ferrara lancia anche un atto d'accusa contro quel mondo piccolo borghese fatto di comportamenti acquiescenti, spesso consenzienti nei confronti dei soprusi fatti anche di allusioni, di epiteti, di sguardi, di piccole cattiverie che condurranno il dottor Fadigati al suicidio. 
Un suicidio che rappresenterà l'unica via di fuga da una condizione in cui ogni rapporto finiva coll'essere pesantemente condizionato da una diversità mai vissuta in forma sfacciata ma sempre gelosamente nascosta con discrezione, quasi per non disturbare gli altri. 


Un ottimo libro scritto con stile fluente, ricco di sfumature che tratta un tema attuale con molta discrezione ma con una capacità di analisi introspettiva unica e piacevole per il lettore.

 

Opinione di proprietà dell'autore già pubblicata altrove


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24 luglio 2012 2 24 /07 /luglio /2012 14:57

Primo Levi è noto soprattutto per "Se questo è un uomo" che, senza il rischio di scadere nella retorica, possiamo definire un monumento alla memoria che sembra esser stato scalfito sulla pietra ad uso delle future generazioni. 
Ma non meno interessanti sono le altre opere dello scrittore torinese, opere che pur non potendo inscriversi in quel filone della cosiddetta "memorialistica", sono a pieno titolo delle riflessioni che traggono spunto dalla propria esperienza vissuta in ambito lavorativo. Come è noto Primo Levi era un chimico di professione che ebbe sempre una straordinaria volontà di capire e di raccontare. 

Merita pertanto una rivalutazione "La chiave a stella", il libro pubblicato nel 1978 che ha il pregio di parlare di lavoro sotto forma di dialogo; il dialogo si svolge tra due lavoratori italiani: un chimico delle vernici (la figura professionale dello stesso Levi) e un operaio specializzato. Tra i due si instaura immediatamente una corrispondenza e incominciano a parlare delle loro esperienze di lavoro. 
Uno dei due è tale Faussone detto Tino che ad un certo punto prende la decisione di lasciare la fabbrica Lancia dove lavorava in qualità di operaio addetto alla catena di montaggio e decide di andare all'estero a fare il montatore di gru a torre, di ponteggi, di strutture metalliche e di ponti sospesi. 
Quella del montatore all'estero era ed è una professione ben remunerata che portava e porta un lavoratore ad andare in giro per il mondo in tutti quei paesi in cui è richiesta manodopera specializzata. 
Bisogna considerare che circa 30/40 anni fa non esisteva ancora la concorrenza a basso costo dei lavoratori provenienti da aree quali la Cina e l'India e gli italiani erano considerati i migliori in determinati ambiti lavoratovi soprattutto in quelli che si occupavano della costruzione di sovrastrutture. 
Tino quindi gira per il mondo, va in India, Russia, in Africa e con lui vi è sempre un prezioso strumento: la chiave a stella (da qui il titolo del libro) necessaria per serrare i dadi. 
Il racconto di Tino è quindi un tributo anche ad un utensile che non lo tradisce mai e che, insieme alle sue mani, è artefice della sua fortuna. 

Dall'altra parte il chimico che a sua volta racconta le sue esperienze di lavoro indulgendo sulle qualità di una vernice che lui ha formulato, si tratta di una vernice speciale ad uso alimentare che deve proteggere le scatole di conserva dalla corrosione. 
Due storie apparentemente banali e comuni in quegli anni, ma la chiave di lettura del libro sta nell'invito che Tino dà al chimico invitandolo a desistere dal proposito di voler fare lo scrittore a cui si rivolge dicendogli:

 
"Guardi che fare delle cose che si toccano con le mani è un vantaggio". 

"Il sistema periodico" è chiaramente autobiografico, Primo Levi di professione chimico come il personaggio del libro si dedicò ad entrambe le attività: quella di scrittore e quella di chimico, senza dubbio oggi è ricordato per la sua attività di scrittore; la figura di Tino è quella che più fotografa la realtà operaia portata a semplificare la realtà e a vedere concretamente il mondo del lavoro. 
Il tema centrale è quindi quello del proprio lavoro che dovrebbe essere sempre un lavoro che si svolge perché lo si ama; è un tema che trovo attualissimo perché oggi pochi hanno la possibilità di scegliere quello che realmente gli piace e quando questo accade si realizza una parte della felicità dell'individuo, a tal proposito nel libro troviamo una felice espressione sul lavoro che viene definito "la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra". 

Un bel libro, positivo ed ironico che ci rivela un Primo Levi lontano dal dramma raccontato in "Se questo è un uomo".

 

 ...fare le cose che si toccano con le mani è un vantaggio....

 

Opinione di proprietà dell'autore già pubblicata altrove

 

 

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